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Elezioni Ue: le posizioni dei partiti sul cambiamento climatico

A meno di tre settimane dalle elezioni europee dell’8 e 9 giugno, le posizioni dei partiti italiani sulla lotta ai cambiamenti climatici sono state delineate con maggiore chiarezza attraverso la pubblicazione dei rispettivi programmi elettorali. Uno dei temi centrali di questa tornata elettorale sarà il modo in cui affrontare la crisi climatica, la cui esistenza è riconosciuta da tutte le forze politiche, a differenza di quanto accaduto in passato.

Pagella politica nella sua newsletter A fuoco ha analizzato le diverse posizioni. L’unica lista elettorale a non menzionare la lotta ai cambiamenti climatici nel suo programma è “Libertà” di Cateno De Luca, mentre gli altri schieramenti hanno espresso posizioni contrastanti sul Green Deal europeo, il piano con cui l’Unione europea mira a diventare il primo continente a impatto climatico zero entro il 2050.

I Partiti di Governo: Revisione del Green Deal

 I partiti di destra che sostengono il governo Meloni, ovvero Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia, chiedono una revisione del Green Deal europeo, ritenendolo troppo ideologico e potenzialmente dannoso per l’economia.

Fratelli d’Italia riconosce la “crisi climatica” e il ruolo cruciale degli agricoltori nel fronteggiarla, ma propone di “rivedere la normativa sul ripristino della natura” per non penalizzare agricoltura e allevamento, e di “cambiare le eco-follie del Green Deal”. Il partito di Giorgia Meloni vuole “modificare radicalmente la direttiva sulle case green” e “cancellare il blocco alla produzione di auto a motore endotermico dal 2035”, sostenendo che il raggiungimento degli obiettivi climatici deve essere economicamente e socialmente sostenibile, senza approcci ideologici o oneri sproporzionati.

La Lega, guidata da Matteo Salvini, promette di “affrontare le politiche climatiche con maggior pragmatismo per evitare di de-industrializzare l’Unione europea”, rivedendo il Green Deal “da cima a fondo”. Anche Forza Italia, il partito di Antonio Tajani, chiede di passare “da un Green Deal ideologico a un Green Deal realistico”, rivedendo il pacchetto di iniziative che rischia di danneggiare settori chiave dell’economia italiana.

Le Opposizioni: Difesa o Critica al Green Deal 

Dall’altro lato, alcuni partiti dell’opposizione difendono il Green Deal e chiedono misure e obiettivi climatici ancora più ambiziosi, mentre altri lo contestano.

Il Partito Democratico, guidato da Elly Schlein, ritiene che l’Europa debba consolidare la leadership mondiale nel contrasto all’emergenza climatica, investendo in innovazione, sostenibilità, ricerca e green economy. Il PD propone strumenti per la decarbonizzazione del sistema energetico, il rafforzamento della direttiva sul monitoraggio del consumo di suolo e la creazione di un’Agenzia europea per la manutenzione del territorio e il contrasto al dissesto idrogeologico.

Il Movimento 5 Stelle, con un programma di 103 pagine di cui dieci dedicate al capitolo “Energia e clima”, propone il rafforzamento del Green Deal, la creazione di un fondo per le energie rinnovabili e l’efficientamento energetico degli edifici, l’introduzione di una tassa sugli extraprofitti delle compagnie energetiche, l’estensione del sistema della cessione dei crediti d’imposta per finanziare la transizione ecologica e la piantumazione di tre miliardi di alberi in Europa entro il 2030.

Alleanza Verdi-Sinistra, composta da Europa Verde e Sinistra Italiana, difende e vuole rafforzare il Green Deal per raggiungere la neutralità climatica e un’Europa alimentata al 100% da energie rinnovabili entro il 2040, anticipando l’obiettivo attuale del 2050. La lista propone un “Fondo europeo per gli investimenti ambientali e sociali” da almeno 2.000 miliardi di euro per finanziare investimenti green, trasporto pubblico ed efficientamento energetico delle case.

Posizioni Critiche e Proposte

 Radicali Azione-Siamo Europei, la lista di Carlo Calenda, pur riconoscendo la necessità di azioni sul clima, contesta le politiche climatiche adottate dall’Ue negli ultimi anni, proponendo di riformare la tabella di marcia del Green Deal, accusato di avere “un forte impianto ideologico”. Calenda propone di rinviare almeno al 2035 gli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra attualmente fissati al 2030 e di “rifiutare ulteriori innalzamenti dei target di decarbonizzazione”.

La lista “Stati Uniti d’Europa“, composta da Italia Viva di Matteo Renzi e Più Europa, menziona solo brevemente la “lotta al cambiamento climatico”, ispirandosi a un “principio di ragionevolezza e gradualità, tutelando allo stesso tempo l’industria e i posti di lavoro”.

Infine, la lista “Pace Terra Dignità” dell’ex giornalista Michele Santoro propone una “transizione ecologica radicale” basata sull’economia circolare, puntando a contenere il surriscaldamento in un grado e mezzo entro il 2030 attraverso misure come la riduzione del consumo di carne, dell’uso dell’aereo e degli sprechi di acqua.

Il Futuro del Green Deal nell’Unione Europea

Nonostante le posizioni divergenti sui temi climatici, il futuro del Green Deal europeo non dipenderà esclusivamente dall’esito delle elezioni italiane, poiché l’Italia elegge solo 76 parlamentari europei su 720. Sarà la maggioranza che si formerà all’interno del nuovo Parlamento europeo a determinare il destino del Green Deal, attraverso l’elezione della presidenza della Commissione europea, il principale organismo esecutivo dell’Unione europea.

Se i partiti di destra e conservatori incrementeranno i loro voti e troveranno un’intesa per allearsi, il rischio – o la possibilità, a seconda dei punti di vista – che il Green Deal sia ridimensionato sarà concreto. D’altra parte, una maggioranza favorevole potrebbe rafforzare ulteriormente le politiche climatiche dell’Unione europea.

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Solito Khan Khan

C’è in giro una fronda che pur di correre in difesa del capo del governo israeliano Benjamin Netanyahu non trova niente di meglio che attaccare Karim Ahmad Khan, il procuratore della Corte penale internazionale che, come ha spiegato alla Cnn, vuole dimostrare che la Cpi è indipendente e imparziale e quindi capace di perseguire i capi di Hamas come il capo del governo israeliano e il suo ministro della Difesa, Yoav Gallant.

Ciò che colpisce – ma non stupisce – del dibattito scaldato dal tifo che accompagna tutte le guerre è che per difendere il governo israeliano ci si concentri sull’accusatore più che sull’accusa, seguendo il vecchio canone del berlusconismo che è stato e che non smette ancora di esserci. 

L’effetto è inevitabilmente deprimente e svela l’ipocrisia di fondo che è la costante di tutte le guerre. Il quotidiano Il Foglio, solo per citare un esempio, quando la Cpi mise nel mirino il presidente russo Vladimir Putin scriveva: “La decisione rimette in ordine le regole internazionali”. La Corte penale quindi era un esempio di giusta applicazione delle leggi. Ora invece scrive che “la giustizia modello Corte penale è una roba per idioti incapaci di crescere e pensare”. 

Per attaccare Khan i garantisti spiegano che il procuratore in passato ha difeso da avvocato anche dei criminali. Bella scoperta, è il mestiere degli avvocati. Poi aggiungono che è stato eletto procuratore con i voti dei dittatori africani, omettendo che fu sostenuto anche da Usa e Israele.

Magari tra poco lo prenderanno di mira pure per il colore dei calzini, come ai vecchi tempi, quando l’attacco ai giudici era un modo per difendersi dai processi e non nei processi. 

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Lighthouse Reports: “Incassano fondi Ue e scaricano i migranti nel deserto”

Secondo un’inchiesta condotta dal collettivo di giornalisti Lighthouse Reports, i finanziamenti dell’Unione Europea vengono utilizzati in alcuni dei Paesi africani beneficiari per operazioni sistematiche di espulsione di rifugiati e migranti nei deserti e nelle aree remote del Marocco, della Mauritania e della Tunisia. Queste pratiche costituiscono gravi violazioni dei diritti umani.

L’inchiesta di Lighthouse Reports in Tunisia, Marocco e Mauritania: i fondi Ue per ridurre le partenze usati anche per operazioni illegali

L’indagine rivela che l’Ue ha inviato centinaia di milioni di euro a questi paesi nordafricani ogni anno per la “gestione della migrazione”, con l’obiettivo di ridurre il numero di persone che cercano di raggiungere l’Europa. Tuttavia, i fondi europei stanno contribuendo a operazioni illegali in cui rifugiati e migranti, molti dei quali diretti verso l’Ue, vengono arrestati in base al colore della loro pelle, caricati su autobus e abbandonati in aree desertiche senza acqua, cibo o assistenza.

Attraverso testimonianze di oltre 50 sopravvissuti, prove video e indagini sul campo, i giornalisti hanno documentato casi di persone lasciate in zone remote, esposte a rischi di rapimento, estorsione, tortura, violenza sessuale e potenzialmente morte. Alcuni vengono addirittura consegnati ai trafficanti di esseri umani e alle bande criminali al confine.

L’inchiesta ha geolocalizzato e verificato 13 incidenti in Tunisia tra luglio 2023 e maggio 2024, in cui gruppi di neri sono stati arrestati nelle città o nei porti e trasportati vicino ai confini libici o algerini, abbandonati o consegnati alle forze di sicurezza libiche. In Marocco, i giornalisti hanno filmato le Forze Ausiliarie paramilitari mentre raccoglievano persone di colore dalle strade di Rabat e le detenevano prima di caricarle su autobus non contrassegnati diretti in aree remote.

In Mauritania, è stato osservato un centro di detenzione nella capitale Nouakchott, dove rifugiati e migranti venivano portati da agenti di polizia spagnoli prima di essere trasferiti con autobus bianchi verso il confine con il Mali, una zona di guerra attiva.

Migranti abbandonati nel deserto

Sebbene i funzionari europei abbiano negato che i fondi vengano utilizzati per violare i diritti umani, l’inchiesta ha ottenuto documenti interni che dimostrano che l’UE era a conoscenza di queste pratiche almeno dal 2019. Un consulente che ha lavorato a progetti finanziati dall’UE ha affermato che l’obiettivo era “rendere difficile la vita dei migranti”.

L’indagine ha anche rivelato che l’UE sta finanziando direttamente le forze ausiliarie paramilitari marocchine coinvolte negli arresti razziali. Analisti e accademici affermano che i legami di finanziamento europei rendono l’UE responsabile di questi abusi secondo il diritto internazionale.

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A Gaza colpiti 31 ospedali su 36

Nella Striscia di Gaza sono stati colpiti dalle forze israeliane 31 ospedali su 36. 31 ospedali su 36 vengono definiti “danneggiati” o “distrutti” e a dare i numeri non è Hamas ma l’Alto rappresentante europeo per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il commissario europeo per la gestione delle crisi, Janez Lenarcic. 

L’Oms (non Hamas) ha registrato un totale di 890 attacchi a strutture sanitarie, di cui 443 a Gaza e 447 in Cisgiordania: “Tra quelli distrutti c’è l’ospedale Al-Shifa, il più grande complesso medico della Striscia, che rimane oggi completamente fuori servizio”. 

Le testimonianze sul campo (non Hamas) descrivono una situazione drammatica. Un operatore sanitario di Medici senza frontiere racconta che dall’inizio della guerra ha dovuto lasciare ben 12 strutture sanitarie dopo avere subito “26 incidenti violenti, tra cui attacchi aerei che hanno danneggiato gli ospedali, carri armati che hanno sparato contro i rifugi di Msf le cui posizioni erano condivise con le parti in conflitto, offensive di terra contro i centri medici e convogli colpiti”.

L’ospedale da campo a Rafah è stato evacuato perché considerato non sicuro.

Borrel e Lenarcic (non Hamas), in una lettera congiunta, scrivono che gli ospedali di Gaza che sono rimasti in piedi “sono parzialmente funzionanti e operano con gravi limitazioni. A causa della situazione disastrosa, molti di essi sono sull’orlo del collasso o hanno dovuto essere chiusi. L’accesso alle cure mediche di emergenza è ancora più cruciale in un momento in cui i palestinesi di Gaza vivono sotto un costante bombardamento e più di 9.000 feriti gravi rischiano di morire a causa della mancanza di un’adeguata assistenza sanitaria”.

Buon mercoledì. 

In foto ospedale Al Quds di Gaza dopo i bombardamenti israeliani

Foto di ISM Palestine – originally posted to Flickr as Al-Quds hospital, Gaza City, following Israeli shelling, CC BY-SA 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=5774348

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La maggioranza italiana si sgretola a Bruxelles

Ospite della trasmissione Quarta Repubblica su Rete 4 il ministro degli Esteri e presidente di Forza Italia nonché uomo di punta del Partito popolare europeo Antonio Tajani ha spiegato che la dissociazione dell’identità politica mostrata da Giorgia Meloni in occasione del suo intervento alla manifestazione del partito spagnolo di ultradestra Vox non è un problema.

“Meloni è la Presidente del Consiglio italiana, ma è anche la leader dei Conservatori e riformisti europei” e all’evento di Vox “è andata come leader dei Conservatori”, ha detto Tajani, forse dando per scontato che la leader di Fratelli d’Italia assuma posizioni diverse in base alla platea che ha di fronte. “Non ho nulla a che fare con la Le Pen che non è europeista, io sì e sono un patriota italiano”, ha rimarcato Tajani auspicando “una maggioranza tra popolari, liberali e conservatori”.

Tajani si è dimenticato di dire che pur non avendo nulla a che fare con Marine Le Pen si ritrova al governo con Matteo Salvini, suo scudiero in salsa italiana. Ricapitolando: Meloni in Europa sogna un’alleanza con il gruppo di ultradestra di Le Pen e di Salvini e spera di potersi sbarazzare di Ursula von der Leyen che è la candidata alla Commissione europea dei Popolari di cui fa parte Tajani. Salvini non vuole che i conservatori (quindi Meloni) si alleino con i Popolari (quindi Tajani). Tajani non vuole il gruppo di Salvini ma auspica una maggioranza con Meloni. Senza timore di smentita si può scrivere che la maggioranza di governo qui in Italia non solo non esiste in Europa ma addirittura a Bruxelles pone veti. Governano con quelli che a Bruxelles considerano indesiderabili, quindi.

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Iuventa, il Gup di Trapani: “Mai nessun accordo tra trafficanti e Ong”

Lo scorso 19 aprile, dopo 7 anni, si era chiuso con il non luogo a procedere il procedimento penale nei confronti dei componenti dell’equipaggio delle ong Jugend Rettet, Save The Children e Medici Senza Frontiere accusate dai pm di Trapani di aver stretto accordi con i trafficanti di uomini e di non aver prestato in realtà soccorso ai profughi ma di aver fatto loro da “taxi”, trasbordandoli dalle navi libiche alle quali poi avrebbero permesso di tornare indietro indisturbate.

Trafficanti, depositate le motivazioni del non luogo a procedere nel cosiddetto processo Iuventa che vedeva coinvolte tre Ong

Ora il Gup di Trapani ha depositato le motivazioni della sua sentenza che sanciscono come “la direzione delle condotte” dell’equipaggio della nave Iuventa – non risulta affatto correlata all’ingresso illegale in Italia dei migranti, ma va inquadrata nello specifico contesto delle operazioni di soccorso”. Il giudice sottolinea anche “come l’obbligo di soccorso in mare sia previsto dal diritto consuetudinario internazionale, da numerose convenzioni internazionali e dal diritto interno”. 

La sentenza esclude “qualsiasi consegna concordata di migranti tra i trafficanti e le Ong” e anzi definisce “del tutto distoniche” le circostanze portate dall’accusa. Per il giudice la Procura “nella ricostruzione delle singole vicende, aveva talvolta concentrato l’attenzione e valorizzato oltremodo aspetti di portata dimostrativa limitata, senza tenere conto complessivamente di tutti gli elementi disponibili o comunque agevolmente acquisibili, e da dati del tutto incerti e privi di significato univoco aveva sviluppato valutazioni e raggiunto conclusioni presentate come certe”. 

Le indagini sui presunti “taxi del mare” sono durate quasi 5 anni e sono costate 3 milioni di euro

Le indagini del cosiddetto caso Iuventa sono durate quasi cinque anni, utilizzando anche un agente sotto copertura. Vennero intercettati molti giornalisti che non erano indagati ma si occupavano spesso di immigrazione: fu un fatto controverso, dato che la sorveglianza telefonica di persone non indagate dovrebbe essere fatta solo in casi rari ed eccezionali. L’indagine è costata circa 3 milioni di euro. 

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Antigone boccia il nuovo ddl Sicurezza: “Con questa legge anche Ghandi sarebbe incarcerato”

“È con misure di welfare comunale e di dialogo sociale, non criminalizzando le persone che un Governo dovrebbe agire di fronte a comportamenti che affondano le proprie radici nella disuguaglianza sociale ed economica”.

Questo in sintesi il pensiero dell’associazione Antigone e dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) sul nuovo ddl sicurezza in discussione in Parlamento (“Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario”). 

Secondo le due associazioni il testo presenta un evidente contrasto con troppi principi costituzionali che reggono il nostro ordinamento giuridico, in particolare nel campo del diritto penale, del diritto dell’immigrazione e del diritto penitenziario. “Le nuove disposizioni che il Governo vorrebbe introdurre appaiono, infatti, impostate ad una logica repressiva, securitaria e concentrazionaria: la sicurezza è declinata solo in termini di proibizioni e punizioni, ignorando che è prima di tutto sicurezza sociale, lavorativa, umana e dovrebbe essere finalizzata all’uguaglianza delle persone. Il disegno di legge del Governo strumentalizza, invece, le paure delle persone e contravviene ai doveri di solidarietà di cui all’articolo 2 della Costituzione” dichiarano le associazioni nell’introduzione al documento presentato ai parlamentari delle Commissione Giustizia e Affari Costituzionali della Camera dei Deputati.

Asgi e Antigone denunciano il rischio di scivolare in un “modello autoritario e repressivo”: “il disegno di legge del Governo strumentalizza le paure delle persone”

Per Antigone e Asgi si rischia di scivolare in un “modello autoritario e repressivo nelle nostre comunità colpendo anche con intenti discriminatori, diverse situazioni di marginalità sociale”. Il disegno di legge, presentato da alcuni membri della maggioranza come legge “anti Rom” cancella la possibilità di rinvio della pena per le donne in stato di gravidanza, “norma dall’evidente contenuto simbolico, finalizzata a reprimere un particolare gruppo sociale, connotato sul piano culturale, ossia le donne rom”, secondo le associazioni. 

È prevista anche la definizione del nuovo reato di “rivolta carceraria” che – secondo le associazioni – equiparerà le proteste violente con quelle non violente.

Se qualcuno si opporrà in maniera pacifica agli ordini in partiti in un carcere o in un centro di accoglienza o un centro di permanenza per il rimpatrio (CPR), ad esempio rifiutandosi di rientrare in una cella sovraffollata, potrà subire una pena che può arrivare fino ad 8 anni di reclusione, con anche la previsione del 4-bis, un regime particolarmente severo di cancellazione dei benefici penitenziari, pensato inizialmente per i reati di terrorismo e criminalità organizzata.

Per Antigone e Asgi c’è il rischio “di stravolgere il modello penitenziario repubblicano e costituzionale

Antigone e Asgi vedono il rischio “di stravolgere il modello penitenziario repubblicano e costituzionale, ricollegandosi al regolamento fascista del 1931” a causa della “logica repressiva delle lotte sociali che caratterizza il disegno di legge”.

Infine le associazioni osservano che la nuova legge porterebbe alla proliferazione delle “armi nelle strade e, più in generale, nei luoghi pubblici, consentendo a circa 300 mila persone appartenenti alle forze dell’ordine di usare un’altra arma, diversa da quella di servizio, mettendo a rischio la sicurezza delle persone, in una deriva del modello securitario che tenderebbe così ad assomigliare sempre più a quello statunitense”.

La stroncatura è netta: “Non è sicurezza ma disumanità” quindi il testo viene ritenuto di fatto “inemendabile”. “Con questa legge anche Gandhi verrebbe incarcerato”, dice il presidente di Antigone Patrizio Gonnella. 

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L’Ue divisa sulla richiesta d’arresto per Netanyahu. L’Italia in linea con la posizione Usa

La richiesta d’arresto di Netanyahu  spacca l’Unione europea. Che la politica israeliana reagisse rabbiosamente alla richiesta del procuratore capo della Corte penale internazionale (Cpi) di emettere un mandato di arresto nei confronti del primo ministro di Israele, in quanto “ci sono ragionevoli elementi per credere che il premier israeliano Benjamin Netanyahu abbia compiuto crimini di guerra e contro l’umanità” era facilmente prevedibile.

Le reazioni degli Stati membri dell’Unione europea sono la plastica rappresentazione dell’eterogeneità. Ognuno per conto suo. Per il Belgio “i crimini commessi a Gaza devono essere perseguiti al più alto livello, indipendentemente dai colpevoli”. Lo ha scritto il ministro degli Esteri belga, Hadja Lahbib, in una dichiarazione su X, sottolineando il sostegno del Belgio al lavoro della Cpi.

Posizione simile anche per il ministro degli Esteri sloveno secondo cui i crimini di guerra e contro l’umanità sul territorio palestinese “devono essere perseguiti in modo indipendente e imparziale indipendentemente dagli autori”. “La responsabilità è fondamentale per prevenire le atrocità e per garantire la pace”, ha scritto il ministero sui suoi canali ufficiali. 

Biden detta la linea: “Non c’è equivalenza tra Hamas e Israele”. Molti Paesi Ue lo seguono. Ma il procuratore della Cpi chiede di non “applicare la legge in modo selettivo”

Di posizione opposta il primo ministro ceco Petr Fiala che parla di una “decisione spaventosa e completamente inaccettabile” sostenendo che la proposta del procuratore capo della Cpi ha il difetto di mettere insieme “i rappresentanti di un governo democraticamente eletto insieme ai leader di un’organizzazione terroristica islamista”.

È la stessa linea tenuta dal cancelliere austriaco Karl Nehammer: “Rispettiamo pienamente l’indipendenza della Cpi. – scrive il capo del governo di Vienna -. Tuttavia, il fatto che il leader dell’organizzazione terroristica Hamas il cui obiettivo dichiarato è l’estinzione dello Stato di Israele venga menzionato contemporaneamente ai rappresentanti democraticamente eletti di quello stesso Stato non è comprensibile”.

Critica anche la posizione del Regno Unito. Il primo ministro Rishi Sunak attraverso il suo portavoce ha spiegato che “questa azione non fa nulla per aiutare a raggiungere una pausa nei combattimenti, far uscire gli ostaggi o ottenere aiuti umanitari e fare progressi verso un cessate il fuoco sostenibile che vogliamo vedere”.

Dalla Germania alla Francia: ognun per sé. L’Italia in linea con la posizione degli Stati Uniti

La Germania ieri in tarda serata ha emesso un comunicato con un lungo preambolo in cui afferma di rispettare la Cpi, importante perno della comunità internazionale, ma sottolinea come “la domanda simultanea di mandati di arresto contro i leader di Hamas da un lato e i due funzionari israeliani dall’altro ha dato la falsa impressione di un’equazione”.

Anche dall’altra parte dell’oceano il presidente Usa Joe Biden critica “l’equivalenza” tra il governo di Israele e Hamas. “Lasciatemi essere chiaro”, ha detto Biden, “rifiutiamo la domanda della Cpi per i mandati di arresto contro i leader israeliani. Qualunque cosa possano implicare questi mandati, non c’è equivalenza tra Israele e Hamas.

Oggi sulla questione è intervenuto anche il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani. Con una dichiarazione allineata alla posizione Usa: “Mi pare veramente singolare – dice il leader di Forza Italia -, direi inaccettabile, che si equipari un governo legittimamente eletto dal popolo a una organizzazione terroristica che è la causa di tutto ciò che sta accadendo in Medio Oriente”.

La Francia invece “sostiene la Corte Penale Internazionale (Cpi), la sua indipendenza, e la lotta contro l’impunità in tutte le situazioni”: lo ha fatto sapere ieri uno dei portavoce del ministero dell’Europa e degli Affari esteri francese in merito alla richiesta di mandati d’arresto internazionali nei confronti di dirigenti israeliani e di Hamas. 

Il procuratore capo della Cpi ieri ha voluto essere chiaro “su una questione fondamentale: se non dimostriamo la nostra volontà – ha detto Karim Khan – di applicare la legge allo stesso modo, se è vista come applicata in modo selettivo, creeremo le condizioni per il suo collasso”. 

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Privatizzazioni, la Cgil contro il piano del governo: “Un saldo nel vuoto”

Il governo tira dritto sulle privatizzazioni. Si comincerà con Poste, Eni e Raiway. Il piano annunciato dal governo entra nel vivo. L’obiettivo è recuperare almeno 20 miliardi di euro (lo 0,71% del debito pubblico) e la Cgil lancia l’allarme: “gli effetti saranno uffici chiusi, lavoratori licenziati, servizi azzerati, investimenti ridotti all’osso”, scrive il sindacato che lancia la campagna “Saldo nel vuoto” con l’obiettivo di “fermare questo scempio”. 

“La Cgil dice no. Perché le privatizzazioni hanno già fallito in passato, perché così si distruggono occupazione e professionalità, perché fare cassa è il contrario di avere una visione di sviluppo. Perché economicamente non conviene: è più ciò che si perde che quello che si guadagna. E perché, soprattutto, i cittadini, ognuno di noi, perderà qualcosa: un servizio, un posto di lavoro”, si legge nella nota che accompagna l’annuncio dell’iniziativa. 

Il governo tira dritto: si inizia con Poste, Eni e RaiWay. Per la Cgil saranno gli effetti saranno “uffici chiusi, licenziamenti, servizi ridotti”

Le privatizzazioni sono previste nella manovra finanziaria del 2024, con la previsione di incassare 20 miliardi di euro in tre anni. Per il segretario federale della Cgil Pino Gesmundo si tratta di “una realtà fatta di propaganda politica che nulla ha a che vedere con le azioni concrete che andrebbero introdotte per tutelare e rilanciare il sistema industriale del Paese” senza “visione strategica e di sistema, necessaria a orientare (anche) il mercato e costruire filiere nei settori strategici, catene del valore in grado di far crescere l’economia e creare occupazione stabile, professionalizzata e per gestire le innumerevoli crisi aziendali già in atto”. 

Il sindacato sottolinea come “si svendono infrastrutture strategiche del Paese, che rischiano di essere preda di speculazioni finanziarie e per le quali la discussione e il confronto semplicemente non esistono” e lamenta che nessun vero confronto con il ministro alle Finanze Giancarlo Giorgetti sia mai stato avviato. “Chiameremo alla mobilitazione le lavoratrici e i lavoratori, e ovviamente i cittadini, per impedire qualsiasi scelta che metta a repentaglio il futuro di asset strategici, nell’interesse dei dipendenti e del Paese tutto”.

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«Mettere il rossetto al maiale»

È un piccolo passo ma non è roba da poco. Nella pelosa vicenda di Julian Assange, fondatore di Wikileaks che rischia 175 anni di carcere negli Usa per avere svelato al mondo notizie che il potere avrebbe voluto omettere, perfino sapere di avere il diritto di presentare appello è una buona notizia. 

I giudici britannici dell’Alta Corte, sullo Strand, hanno messo nero su bianco i tre motivi per cui Assange ha il diritto di fare appello: la sua estradizione è incompatibile con i suoi diritti alla libertà di espressione sanciti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, la possibilità di essere discriminato in un processo negli Usa a causa della nazionalità australiana che non gli consentirebbe di appellarsi al primo emendamento e il rischio concreto di incorrere nella pena di morte. Sono i tre punti che da anni ripetono i legali di Assange e gli attivisti in sua difesa in tutto il mondo.  

Ci sarebbe poi un quarto motivo, quello che interessa tutti noi: fare passare il giornalismo per spionaggio è una pratica pericolosa per la compressione del diritto di essere informati. Ma su questo ci sarà tempo per discuterne e soprattutto per accorgersene. Ora si dovrebbe chiudere quanto prima questa tortura che vede un uomo con l’incontestabile merito di avere svelato al mondo i crimini della guerra in Iraq e Afghanistan – che rimane un’ottima lezione per le guerre d’oggi – ridotto a una larva in un carcere duro nel Regno Unito dopo anni passati nei pochi metri quadrati dell’ambasciata londinese in Ecuador.

La moglie Stella ieri ha detto che gli Usa vorrebbero “mettere il rossetto al maiale” per rendere potabile un gioco sporco. Forse sarebbe il caso di smettere. 

Buon martedì. 

Nella foto: frame del video dei sostenitori di Assange, Londra, 20 maggio 2024

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