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Meloni ostaggio di Salvini: la destra si logora nel governo

Solo nella giornata di ieri il vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini ha attaccato (per l’ennesima volta) Antonio Tajani, leader di Forza Italia, e il dipartimento economia della Lega ha criticato il viceministro all’Economia Maurizio Leo, in quota Fratelli d’Italia.

Nell’arco di poche ore la Lega è riuscita nella mirabile impresa di litigare con i suoi due alleati di governo. Matteo Salvini se l’è presa con Tajani invocando il Golden Power (che assegna a Palazzo Chigi poteri speciali volti a salvaguardare la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico quando vi sono operazioni tra soggetti privati che potrebbero metterla in discussione) per l’operazione Unicredit-Bpm. Smentendo il leader di Forza Italia, Salvini ha voluto precisare che la questione attiene al ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, esautorando quindi Tajani dalla partita.

Nel pomeriggio la Lega ha invece vergato una nota che definisce “sbagliata, nel merito e nel metodo, la pioggia di lettere che l’Agenzia delle Entrate ha riversato sui contribuenti italiani” puntando il dito contro il meloniano Leo al ministero dell’Economia. Tra Leo e Lega, da giorni si registrano tensioni anche sulla maxi rottamazione delle cartelle esattoriali voluta dal partito di Salvini e osteggiata dal viceministro.

Gli sgambetti tra i partiti di governo sono ormai all’ordine del giorno, con Salvini nella parte del leone che prova a non affondare nel caos del suo partito in vista del congresso regionale in Lombardia e del prossimo congresso federale. Giorgia Meloni insiste: «Siamo uniti». Convinta lei.

Buon venerdì.

Nella foto: il Consiglio dei ministri a Cutro, 9 marzo 2023

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Il danno e la beffa sul Web: peggio navighi, più paghi

Il 15 ottobre è stato assegnato alla Commissione Attività produttive il disegno di legge “Disposizioni in materia di economia dello spazio”. In calce c’è la firma della presidente del Consiglio Giorgia Meloni. All’articolo 25 si presta particolare attenzione ai “servizi di comunicazione satellitari” promettendo i criteri per la selezione dei soggetti responsabili delle infrastrutture terrestri e spaziali, e il valore complessivo di un’eventuale gara per l’aggiudicazione dei servizi. Sarà probabilmente solo un caso, ma una delle maggiori tecnologie del settore è la connessione satellitare Starlink esclusiva della società americana SpaceX, una delle aziende di Elon Musk che da tempo cerca di sbarcare in Italia superando la ritrosia di Tim.

Del resto l’indagine Sogei dello scorso ottobre ci ha già detto come al governo pensassero a Musk per risolvere con urgenza il problema delle “zone bianche” (lì dove non arriva la fibra) in Italia. Ora l’emendamento 76.07 al Disegno di Legge di Bilancio 2025, introduce alcune misure per accelerare il passaggio dalle reti in rame alle tecnologie di banda ultra larga. Oltre al danno c’è anche la beffa: si prevede infatti lo switch-off a tappe forzate della rete in rame entro termini predeterminati e un incremento per legge del 10% sui prezzi dei servizi in rame a partire dal 1° gennaio 2025. Chi non ha internet veloce dovrà pagare quindi di più il suo servizio di internet lento, dovuto alle carenze strutturali di un Paese che anche in questo corre a due velocità. A pensare male si fa peccato ma l’aumento dei prezzi potrebbe spingere in consumatori ad affidarsi al servizio che funziona anche in zone difficili: Starlink di Elon Musk.

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Macronismo all’italiana

Deve essere difficile per i molti affezionati fans di Macron in Italia ritrovarsi a fare i conti con il fallimento del loro idolo. Forse è proprio per questo che suoi giornali italiani fioccano dolenti editoriali che fremono per dare la colpa a Marine Le Pen e Jean-Luc Mélenchon. 

I liberisti italiani che nuotano tra le macerie del cosiddetto Terzo polo da anni sono alla ricerca di un nuovo idolo da stampare sulle magliette e Macron era il tipo perfetto: riusciva a sembrare progressista applicando politiche di destra; riusciva a sembrare europeista nonostante i tic da basso sovranismo e sembrava essere riuscito ad arginare la destra con l’aiuto della sinistra per poi governare con la stessa destra che si fregiava di avere sconfitto.

Così mentre sui giornali italiani si sottolinea che Marine Le Pen sia un’irresponsabile che lucra sul caos (ma va Eppure fino a ieri era potabile) e si dipinge Mèlenchon come “tiranno divisivo della sinistra francese” (citazione del Corriere della sera) scompaiono i risultati di un sondaggio de Le Figaro. 

L’autorevole quotidiano francese scrive che “per il 46% dei francesi Macron è il responsabile della crisi”. Quasi la metà del Paese lo ritiene quindi responsabile dell’attuale instabilità, molto più del RN (11%) e del Nuovo Fronte Popolare (10%) che hanno votato a favore della mozione di censura. Secondo lo stesso sondaggio il 59% dei francesi, 6 su 10, sarebbe convinto che Macron dovrebbe dimettersi. Dai suoi fans italiani ovviamente nemmeno un plissé. 

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Blitz dell’Antimafia a Brescia: arrestati un ex di Fratelli d’Italia e un ex della Lega per legami con la ‘ndrangheta

L’antimafia è scomparsa dal dibattito pubblico. La mafia no. Un’operazione coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Brescia ha portato a 25 arresti e al sequestro di beni per un valore di 1,8 milioni di euro. I dettagli dell’inchiesta tracciano un quadro inquietante: una struttura mafiosa di matrice ‘ndranghetista, capeggiata dalla cosca Tripodi, con radici solide nel tessuto economico e sociale del bresciano. Estorsioni, traffico di droga, ricettazione e reati tributari non erano, secondo gli inquirenti, solo il mezzo di sostentamento dell’organizzazione ma anche lo strumento per costruire un sistema di controllo capillare che includeva collegamenti con figure politiche e religiose.

Politica e malaffare

Tra i nomi emersi spiccano quelli di Giovanni Acri, ex consigliere comunale di Brescia in quota Fratelli d’Italia, e Mauro Galeazzi, già esponente della Lega a Castel Mella. Acri, secondo le accuse, avrebbe messo a disposizione la sua professione medica per garantire assistenza a membri del clan coinvolti in attività criminose. Galeazzi, dal canto suo, avrebbe chiesto il sostegno della cosca in occasione delle elezioni comunali del 2021 promettendo in cambio appalti pubblici.

Entrambi sono ora agli arresti domiciliari ma le accuse aprono scenari di pesante interferenza della criminalità organizzata nella gestione della cosa pubblica. Non è la prima volta che il nome di Galeazzi finisce in un’indagine giudiziaria: nel 2011 era stato arrestato per corruzione nell’ambito di un’inchiesta di presunta commistione tra politica e affari che si era poi concluso con la sua assoluzione.

Il ruolo della cosca Tripodi

La cosca Tripodi, ben nota agli inquirenti, non si è limitata ad esportare i tradizionali strumenti del crimine organizzato. Secondo quanto emerso, il gruppo si sarebbe adattato al contesto lombardo sfruttando il sistema degli appalti pubblici e il consenso politico come leva di espansione. L’accusa di scambio elettorale politico-mafioso evidenzia un legame diretto tra interessi criminali e gestione amministrativa locale.

Tra le figure coinvolte c’è anche suor Anna Donelli, accusata di fare da ponte tra i sodali detenuti e l’esterno. Non è il primo caso di una struttura mafiosa che cerca sponde apparentemente insospettabili ma il coinvolgimento di una religiosa evidenzia ancora una volta come la ‘ndrangheta abbia la capacità di insinuarsi in ambienti considerati inattaccabili.

Geografia del potere

L’operazione, pur concentrata su Brescia, si è estesa ad altre province come Milano, Varese, Como, Reggio Calabria e  a dimostrazione della capacità della ‘ndrangheta di operare su scala nazionale. Questo evidenzia un punto centrale: il modello criminale calabrese non si limita a sfruttare le risorse locali ma costruisce reti in grado di influenzare territori diversi adattandosi ai contesti economici e politici che incontra. I sequestri patrimoniali da 1,8 milioni di euro dimostrano quanto il radicamento economico sia una strategia fondamentale per mantenere il controllo del territorio.

La fragilità del sistema

La fragilità emersa nel tessuto politico-amministrativo bresciano non è un’eccezione ma parte di un quadro più ampio. La penetrazione mafiosa si nutre delle debolezze di un sistema spesso incapace di riconoscere i segnali di infiltrazione. Ogni arresto rappresenta un successo per le forze dell’ordine ma la vera battaglia si gioca sulla capacità delle istituzioni di reagire con forza. L’antimafia non si pratica solo commemorando Borsellino ma con un’attenta selezione della classe dirigente. La missione, per ora, sembra in alto mare.

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L’ombra lunga americana sul Nord Stream 2

Era il gioiello strategico del Cremlino, il gasdotto Nord Stream 2, ma non ha mai portato una molecola di gas in Europa. Il suo destino si è congelato sotto le sanzioni occidentali e poi esploso letteralmente nel settembre 2022, quando un sabotaggio ha squarciato le condotte nelle profondità del Mar Baltico. Ora, nella grottesca lotta agli avanzi di quel progetto miliardario, spunta un finanziere americano con un’idea chiara: comprarselo.

Stephen Lynch, imprenditore della Florida con una lunga storia di affari in Russia, ha avanzato la sua offerta. Non lo fa per beneficenza, ma per “controllare il futuro energetico europeo”. Ecco il paradosso: l’America che vedeva nel Nord Stream 2 una minaccia alla sovranità europea ora vuole mettere il cappello sullo stesso gasdotto che dichiarava tossico per l’indipendenza dell’Occidente.

Un sabotaggio senza colpevoli ma tanti sospetti

Le esplosioni che hanno danneggiato il Nord Stream 2 continuano a essere oggetto di indagini. Gli investigatori internazionali hanno considerato diverse ipotesi: un gruppo pro-ucraino potrebbe essere responsabile, piazzando le cariche esplosive sull’impianto come suggerito da tracce rilevate a bordo dello yacht che sarebbe stato utilizzato per il sabotaggio. Altre fonti puntano il dito contro un’operazione coordinata da ufficiali ucraini, mentre permangono sospetti su un possibile coinvolgimento russo o persino di altre potenze occidentali. Ad oggi, tuttavia, non sono state prodotte prove definitive. Il mistero rimane intatto, alimentando speculazioni che oscillano tra propaganda e verità indicibili.

Nord Stream 2: gli affari e l’offerta di Stephen Lynch

L’offerta di Lynch si aggira in un territorio minato. Il gasdotto è ancora formalmente di proprietà di Gazprom, ma bloccato da un fallimento in Svizzera. Sullo sfondo, le condotte danneggiate del Nord Stream diventano l’emblema delle nuove guerre energetiche: non più bombe e soldati, ma sanzioni, sabotaggi e aste fallimentari. È questa la nuova geopolitica, dove persino i rottami di un progetto russo diventano preziosi.

Lynch non è uno qualunque. Negli anni ’90, durante la crisi finanziaria russa, ha fondato Monte Valle Partners, acquistando asset immobiliari svalutati. Tra i suoi colpi principali figura un terreno vicino all’aeroporto Sheremetyevo di Mosca, successivamente rivenduto al governo russo. Più recentemente, nel 2022, Lynch ha acquistato la filiale svizzera della banca Sberbank, aggirando le sanzioni grazie a una licenza speciale ottenuta dal Tesoro statunitense. Questo episodio sottolinea la sua capacità di muoversi tra le maglie della burocrazia americana e di cavalcare le complessità del commercio internazionale.

Oggi, con l’acquisizione del Nord Stream 2, Lynch punta più in alto: trasformare un’infrastruttura in disuso in una leva strategica. Valutato 11 miliardi di dollari, il gasdotto rimane un simbolo geopolitico prima che economico. L’imprenditore sostiene che altri potenziali acquirenti potrebbero includere entità cinesi o russe, intensificando la corsa al controllo di una risorsa che l’Europa, almeno ufficialmente, non vuole più.

Nord Stream 2: una leva americana sull’Europa

L’ironia è crudele: nel 2022, gli Stati Uniti guidavano la campagna contro il Nord Stream 2, definendolo una trappola di Putin per dividere l’Occidente. Oggi, mentre l’Europa cerca disperatamente di diversificare le fonti energetiche, Washington guarda a quel tubo come a una leva di controllo. E Lynch, l’imprenditore solitario, incarna questa ambizione.

Il sabotaggio del 2022, però, rimane un mistero. È come se nessuno volesse davvero scoprire chi ha distrutto il gasdotto: troppa politica, troppi interessi, troppe implicazioni. Nel frattempo, le condotte rotte del Nord Stream 2 sono diventate un simbolo: non di un fallimento tecnico, ma di una vittoria americana. Perché alla fine, qualcuno pagherà per rimetterlo in piedi. E qualcun altro ci guadagnerà.

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L’illusione Macron: il mito che ha sedotto i riformisti italiani

Chissà cosa ne dicono gli illuminati commentatori riformisti, quelli che da anni celebrano Emmanuel Macron come il faro del riformismo europeo, che a lui hanno dedicato partiti personali delle dimensioni di un cespuglio e che in lui vedevano la faccia presentabile del governare con la destra, con politiche di destra, fingendo di essere progressisti.

Chissà dove sono oggi anche coloro che hanno celebrato la nascita del governo Barnier come un “capolavoro politico”, sfregandosi le mani per un presidente che ha arginato la destra nelle elezioni appoggiandosi a sinistra, salvo poi mettere in piedi un governo con la destra escludendo la sinistra.
Sono gli stessi che stamattina firmano editoriali in cui ci spiegano quanto sia vergognoso che la sinistra abbia votato con la destra, quella stessa destra che fino a ieri applaudivano al governo. Il cortocircuito della politica francese è il paradigma della politica europea: potabilizzare i sovranisti non modifica la loro natura. Marine Le Pen rimarrà sempre Le Pen, perché ne va della sua sopravvivenza politica. A Bruxelles, Giorgia Meloni tornerà presto a essere la solita Meloni per mantenere il suo elettorato.

Si legge oggi sui giornali che quello di Macron fosse “l’unico governo possibile”. Due righe più sotto, ci si lamenta che quelli spediti a fare opposizione si siano permessi di fare opposizione. La politica è un esercizio che richiede serietà: la Francia (e non solo) si sta sgretolando sotto il peso del suo debito pubblico. Farsi vetrina con le Olimpiadi e con il recupero di Notre-Dame non sistema i conti pubblici. Scegliere come sistemare i conti è politica, e per questo conviene farlo con gente che, generalmente, sia d’accordo.

Buon giovedì.

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Rigurgiti neofascisti, non chiamatele ragazzate

L’arresto dei 12 membri della “Werwolf Division” aggiunge un’altra pagina al capitolo infinito di quel fascismo che ufficialmente non esiste, ma che continua a riaffacciarsi con la puntualità di un orologio rotto. Stavolta è toccato alla polizia scovare simboli, arsenali e piani eversivi: il repertorio consueto di chi, con il braccio teso, prova a trasformare nostalgie patologiche in minacce concrete. Non è una novità, ma ogni volta ci troviamo a ripetere le stesse domande e ad ascoltare le stesse scuse.

Il nome scelto dal gruppo, “Werwolf Division”, è un omaggio inquietante alla resistenza nazista che, negli anni ’40, sognava sabotaggi e guerriglia contro un mondo che credeva di aver voltato pagina. E invece eccoci qui: il fascismo non è mai andato via, ha solo imparato a nascondersi, a mascherarsi, a farsi più sfumato, ma non meno pericoloso. Si è infilato nelle pieghe del disagio sociale, nei vuoti di memoria collettiva, nei silenzi che concediamo per distrazione o per calcolo.

Non si tratta di un fenomeno isolato, ma di un sistema che prolifera nei canali digitali e nei discorsi pubblici, protetto dalla complicità di chi minimizza, di chi parla di “ragazzate” anche quando ci sono minacce armate. Il fascismo torna perché trova chi lo coltiva, chi lo giustifica, chi lo considera un fenomeno del passato e, quindi, non degno di attenzione. Ma il fascismo non è mai stato solo un reperto storico: è un pericolo che si adatta, si trasforma e si infiltra.

Ogni blitz, ogni arresto è solo una toppa su una falla più grande. Perché il problema non è solo la “Werwolf Division” o i 12 arrestati. Il problema è la retorica che li ha nutriti, il clima che li ha normalizzati, i discorsi d’odio che continuano a trovare ospitalità nei palazzi e nei social.

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Decreto flussi, via libera del Senato. Dalla lista dei Paesi sicuri alla competenza delle Corti d’appello, ecco cosa cambia

Con 99 voti favorevoli, 65 contrari e un astenuto, il Senato ha approvato oggi in via definitiva il decreto flussi, chiudendo l’iter di un provvedimento controverso che ridisegna il sistema di gestione dell’immigrazione. Ma cosa cambia con la conversione del testo rispetto alla stesura originaria del decreto?.

Paesi sicuri

Il concetto di “Paesi sicuri” diventa centrale per valutare le domande di protezione internazionale. In base alla nuova norma, un elenco di 19 Stati è stato fissato per legge: Albania, Algeria, Bangladesh, Bosnia-Erzegovina, Capo Verde, Costa d’Avorio, Egitto, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Perù, Senegal, Serbia, Sri Lanka e Tunisia.
La decisione nasce anche dalla necessità di affrontare le critiche sollevate dal Tribunale di Roma e dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, che avevano messo in dubbio la sicurezza di alcuni Paesi. Restano esclusi Camerun, Colombia e Nigeria, ritenuti non conformi agli standard richiesti. L’elenco verrà aggiornato annualmente attraverso una relazione inviata alle commissioni parlamentari.

Corti d’appello e trattenimenti

Una delle modifiche più discusse riguarda lo spostamento della competenza sui trattenimenti dalle sezioni specializzate dei Tribunali alle Corti d’Appello, in composizione monocratica. Questo cambiamento, battezzato “emendamento Musk” per la coincidenza con una polemica del proprietario di X contro i giudici italiani, mira a centralizzare e accelerare le procedure. Le nuove norme entreranno in vigore 30 giorni dopo la pubblicazione della legge, per consentire alle Corti d’Appello di organizzarsi.

Ricongiungimenti familiari

Si stringono i requisiti per il ricongiungimento familiare. I richiedenti dovranno dimostrare una permanenza legale di almeno due anni in Italia, raddoppiando il precedente limite di un anno. Inoltre, l’alloggio destinato al familiare dovrà rispettare specifiche norme igienico-sanitarie e di capienza. Questi criteri, secondo il governo, garantiranno una maggiore sostenibilità, ma rischiano di escludere molti nuclei familiari.

Ispezione dei dispositivi elettronici

La norma consente alle autorità di accedere immediatamente ai dispositivi elettronici degli stranieri rintracciati durante l’attraversamento irregolare delle frontiere o in operazioni di salvataggio. L’obiettivo dichiarato è facilitare l’identificazione, ma restano dubbi sulla tutela della privacy e sulle modalità di applicazione della misura.

Riduzione dei termini per l’impugnazione

Il decreto dimezza i termini per presentare ricorso contro i provvedimenti in materia di protezione internazionale, accelerando il processo decisionale. Questo cambio organizzativo rischia però di comprimere ulteriormente il diritto di difesa dei richiedenti asilo.

Contratti secretati e motovedette

Gli appalti pubblici relativi alla fornitura di mezzi e materiali destinati a Paesi terzi saranno secretati. La misura riguarda anche le motovedette cedute a Paesi come Libia e Tunisia. Secondo le Ong, come Emergency, questa mancanza di trasparenza potrebbe mascherare pratiche discutibili nelle operazioni di controllo delle frontiere.

Ingressi lavoratori stranieri

Il decreto prevede un incremento delle quote per i lavoratori stagionali, portandole a 110.000 unità per il 2025, di cui 47.000 riservate al settore agricolo. Sono inoltre previsti 10.000 nulla osta al lavoro fuori quota per colf e badanti. Novità anche nella gestione delle procedure: dal 2025 tutto il processo sarà digitalizzato, con l’obiettivo di ridurre tempi e inefficienze.

Protezione speciale e nuove ipotesi di respingimento

La revoca della protezione speciale passa alla Commissione nazionale per il diritto di asilo, che potrà agire in caso di rischio per la sicurezza dello Stato. Viene ampliata anche la possibilità di respingimento, includendo i migranti soccorsi in mare o rintracciati nelle aree di frontiera.

Misure di sicurezza e permesso temporaneo

Tra le novità più rilevanti, il decreto introduce un permesso temporaneo di 60 giorni per i lavoratori stagionali il cui contratto è scaduto, consentendo loro di cercare un nuovo impiego senza rischiare l’espulsione immediata. Viene inoltre istituito un permesso speciale di sei mesi per le vittime di sfruttamento lavorativo che collaborano con le autorità.

Con queste disposizioni, il governo Meloni punta a un controllo più stringente sui flussi migratori e a una gestione più efficiente delle richieste. Tuttavia, l’impatto concreto di queste misure, specie in termini di diritti umani e trasparenza, resta un tema divisivo che non mancherà di animare il dibattito pubblico.

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Altro che studenti fannulloni: sull’istruzione i numeri parlano chiaro

Eccoci qui, come ogni anno. Gli studenti protestano, nei licei cominciano le occupazioni e sui giornali i commentatori imbiancati rilanciano gli stereotipi. L’eterna lotta tra generazioni segue sempre lo stesso copione: “Manifestano per non studiare”, “fannulloni”, quei giovani che non rispettano le autorità. 

Un Paese che non investe nel futuro

Come ogni anno i dati parlano d’altro, dell’altro per cui protestano docenti e studenti ma che sempre sfugge ai commentatori. Il rapporto Openpolis di quest’anno dice che in Italia, la spesa pubblica per l’istruzione si attesta al 4% del Pil, contro una media europea del 4,7%. Questa percentuale ci colloca tra i Paesi che investono meno nel settore educativo, un dato che, pur stabile nell’ultimo decennio, non mostra segni di miglioramento. Se comparato con la Danimarca, che destina il 6,4% del Pil all’istruzione, viene più facile capire le proporzioni. 

Questo sottodimensionamento della spesa non è privo di conseguenze. I dati Istat evidenziano come il livello di istruzione incida direttamente sulla condizione economica delle famiglie. Nel 2022, il tasso di povertà assoluta per le famiglie in cui la persona di riferimento ha conseguito al massimo la licenza media era del 12,3%, mentre scendeva al 4,6% per quelle con almeno un diploma di scuola superiore. È un’indicazione chiara: l’istruzione non è solo uno strumento di emancipazione individuale ma una leva economica e sociale che determina la qualità della vita di intere generazioni.

Il costo dell’abbandono degli studenti: divari e povertà educativa

Sul fronte delle competenze, i dati del programma Ocse-Pisa sono eloquenti. Gli studenti quindicenni italiani continuano a ottenere risultati inferiori rispetto alla media Ocse in lettura, matematica e scienze. Nel dettaglio, mentre Paesi come la Finlandia, che investe il 5,5% del Pil nell’istruzione, ottengono punteggi mediamente superiori del 20%, l’Italia si trova costretta a inseguire. Le regioni del Mezzogiorno sono particolarmente colpite: gli studenti del Sud e delle Isole registrano risultati che, in alcuni casi, equivalgono a un anno scolastico in meno rispetto ai coetanei del Nord.

Il divario educativo riflette e amplifica le disuguaglianze territoriali. Openpolis sottolinea come il contesto infrastrutturale sia un fattore determinante. Ad esempio, la percentuale di edifici scolastici che necessitano di manutenzione straordinaria è molto più alta nelle regioni del Sud, dove spesso mancano anche spazi adeguati per attività extrascolastiche. È una realtà che penalizza chi già parte da condizioni svantaggiate, consolidando un ciclo di esclusione.

L’abbandono scolastico rappresenta un ulteriore campanello d’allarme. Nel 2022, il 12,7% dei giovani italiani tra i 18 e i 24 anni ha lasciato la scuola senza completare il ciclo secondario superiore, rispetto a una media europea del 9,6%. Questo dato, pur in calo rispetto al passato, rimane tra i più alti dell’Unione europea. È una perdita che si ripercuote non solo sulla vita dei singoli ma sull’intero sistema economico e sociale. Secondo il Centro Studi Confindustria ogni punto percentuale di abbandono scolastico si traduce in una riduzione dello 0,2% del Pil a lungo termine.

Non meno preoccupante è la spesa per studente, un indicatore che riflette la qualità e l’accessibilità dei servizi educativi. In Italia, la spesa annuale per alunno nella scuola primaria è di circa 6.000 euro, contro i 10.000 euro della Germania e i 14.000 della Danimarca. Questi numeri non sono semplici statistiche: rappresentano il divario nelle risorse che ogni bambino può sfruttare per costruire il proprio futuro.

Il confronto europeo mette in evidenza un punto chiave: i Paesi che investono maggiormente in istruzione registrano benefici a lungo termine in termini di crescita economica e coesione sociale. Openpolis ricorda che l’educazione è uno degli strumenti più efficaci per spezzare il ciclo della povertà intergenerazionale. Eppure, in Italia, le scelte di bilancio sembrano andare in direzione opposta.

Colmare i divari per ridurre le diseguaglianze

L’Italia, con le sue profonde disuguaglianze territoriali, non potrebbe permettersi di considerare l’istruzione come una priorità secondaria. Colmare i divari non è solo una questione di giustizia sociale ma un investimento per garantire un futuro più stabile e competitivo. È il solito monito di tutti gli anni: continuare a ignorare l’importanza dell’istruzione rischia di compromettere non solo le possibilità di crescita dei giovani ma la capacità stessa del Paese di affrontare le sfide globali.

Siamo al solito fine anno. La manovra finanziaria è alle porte, i collettivi studenteschi richiamano l’attenzione sul declino della scuola. Gli studiosi preparano i numeri, le analisi e i confronti che indicano l’Italia come un Paese scolasticamente in decadenza. Decadono i muri delle scuole e decade la loro incidenza come motore di uguaglianza sociale e di opportunità. I giornali e le trasmissioni televisive rilanciano la litania: colpa degli studenti che dovrebbero solo studiare, dicono. 

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Ha ragione Gino Cecchettin: gli sconfitti siamo noi

Ha ragione Gino Cecchettin. Dice di sentirsi sconfitto anche se gli sconfitti siamo noi. Non tutti, badate bene: gli sconfitti siamo noi maschi privilegiati. Privilegiati perché bianchi o comunque non troppo scuri; privilegiati perché credenti o comunque assimilabili alla religione giusta; privilegiati perché non troppo poveri, non troppo periferici, non troppo ignoranti, non troppo classificabili nelle categorie del Biagio; privilegiati perché figli di una famiglia definibile buona (ma che cosa rende buona una famiglia); privilegiati perché abbastanza furbi da non mostrare la natura che ci è stata instillata.

Ha ragione Gino Cecchettin perché l’ergastolo e qualsiasi altra sentenza sono elementi che afferiscono al dopo. Nel “dopo” è comodo e facile spremere un bicchiere di indignazione pubblica, inscenare solidarietà e fingere di non sapere che il percorso processuale non ha niente a che vedere con la vicenda umana e con le radici di quell’assassinio.

Il padre e i fratelli di Giulia Cecchettin hanno deciso di fissare l’asticella della giustizia all’estirpazione di una natura che è della società più che delle aule di giustizia. Per questo Gino Cecchettin è mortificato, percepito come un incontentabile progressista. Con sua figlia Elena è stato più facile: lei è femmina e il cassetto delle streghe sta lì aperto da secoli.

La sentenza riordina le carte, ma non tocca le corde dell’immarcescibile stato delle cose. La sentenza parla di Turetta. I Cecchettin, invece, si sono messi in testa di parlare di noi. Forse per questo alcuni tirano un sospiro di sollievo pensando che la storia sia chiusa.

Buon mercoledì.

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