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Russiagate, perquisizioni al Parlamento Europeo: l’operazione collegata all’inchiesta sulle sospette interferenze russe in Ue

Russiagate, si allarga l’inchiesta. Un’operazione congiunta di investigatori belgi e francesi ha scosso questa mattina il Parlamento Europeo con perquisizioni negli uffici di Bruxelles e Strasburgo.

L’indagine, come riportano il settimanale tedesco Der Spiegel e il quotidiano belga De Tijd, si collega a quella sul presunto ruolo del portale di notizie Voice of Europe in un’operazione di influenza russa volta a condizionare le elezioni europee e le attività all’interno del Parlamento.

Russiagate, perquisizioni al Parlamento Europeo: al centro delle indagini le notizie diffuse dal portale Voice of Europe

L’obiettivo principale delle perquisizioni è stato, sempre secondo Der Spiegel,  l’ufficio di un collaboratore dell’eurodeputato olandese di destra, Marcel de Graaff. Il dipendente avrebbe lavorato anche per l’eurodeputato tedesco dell’AfD Maximilian Krah ed è sospettato di essere stato coinvolto nel rilascio di un lasciapassare parlamentare a una donna arrestata in Polonia come spia russa.

Le autorità ceche, già allertate da informazioni di intelligence, hanno imposto sanzioni a Voice of Europe, con sede a Praga, definendola un’operazione di disinformazione e propaganda orchestrata da Mosca. Dietro l’operazione si ipotizza la figura di Viktor Medvedchuk, oligarca ucraino e stretto confidente del presidente russo Vladimir Putin.

Secondo le indagini, il portale non si sarebbe limitato a diffondere notizie e opinioni allineate con la narrativa del Cremlino, ma avrebbe anche svolto un ruolo attivo nel finanziamento occulto di candidati pro-Russia alle elezioni europee del 2019. Le stime parlano di un milione di euro utilizzati per sostenere esponenti di estrema destra e partiti populisti in diversi stati membri dell’Unione Europea.

La replica di Voice of Europe: speculazioni prive di fondamento

Voice of Europe ha respinto con fermezza le accuse, definendole “speculazioni prive di fondamento”. Il portale nega di aver ricevuto o distribuito denaro per influenzare le elezioni. Tuttavia, i sospetti non si sono placati.

Le perquisizioni odierne rappresentano un passo significativo nella lotta alle interferenze russe nelle istituzioni europee.L’inchiesta in corso punta a fare luce su un’operazione di disinformazione e influenza che potrebbe avere avuto un impatto significativo sulle elezioni europee e sulle attività del Parlamento.

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La parola indicibile sulla strage di Brescia

Ieri il governo si è dimenticato di commemorare la strage di piazza della Loggia. La strage di matrice neofascista di cinquant’anni fa probabilmente imbarazza ancora cinquant’anni dopo. Ma chi può sentirsi imbarazzato se non coloro che si sentono eredi della cultura politica dei mandanti?

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ieri ha detto che gli attentatori volevano «punire e terrorizzare chi manifestava contro il neofascismo e in favore della democrazia», ma era anche «un tentativo di destabilizzazione contro la Repubblica italiana e le sue istituzioni democratiche. In Italia vi era chi tramava e complottava per instaurare un nuovo regime autoritario. Contro la Repubblica, nata dalla lotta della Resistenza, che aveva indicato le sue ragioni fondanti nella democrazia, nella libertà, nel pluralismo, nella solidarietà, principi scolpiti nella Carta Costituzionale».

A Brescia a rappresentare il governo c’era la ministra Anna Maria Bernini. Il presidente del Senato Ignazio Maria Benito La Russa non è riuscito a pronunciare la parola “fascista”. Nè lui né il presidente della Camera erano presenti a Brescia. Rimane per terra il post con cui il quotidiano Secolo d’Italia scrive “Sì, la Repubblica italiana è a Brescia, dove c’era Mattarella. Ma è anche a Caivano dove c’era la premier”. Giorgia Meloni era a Caivano e in serata ha scritto “continueremo a lottare contro ogni forma di terrorismo, affinché libertà e democrazia restino i soli pilastri sui quali si fonda la nostra Nazione”. Ma anche a lei manca la parola indicibile. 

Buon mercoledì. 

Nella foto: La piazza pochi istanti dopo l’esplosione (Silvano Cinelli wikipedia)

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Ci vorrebbe un tappo anche alla propaganda

Da tre giorni è al centro del dibattito tra candidati e leader di partito per le prossime elezioni europee il tappo che non si stacca più dalle bottigliette di plastica. Il leader della Lega Matteo Salvini e lo staff di comunicazione del suo partito hanno ritenuto il fastidio del ruotare un tappo un elemento rilevante per la loro campagna elettorale, dedicandogli una card pubblicata sui social per denunciare “Eco-norme surreali volute da Bruxelles” a cui Salvini propone di opporsi in nome del sempre presente “buonsenso”, qualsiasi cosa significhi.

Nell’immagine un povero tizio si tortura le narici con espressione di lancinante sofferenza. La comunicazione politica di Salvini è spesso una sfrenata banalizzazione della realtà che mira agli stomaci più che alle idee. Del resto la direttiva europea sulla riduzione dell’incidenza di determinati prodotti di plastica sull’ambiente, in particolare dei prodotti monouso, è stato votato quando Salvini era al governo (era il primo governo Conte) e alcuni suoi deputati europei hanno votato a favore. Nessuno ha mai preso la parola in Aula. La direttiva europea è stata adottata dall’Italia durante il governo Draghi, sostenuto anche dalla Lega di Matteo Salvini.

Com’era prevedibile Salvini è stato dileggiato da molta gente, politici e non, sui social per la singolare scelta delle priorità politiche della sua campagna elettorale. Ieri il ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture intervistato sui tappi che si incastrano nel naso dei suoi elettori ha invitato a “occuparsi di temi più importanti”, mimando una superiorità di intenti a una comunicazione che ha innescato lui. Un capolavoro.

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“Leonardo, le guerre spingono i profitti ma allo Stato vanno gli spiccioli”

Leonardo, l’azienda partecipata attiva nei settori della difesa, dell’aerospazio e della sicurezza, ha “aumentato i profitti grazie alle guerre”, ma lascia “solo spiccioli allo Stato azionista” e “taglia i posti di lavoro”.

È questa la denuncia della Fondazione finanza etica (del gruppo Banca etica) e della Rete italiana pace e disarmo che hanno partecipato per l’ottavo anno consecutivo all’assemblea dei soci del colosso italiano partecipato per il 30,2% dal Ministero del Tesoro.

L’assemblea degli azionisti si è tenuta lo scorso 24 maggio, Fondazione finanza etica e  Rete italiana pace e disarmo hanno partecipato nell’ambito di un progetto di “azionariato critico” che prevede l’acquisto di quote (e quindi il diritto di partecipare all’assemblea dei soci) anche in altre società. L’assemblea dei soci di Leonardo si è tenuta a porte chiuse, con gli azionisti non in presenza, come accade anche per altre società, sfruttando un’eccezione concessa in tempi di pandemia che è diventata una regola. Dunque le domande al management sono state formulate in forma scritta, prima dell’assemblea. .

Cosa dicono Fondazione finanza etica e Rete italiana pace e disarmo

Fondazione finanza etica e Rete italiana pace e disarmo sottolineano come “la principale impresa militare contribuisce in misura molto limitata all’economia italiana mentre moltiplica i profitti per gli azionisti privati”. E spiegano: “Abbiamo inviato circa quaranta domande a Leonardo Finmeccanica, in particolare per capire quanto sia rilevante la produzione per l’economia nazionale, anche in termini di occupazione”, ha detto Simone Siliani, direttore di Fondazione Finanza Etica.

“Le risposte sul coinvolgimento di Leonardo nella produzione di armi nucleari sono sconfortanti: Leonardo partecipa a un programma francese per la produzione di un missile con testata nucleare. Tuttavia, poiché si tratta di un progetto classificato come “Special France”, Leonardo afferma di non poter accedere ad alcuna informazione in merito a causa delle rigide normative francesi sulla sicurezza strategica”. Francesco Vignarca, coordinatore campagne della Rete italiana pace e disarmo, ha constatato che “Leonardo non ha aumentato per nulla la trasparenza”, che “i dati sull’export militare sono esposti in maniera poco chiara” e ha lamentato la mancanza di “informazioni sulla suddivisione del fatturato e sugli occupati per singolo stabilimento”.

“Anche se parziali, – ha aggiunto Vignarca – i dati forniti dimostrano però che l’export militare di Leonardo ha una rilevanza ridotta: vale infatti intorno a 1,2 miliardi di euro nel 2023, su 15,3 miliardi di euro di ricavi totali della compagnia. Ben distanti dai livelli dichiarati da Aiad (Federazione aziende italiane per l’aerospazio, la difesa e la sicurezza), a dimostrazione di quanto l’industria delle armi sia poco strategica per l’interesse nazionale in termini di ritorni economici e occupazione”.

Vignarca sottolinea come Leonardo spa “che da sola controlla oltre il 70% della produzione e il 75% delle esportazioni italiane” abbia una “componente produttiva militare” che “è passata negli ultimi 15 anni dal 56% all’83%” sebbene “abbia ridotto i suoi occupati in Italia del 24%”.

“Nonostante le molte acquisizioni di commesse nel settore militare (come la partecipazione alla produzione dei nuovi caccia F-35 per la quale in Parlamento il governo aveva promesso 10.000 nuovi posti di lavoro) e le svariate acquisizioni d’impresa, il numero complessivo degli occupati di Leonardo SpA si è ridotto” ha spiega il coordinatore di Rete italiana pace e disarmo.

Leonardo, solo 49 milioni di euro di dividendi allo Stato italiano per l’anno 2023

Infine i dividendi: “appena 49 milioni di euro” che lo Stato italiano incasserà per l’anno 2023. “Mentre sono stati molto significativi i vantaggi degli altri azionisti che – a differenza del Ministero del Tesoro, azionista di lungo periodo – comprano e vendono azioni di Leonardo liberamente sui mercati azionari. Chi ha acquistato azioni di Leonardo nel gennaio del 2023 e le ha rivendute a fine dicembre, ha guadagnato circa il 70%. Il corso del titolo in borsa è stato aiutato dalla guerra in Ucraina e dal conflitto in Israele, con la corsa al riarmo di Europa e Nato”, ha concluso Vignarca.

Basandosi su una definizione tecnica di “extraprofitti” proposta dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo sviluppo economici (OCSE), uno studio stima che le imprese abbiano realizzato circa 2.000 miliardi di euro di profitti in eccesso a livello globale nel 2022, di cui 310 miliardi di euro originati nell’Ue.

Tassati con un’aliquota progressiva del 20-40%, questi profitti produrrebbero 107 miliardi di euro in fondi pubblici. In Italia il Movimento 5 stelle ha chiesto a più riprese “un contributo di solidarietà sugli ingenti extraprofitti messi a segno dalle aziende del comparto armi” senza ottenere risposta dal governo.

Leonardo, contattata da La Notizia, non ha voluto commentare.

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Pietà per i morti, nessun perdono per i collaborazionisti

Rispondere con il sangue dei bambini massacrando profughi è terrorismo. Rispondere alla Corte dell’Aia martoriando gli sfollati è la cifra politica di un governo che viene ritenuto democratico solo da un stuolo di miopi commentatori: Benjamin Netanyahu è un criminale di guerra alla stregua di Putin, di Hamas.

La “più grande democrazia del Medio oriente” è uno stato guidato da razzisti criminali che stanno riuscendo nel capolavoro di smentire perfino i suoi sostenitori più accaniti. “Siamo inorriditi, quello che è successo dimostra ancora una volta che nessun luogo è sicuro a Gaza. Continuiamo a chiedere un cessate il fuoco immediato e duraturo”, ha detto l’infermiera italiana Gaia Giletta da Rafah. Come spiega ActionAid “sono stati colpiti i rifugi di fortuna che ospitano sfollati palestinesi, situati accanto ai magazzini dell’Agenzia Onu per i profughi palestinesi (Unrwa), contenenti aiuti umanitari vitali. Luoghi – scrive l’Ong—che dovrebbero essere sicuri per i civili, e che invece sono diventati bersagli di una violenza brutale. Bambini, donne e uomini sono stati bruciati vivi sotto le loro tende”.

Pietà per i trucidati da entrambe le parti ma nessun perdono per chi, anche dalle nostre parti, è complice di un massacro che ha l’unico scopo di cancellare un popolo e uno Stato. E allora il primo passo è riconoscere quello Stato, la Palestina, per dimostrare che la comunità internazionale è capace almeno di porre un limite al suo stringere mani insanguinate. 

Buon martedì.  

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A scuola di referendum. O meglio di cul-de-sac

“Sul referendum costituzionale ho dato dei consigli a Giorgia Meloni. Del resto credo di essere un esperto della materia. La Meloni se perde dovrà dimettersi, che voglia o non voglia”. Con la presidente del Consiglio in evidente difficoltà su quella che doveva essere la “madre di tutte le riforme” e invece è già diventata ordinaria amministrazione da cui prendere le distanze, si butta il fuoriclasse di schianto contro il referendum Matteo Renzi, ex presidente del Consiglio che avrebbe dovuto abbandonare la politica e poi è passato dal governo Conte al governo Draghi fino all’alleanza con Calenda, poi a quella con Bonino e ora candidato alle elezioni europee.

Renzi promise di lasciare la politica e invece ci è rimasto con altalenante coerenza sulle sue posizioni

Sulla questione il senatore fiorentino ha fiuto e annusa sornione la tardiva presa di distanze di Meloni braccata, come spesso le accade, dalle sue stesse dichiarazioni trionfanti. Renzi però omette qualche piccolo particolare: in conferenza stampa dopo le dimissioni disse che non “ci sarebbe stata nessuna fuga” ma sarebbe rimasto “militante tra i militanti” nel Partito democratico e alla fine ha fondato un piccolo partito personale, di quelli che disprezzava da segretario del Pd. Renzi promise di lasciare la politica e invece ci è rimasto con altalenante coerenza sulle sue posizioni.

Renzi promise di rispettare l’opinione degli italiani e invece ha costruito la seconda fase della sua carriera politica sugli attacchi a coloro che hanno votato – secondo lui – in modo sbagliato. La lezione che Renzi può impartire a Meloni quindi non è sulle dimissioni da premier, scontate in caso di bocciatura del referendum. Al massimo può insegnare alla premier come perdurare in un cul-de-sac. E di questa lezione il Paese ne farebbe volentieri a meno.

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Meloni e l’Italia che corre. Ma i numeri e i fatti raccontano un’altra realtà

Non c’è solo l’attacco ai telespettatori di La7 (e quindi a qualche milione di italiani), nel suo videomessaggio pubblicato sui social dalla presidente del Consiglio. Giorgia Meloni sveste i panni da premier per indossare quelli della candidata di punta di Fratelli d’Italia e riparte la propaganda sull’Italia in crescita sfidando, a tratti, la realtà dei fatti e pure quella dei numeri.

Tra crescita, Export e Spread

“Oggi, pur in una situazione difficile, l’Italia è finalmente tornata a crescere più della media europea. È cresciuto l’export, è sceso lo spread e la Borsa italiana nel 2023 è stata la migliore in Europa. Ma soprattutto abbiamo toccato il tasso di occupazione più alto di sempre, aumentano i contratti stabili, aumenta l’occupazione femminile, diminuisce il rischio di povertà, e dopo tre anni i salari sono tornati a crescere più dell’inflazione”, ha detto Meloni.

Ma per il sito di fact checking Pagella Politica, che ha analizzato le parole della premier, le cose non stanno esattamente così. L’economia, ad esempio. I dati Eurostat dicono che nel 2023 il Pil italiano è cresciuto dello 0,9 per cento rispetto all’anno precedente, mentre la crescita media dell’Unione europea è stata pari allo 0,4 per cento.

L’anno scorso 12 Paesi Ue sono comunque cresciuti più dell’Italia, tra cui la Spagna (+2,5 per cento), mentre la Francia è cresciuta meno (+0,7 per cento) e in Germania il Pil è lievemente sceso (-0,2 per cento). Le previsioni pubblicate dalla Commissione europea prevedono per quest’anno una crescita del Pil dello 0,9% con una media europea dell’1%.

Per l’Osce l’Italia si fermerà allo 0,7%. Insomma, l’Italia non è la locomotiva d’Europa. L’export, a differenza di quanto sostenuto da Meloni, non cresce. Lo stesso Ministero degli Esteri certifica che i volumi delle esportazioni sono identici a quelle dell’anno precedente. L’Istat nella sua relazione scrive che “l’export nazionale in valore risulta stazionario ed è sintesi di dinamiche territoriali molto differenziate”.

La discesa italiana dello spread invece (come avviene per quasi tutti i Paesi europei) ha una motivazione semplice: il peggioramento delle condizioni economiche della Germania che hanno fatto aumentare il rendimento dei titoli tedeschi.

I dati sulla povertà assoluta

Meloni ha rivendicato anche un altro risultato: secondo lei, in Italia è diminuito il rischio di povertà. Come sottolinea Pagella Politica la presidente del Consiglio “ha omesso un altro dato importante per comprendere l’andamento della povertà nel nostro Paese”.

Secondo le stime preliminari più aggiornate di Istat, nel 2023 è leggermente aumentata la percentuale di cittadini e di famiglie che vive in povertà assoluta. Per quanto riguarda il rischio di povertà dice sempre l’Istat che la percentuale nel 2023 è calata rispetto all’anno precedente “grazie a misure che erano state introdotte prima dell’insediamento del governo Meloni (tra cui l’assegno unico universale) e che l’attuale governo ha solo modificato in parte”, spiega Pagella Politica.

I salari e l’inflazione

Infine, la presidente del Consiglio ha detto nel suo videomessaggio su La7 che, grazie al suo governo, “dopo tre anni i salari sono tornati a crescere più dell’inflazione”.

La leader di Fratelli d’Italia fa riferimento al rapporto annuale Istat dello scorso 15 maggio secondo il quale “le retribuzioni contrattuali orarie nel 2023 sono aumentate del 2,9 per cento, in rafforzamento rispetto al 2022”.

Nello stesso rapporto c’è però scritto che “i prezzi al consumo, seppure in decelerazione, hanno comunque segnato nel 2023 una crescita del 5,9 per cento, che ha determinato un ulteriore arretramento in termini reali delle retribuzioni”.

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Fondo Ue per gli aiuti all’Ucraina, Orban si rimangia la parola: Budapest pronta a bloccare il via libera

Dimenticate qualsiasi dibattito sulla strategia militare o diplomatica, dimenticate qualsiasi obiezione di natura realmente politica: come accade ogni sei mesi il presidente ungherese Viktor Orban blocca la creazione del Fondo di assistenza per l’Ucraina che dovrebbe finanziare le forniture di armi a Kyiv per 7,7 miliardi. È il solito Orban, che esiste quando riesce a far fallire le feste, come nel celebre film di Sorrentino, quello che andrà in scena oggi e domani a Bruxelles costringendo l’Unione europea a non licenziare il fondo inserito nella European Peace Facility. Eppure ci sarebbe un accordo politico già stretto, ma i patti sottoscritti da Budapest rischiano di rivelarsi parole al vento. 

Orban si rimangia la promessa di aiuti firmata a marzo

L’accordo politico risale al 18 marzo, quando l’Alto rappresentante per gli Affari esteri e per le politiche di sicurezza, Josep Borrell, aveva chiesto di accelerare i tempi per ovviare ai ritardi accumulati dagli Usa. L’accordo degli stati membri prevedeva 5 miliardi di euro da aggiungere ai 2,7 miliardi recuperati dalle sanzioni.

Due giorni dopo alla Camera la premier Giorgia Meloni in occasione delle sue comunicazioni al Parlamento prima del Consiglio europeo aveva sottolineato come, tanto per Orban che per Salvini, ciò che conta sono “le decisioni e i voti”, rivendicando il patto sottoscritto anche dal premier ungherese appena due giorni prima. Gli osservatori internazionali furono stupiti dall’assenso concesso dal governo ungherese con l’unica condizione che la sua quota fosse utilizzata solo per armi a scopo difensivo. Ora si scopre che lo stupore era giustificato.

Dal primo luglio l’Ungheria guiderà per sei mesi il Consiglio europeo

Ufficialmente l’Ungheria lamenta l’inclusione della sua banca Otp nell’elenco dei fiancheggiatori russi stilato da Volodymyr Zelensky . Otp opera effettivamente in Russia e nei territori occupati ma il presidente ucraino su pressioni dell’Ue ha accettato di depennare l’istituto dalla lista. Ora l’accusa di Orban s’è fatta ancora più fumosa: “Le imprese ungheresi sono boicottate dal governo ucraino”, dice.

Il copione sarà presumibilmente quello già visto a dicembre dell’anno scorso: l’Ungheria lascerà cadere il veto quando l’Ue sbloccherà per l’ennesima volta i suoi fondi per il paese membro che ora sono bloccati per le ripetute violazioni sullo Stato di diritto del governo di Budapest.

Torna in auge anche il piano a cui l’Europa aveva pensato in occasione della paralisi provocata dal Orban alla fine dell’anno scorso ovvero utilizzare l’articolo 7 del trattato europeo che prevede la possibilità di sospendere i diritti di adesione all’Unione europea (come il diritto di voto in seno al Consiglio dell’Unione europea) qualora un paese violi gravemente e persistentemente i principi su cui si fonda l’Ue. Ma la vicinanza delle elezioni europee e la prevista crescita dell’ala sovranista nel Parlamento europeo consigliano di evitare strappi.

La trattativa sotto traccia  sullo sblocco dei fondi verso l’Ungheria resta la strada più probabile. Ma dal primo luglio sarà proprio l’Ungheria a guidare il semestre con la presidenza di turno del Consiglio europeo e a quel punto il gioco al rialzo di Budapest nei confronti dell’Ue sarà ancora più facile. Sullo sfondo Putin sorride. 

 

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Meloni, il sasso, la mano, il premierato

Alla fine la spacca, non la va. O meglio, Giorgia Meloni ci fa sapere che il premierato che doveva essere “la madre di tutte le riforme” ora è una delle tante proposte sul tavolo di un governo che alimenta le promesse consapevole che ci sarà sempre qualche potere forte da usare in caso di fallimento. 

Qualche giorno fa la presidente del Consiglio aveva detto “o la va o la spacca” riferendosi alla riforma costituzionale per accentrare ancora più poteri al presidente del Consiglio. La frase non è stata indovinata. In Italia ogni volta che qualcuno pronuncia la modifica della Costituzione il pensiero scivola veloce alla sicumera con cui Matteo Renzi si è schiantato da presidente del Consiglio. La strategia quindi cambia in corsa: se la riforma non passa, dice Meloni, semplicemente «vorrà dire che gli italiani non l’hanno condivisa». 

La marcia indietro però puzza. Meloni che ha personalizzato ogni passo del suo governo, Meloni che gioca a fare l’uomo forte in mezzo a quei mollaccioni dei suoi alleati e a quei ridicoli dei suoi avversari ora indossa la maschera della statista per schivare la possibile frana. «Qualcuno si vuole opporre con il corpo a questa riforma», dice riferendosi alla segretaria del Pd Elly Schlein. È il solito artifizio retorico di parlare degli altri per fortificare la proiezione di se stessa. Il punto non è l’opposizione che per definizione si deve opporre (troppo poco, verrebbe da dire, osservando fin qui), il punto è che Meloni non ha ancora gettato il sasso e già ha tolto la mano perché sa bene che la spinta del suo cognome come brand non è una garanzia eterna. Ora le tocca fare politica, mostrare il cielo sopra il tetto di cristallo. Tanti auguri. 

Buon lunedì. 

Nella foto: la presidente del Consiglio Giorgia Meloni frame del video (pagina ufficiale Fb), festival dell’Economia di Trento, 24 maggio 2024

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Telemeloni e tutti giù a ridere

Dell’avversione per i giornalisti ne abbiamo parlato e ne parleremo ancora. Per un governo piantato sulla propaganda, l’esposizione dei fatti e la memoria delle regole saranno sempre nemici da mettere all’indice. Poi c’è l’enorme tema della comunicazione a senso unico di cui si parla troppo poco. 

Per farsi un’idea basta una data: il 4 gennaio. È dal 4 gennaio che la presidente del Consiglio non convoca una conferenza stampa, non risponde a domande, non apre i microfoni anche ai giornalisti non compiacenti, non si sottopone al necessario controllo democratico svolto dai media, elemento intermedio dei cittadini. 

I messaggi di Giorgia Meloni non sono mediati e non sono mediabili. Confezionati a metà tra il comunicato istituzionale e gli spot pubblicitari degli anni ottanta le parole della presidente del Consiglio vengono diffuse senza possibilità di dibattito. In Parlamento vengono difese dai suoi palafreni della maggioranza che quasi mai rispondono nel merito delle questioni. In televisione le sue parole soffiano barricate tra giornalisti legionari. In Rai rimbombano svilendo la storia e la credibilità delle reti pubbliche italiane. 

Che Giorgia Meloni gigioneggi sui suoi social come un’influencer che promuove il suo prodotto dileggiando la Rai e poi venga trasmessa dalla stessa Rai derisa è solo l’ultimo passo di un’occupazione sfrontata. Un servizio del Tg1 che trasmette Giorgia Meloni con il logo Telemeloni è uno svilimento che rimarrà negli annali. Non è simpatia, c’è poco da ridere. 

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