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Un Paese di poveri: la stabilità della miseria, ma tutto va ben

L’Istat ci fa sapere che i poveri nel 2023 erano 5 milioni e 700 mila. In condizione di povertà assoluta erano poco più di 2,2 milioni di famiglie, ovvero l’8,4% sul totale delle famiglie residenti. Il valore è stabile rispetto al 2022. 

La povertà delle famiglie con almeno uno straniero è del 30,4% mentre per le famiglie italiane ci si ferma al 6,3%. È proprio vero, gli stranieri vengono in Italia per fare i lavori che gli italiani non vogliono più fare: i poveri. 

Quasi il 10% degli italiani vivevano l’anno scorso in condizioni di povertà e poiché nulla ci fa pensare che la situazione sia miracolosamente migliorata se ne deduce che una persona su dieci di quelle che incontrate per strada sia al di sotto della soglia della dignità. 

Pensare che questi numeri siano il risultato solo delle politiche del governo Meloni sarebbe superficiale e riduttivo. L’onda lunga della povertà comincia dagli anni 80, quando lo sfiorire del boom economico ha fatto emergere la politica prima condonata dal benessere diffuso. Allora è stato chiaro che i governi che si sono succeduti – chi più, chi meno – hanno avuto come priorità quella di preservare le classi abbienti del Paese, le stesse che esprimono in gran parte la classe dirigente. 

La precarizzazione del lavoro che prometteva libertà e guadagni è stata una delle grandi truffe dei tempi recenti: essere liberi professionisti in un mercato stagnante ha portato come risultato la libertà di azione nello smantellamento del welfare e dei servizi.

La prossima legge di bilancio è innestata sugli stessi binari. E tutto va ben. 

Buon venerdì. 

Nella foto: raccolta alimentare dell’associazione Nonna Roma, 7 giugno 2024 (fb Nonna Roma)

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La gestazione per altri è reato universale, ma solo sulla carta

Il reato universale di gestazione per altri (gpa), trasformato in legge tra l’entusiasmo della maggioranza, è inapplicabile non solo per la sua inconsistenza giuridica ma per l’assurdità logica che lo sorregge. L’Italia ha deciso, da sola, che una pratica perfettamente legale in molti Paesi debba essere trattata come un crimine globale, ignorando il principio di doppia incriminazione che governa il diritto penale internazionale. Questo principio stabilisce che un reato può essere perseguito in Italia solo se è considerato tale anche nel Paese in cui è stato commesso. Ma qui, con la gpa, si fa finta che questo ostacolo non esista.

Un reato senza giustizia: la farsa della doppia incriminazione

Non basta l’enfasi politica di definire “universale” un reato perché diventi realmente tale. La giurisdizione universale, quella vera, riguarda crimini di tale gravità che l’intera comunità internazionale li riconosce e li persegue congiuntamente: genocidio, terrorismo, tortura. Crimini che oltraggiano l’umanità. Ma come si può paragonare la gestazione per altri, legale e regolamentata in Paesi come il Canada, la Gran Bretagna e il Portogallo, a questi orrori? È una forzatura ideologica che non trova alcuna giustificazione giuridica.

In pratica, questa legge richiederebbe la collaborazione di Stati esteri per raccogliere prove e per dare seguito a processi penali contro cittadini italiani che hanno fatto ricorso alla gpa in quei Paesi. Ma quale Stato collaborerà mai a un’inchiesta su una pratica che considera legittima e protetta dalla propria legislazione? Sarebbe come chiedere all’Olanda di processare chi utilizza legalmente la cannabis entro i confini di Amsterdam per poi punirlo al rientro in Italia.

E qui emerge il vero cuore del problema: questa legge non può funzionare perché non ci sono gli strumenti per farla rispettare. Il professor Gian Luigi Gatta lo ha spiegato chiaramente: senza la cooperazione degli Stati dove la gpa è legale, qualsiasi tentativo di perseguire chi la pratica all’estero è destinato a fallire. Si parla di rogatorie internazionali, di indagini che dovrebbero coinvolgere Paesi che non condividono questa criminalizzazione. È una battaglia che l’Italia ha scelto di combattere da sola, senza alleati, in un mondo dove la gestazione per altri è vista in modo molto diverso.

Ma non è solo questo. La legge non tiene conto nemmeno delle persone più vulnerabili: i bambini. Cosa accadrà ai figli nati da gpa Come saranno trattati quando i loro genitori torneranno in Italia Saranno considerati, per assurdo, “frutto di un reato”, pur non avendo alcun ruolo nelle decisioni che li hanno portati al mondo. Questa è una delle preoccupazioni sollevate da Filomena Gallo e dall’Associazione Luca Coscioni: lo stigma che questa legge impone sui bambini nati attraverso una pratica che, nel Paese di nascita, è legale.

Lo stigma dei bambini: quando la legge colpisce gli innocenti

La verità è che questa norma non è stata scritta per essere applicata ma per essere sventolata. È un simbolo ideologico, un’arma politica che non ha lo scopo di proteggere o di regolare ma di punire e discriminare. Il governo italiano sa perfettamente che i tribunali, nazionali e internazionali, impugneranno questa legge ma nel frattempo il messaggio politico sarà arrivato forte e chiaro: il controllo sui corpi delle donne, la criminalizzazione delle famiglie arcobaleno, la riaffermazione di un modello di famiglia che non accetta deviazioni dalla norma.

La legge sul reato universale di gestazione per altri non è solo inapplicabile, è un errore consapevole. Un errore costruito ad arte per fare propaganda, sapendo bene che non avrà mai un vero impatto legale. Nel frattempo, però, alimenterà la discriminazione e rafforzerà un clima di paura e di divisione. Questo è l’unico effetto reale di una legge nata per non funzionare.

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Molla il Consiglio dell’Islam. Troppo immobilismo

Il Consiglio per le relazioni con l’Islam getta la spugna. Dopo oltre un decennio, gli esperti alzano bandiera bianca di fronte all’immobilismo del governo. La lettera di dimissioni è un j’accuse che non lascia spazio a interpretazioni: ogni iniziativa sospesa, ogni progetto congelato, ogni speranza di integrazione mandata in soffitta. Il “Patto per un Islam italiano” del 2017? Carta straccia. I corsi per imam “made in Italy”? Cancellati. Il dialogo interreligioso? Un fastidioso ronzio da silenziare. Qualcuno dalle parti del Viminale deve avere pensato che è meglio chiudere gli occhi: se non vediamo l’Islam, forse sparirà come per magia. Peccato che la realtà sia più testarda degli istinti securitari di chi ci governa. Le comunità musulmane sono qui, sono parte del tessuto sociale italiano. Ignorarle non le farà svanire, ma alimenterà incomprensioni e conflitti.

È la strategia dello struzzo elevata a politica di Stato. Cancellare ogni spazio di dialogo, rendere inoperante un organismo di esperti, ignorare anni di lavoro per l’integrazione. Tutto in nome di un effimero consenso elettorale costruito sulla paura del diverso. La libertà religiosa non è un optional, un vezzo da concedere nei momenti di magnanimità. È un diritto fondamentale, un pilastro della convivenza civile. Ma evidentemente è più comodo cavalcare i fantasmi dell’invasione islamica che affrontare la complessa realtà di un’Italia multiculturale. Il risultato? Un paese più chiuso, più spaventato, più diviso. Complimenti, signor Ministro. Con le sue non-azioni ha ottenuto ciò che nessuno prima è mai riuscito a fare: spegnere il dialogo, soffocare l’integrazione, alimentare la diffidenza.

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Crosetto alle Camere: Il Medio Oriente in fiamme, l’Italia sul filo del rasoio

La giornata del 17 ottobre si apre con l’informativa del ministro Guido Crosetto al Senato. Lo scenario tratteggiato dal ministro della Difesa non è fatto di sfumature: il Medio Oriente è un barile di polvere da sparo, con le linee rosse ormai ampiamente superate e una crisi umanitaria che cresce a ritmi insostenibili. Crosetto non sceglie giri di parole: “Quella creatasi in Medio Oriente è una crisi gravissima, caratterizzata dal superamento di diverse linee rosse”. Parole forti, dirette, che non lasciano spazio all’ambiguità.

Crosetto e l’equilibrio tra difesa e diplomazia

Al centro del suo intervento c’è l’equilibrio precario che si gioca tra la difesa legittima di Israele e il rispetto del diritto internazionale. “Israele ha diritto di difendersi”, ripete più volte, ma subito dopo aggiunge: “Con la stessa forza chiediamo che si attenga alle regole del diritto internazionale e che rispetti le basi Unifil”. Non c’è spazio per concessioni. Il ministro riconosce la delicatezza della posizione italiana, incastrata tra alleanze storiche e il ruolo di mediazione in un conflitto che minaccia di trascinare il mondo in una spirale senza uscita.

Le reazioni in aula non tardano ad arrivare. Stefano Patuanelli, del Movimento 5 Stelle, non usa mezzi termini nel denunciare l’aggressività del governo israeliano, chiedendo di fermare Netanyahu con sanzioni e uno stop alla vendita di armi. “Netanyahu sta portando Israele dalla parte sbagliata della storia”, afferma senza esitazioni, mentre denuncia le condizioni critiche in cui versano i nostri militari in Libano, ridotti a vivere con le razioni da combattimento. Un’accusa pesante, che fa tremare l’aula.

Le reazioni dell’opposizione: critiche e accuse al governo

A sinistra, Peppe De Cristofaro dell’Alleanza Verdi e Sinistra alza il tiro, ma sposta il mirino. “Il silenzio del governo sui crimini di guerra a Gaza è assordante”, afferma, puntando il dito contro l’ipocrisia di un esecutivo che condanna gli attacchi a Unifil ma evita accuratamente di prendere posizione sugli oltre 40mila morti a Gaza. De Cristofaro accusa il governo di giocare a carte coperte sulla vendita di armi a Israele, chiedendo chiarezza e, soprattutto, azioni concrete per fermare l’escalation.

Il Partito Democratico, per bocca di Alessandro Alfieri, tiene un tono diverso. “Riconosciamo al ministro Crosetto di aver tenuto una posizione inappuntabile”, dice Alfieri, lodando la linea ferma ed equilibrata del ministro. Ma le critiche al governo non mancano. L’assenza di una condanna esplicita a Netanyahu e la decisione di astenersi all’assemblea Onu non sono passate inosservate. “L’Italia conta se il multilateralismo funziona”, ricorda Alfieri, sottolineando che l’Unione Europea deve essere compatta, e l’Italia, in questo momento, rischia di restare isolata.

Crosetto, intanto, non indietreggia di un millimetro. Ha già aggiornato i piani di evacuazione per il contingente italiano in Libano e rassicura l’aula: “Siamo pronti a fare la nostra parte”. Aerei e navi sono già allertati per un’eventuale estrazione dei nostri militari, e il ministro chiarisce che ogni mossa è già stata calcolata. Non c’è spazio per l’improvvisazione in uno scenario così fluido e pericoloso.

Crisi in Medio Oriente: il destino di Unifil

Ma è il futuro della missione Unifil a tenere banco nel cuore del suo discorso. Crosetto non si nasconde dietro le parole. “O c’è Unifil o c’è la guerra”, dice con una chiarezza che lascia poco spazio all’immaginazione. Le Nazioni Unite, con tutto il loro bagaglio di contraddizioni e lentezze, rappresentano ancora l’ultimo baluardo contro un conflitto che potrebbe deflagrare in tutta la regione. Rafforzare la missione Unifil è una priorità assoluta, e per farlo, servono nuove regole di ingaggio, regole che permettano ai caschi blu di esercitare una reale deterrenza.

La crisi in Libano, afferma Crosetto, potrebbe diventare persino più grave di quella che sta dilaniando Gaza. Non solo per i numeri impressionanti delle vittime – oltre 40.000 a Gaza – ma per le implicazioni geopolitiche. “Un ulteriore aggravamento sarebbe foriero di conseguenze drammatiche per tutti”, ribadisce, evocando scenari che sembrano sempre più vicini. Non ci sarebbero né vincitori né vinti, solo macerie.

La giornata si conclude con l’informativa alla Camera, dove Crosetto ribadisce la linea tracciata poche ore prima al Senato. Non rinuncerà all’idea di una soluzione pacifica, nonostante tutto. “Dopo il G7 Difesa andrò a Beirut e Tel Aviv”, annuncia, sottolineando l’impegno italiano nel tentare una mediazione che, seppur difficile, resta l’unica via percorribile. La sua missione è chiara: evitare che il conflitto scoppi su larga scala e mantenere l’Italia in una posizione di equilibrio, tra alleanze storiche e il rispetto del diritto internazionale.

In questo momento di altissima tensione, Crosetto tiene il timone fermo. Ma sa bene che ogni parola pesa, ogni decisione ha conseguenze che possono andare ben oltre i confini nazionali. “Non voglio rinunciare all’idea di risolvere in modo pacifico la crisi”, ripete, ma il mondo sembra voler spingere in una direzione diversa.

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La notizia sul giornalismo che non leggerete in giro

La notizia che non leggerete è l’inchiesta di IrpiMedia sulle molestie sessuali all’interno delle scuole di giornalismo che apre un sipario inquietante su un mondo che dovrebbe essere simbolo di trasparenza e verità. L’indagine rivela una realtà dove il potere si confonde con l’abuso, mettendo a rischio giovani aspiranti giornalisti, spesso già vulnerabili per la precarietà del settore.

Le testimonianze raccolte mostrano uno schema ripetuto: figure di potere – tutor, professori, giornalisti affermati – che sfruttano la propria posizione per intimidire o manipolare giovani donne. Il confine tra autorità e prevaricazione si dissolve, e le vittime si trovano imprigionate in un silenzio soffocante, in parte per paura di ritorsioni professionali, in parte per un sistema che minimizza e copre. 

Un terzo delle studentesse ha raccontato di aver subito discriminazioni, molestie verbali e sessuali in classe e negli stage. La metà delle persone sentite ha riferito di aver assistito o saputo di molestie sessuali e verbali, tentate violenze sessuali, atti persecutori, stalking, ricatti e discriminazioni di genere.

L’unica ricerca nazionale a disposizione sul tema è stata pubblicata nel 2019 dalla Federazione nazionale della stampa (Fnsi) e ha rilevato che, tra le giornaliste assunte in redazione, l’85% ha dichiarato di avere subito molestie sessuali almeno una volta nel corso della vita professionale.

La riflessione va oltre i singoli fatti: dobbiamo chiederci cosa significhi insegnare giornalismo in un contesto dove il rispetto per gli individui è calpestato. Come possiamo formare professionisti capaci di cercare e raccontare la verità se il primo tradimento avviene all’interno delle aule?

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Dal Ponte sullo Stretto, ai rubinetti a secco

A Nicosia, in provincia di Enna, la signora Cinzia con la sua famiglia vive con un recipiente da mille litri e l’acqua una sola volta alla settimana. “Naturalmente sempre che l’acqua non arrivi gialla e piena di terra, come spesso accade. – racconta il deputato Davide Faraone di Italia viva – Un piccolo appartamento invaso da bidoni pieni e cassette d’acqua minerale”. 

In Sicilia negli invasi regionali ci sono 60 milioni di metri cubi d’acqua. L’anno scorso erano 300 milioni, cinque volte di più. A Caltanissetta e a Enna l’acqua arriva una volta alla settimana. A Palermo i rubinetti funzionano a giorni alterni, ad Agrigento hanno fatto arrivare una nave cisterna della Marina militare. Quando c’è l’acqua è di una giallastro marrone e puzza di fogna. 

Oltre alle case ci sono le attività che soffrono. Ne risente l’agricoltura, ne risente ovviamente il turismo. Il presidente della Regione Renato Schifani propone di dissalare l’acqua del mare, come fanno a Dubai. Dal Pnrr sono in arrivo 61 milioni di euro per “mettere in sicurezza e adeguare gli impianti esistenti e migliorare complessivamente la depurazione delle acque reflue scaricate nelle acque marine e interne”. 

Lo scorso 11 ottobre la Regione ha destinato 350 milioni di euro per “interventi legati all’emergenza siccità” e “per reti idriche, depurazione e rifiuti”. Il sistema però è un colabrodo e servirebbero investimenti strutturali. 

Nel dicembre dell’anno scorso il governo Meloni ha tolto a Sicilia e Calabria 1,6 miliardi di euro dai Fondi di sviluppo e coesione (Fsc) oltre ad altri 718 milioni dai finanziamenti gestiti dai vari ministeri. Perché? Per il progetto da 12 miliardi del Ponte sullo Stretto. 

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L’Unione europea dimentica Khashoggi e riabilita bin Salman

Il giornalista Kashoggi fatto a pezzi nel consolato dell’Arabia Saudita a Instabul il 2 ottobre del 2018? Acqua passata. Le conclusioni della Cia che il 16 novembre di quell’anno scrivono nero su bianche che il mandante dell’omicidio è il principe ereditario bin Salman? Carta straccia. 

Il vertice di oggi a Bruxelles, che segna un incontro storico tra l’Unione Europea e i leader del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG), evidenzia l’ennesima prova della capacità dell’Europa di adattarsi a ogni scenario, anche quando il protagonista è Mohammed bin Salman, il principe ereditario saudita, grande amico dell’ex premier in Italia Matteo Renzi. È un ritorno in scena senza scosse, senza fronzoli, con una rapidità che lascia riflettere. Solo sei anni fa, bin Salman era considerato un paria nelle cancellerie occidentali dopo l’assassinio di Jamal Khashoggi e ora è accolto con un garbo che ha dell’incredibile.

La memoria corta dell’Europa: quando gli affari contano più dei diritti umani

Il suo passato sembra dissolversi in un presente di dialoghi diplomatici e accordi economici. L’Europa, che solo di recente si è ritrovata a gestire il caos geopolitico tra la guerra in Ucraina e le tensioni in Medio Oriente, accoglie con favore la presenza del principe, simbolo di un Medio Oriente che deve collaborare, che deve contare. La necessità di petrolio e di alleanze strategiche, di equilibri fragili e profitti immediati, sembra far chiudere gli occhi a Bruxelles davanti agli orrori che ancora oggi caratterizzano il regime saudita.

Si parla di “slancio significativo nelle relazioni UE-Golfo”, ma dietro queste parole diplomatiche resta la questione di fondo: l’Europa è davvero disposta a sacrificare i propri principi in nome della realpolitik? Mohammed bin Salman si presenta come il leader di un regno in transizione, impegnato in riforme economiche e sociali sotto l’egida del suo piano Vision 2030. Ma ciò che resta poco discusso nei corridoi del potere è il lato oscuro di questa modernizzazione: la repressione sistematica dei diritti umani, le esecuzioni arbitrarie, la messa a tacere di ogni forma di dissenso.

Lina Alhathloul, sorella dell’attivista saudita Loujain, imprigionata e torturata per aver chiesto il diritto di guidare, ricorda costantemente che l’occidente si sta lasciando incantare da una favola, mentre la realtà in Arabia Saudita è un incubo. Il regno, presentato come una potenza aperta alle donne e alle riforme in verità incarcera attivisti e dissidenti, molti dei quali spariscono senza lasciare traccia. 

Per Alhathloul con bin Salman lo stato dei diritti umani è peggiorato. Nelle sue interviste spiega da tempo come il regno saudita “usa i media occidentali, influencer occidentali, usa qualunque espediente per nascondere i loro crimini”.  “Non è possibile avere alcun accesso al paese. Alle organizzazioni per i diritti umani non è permesso di entrare nel paese. I processi si svolgono tutti a porte chiuse. Non è consentito visitare le prigioni. I carcerati sono tenuti in isolamento, quando non vengono fatti sparire con la forza. La Commissione saudita per i diritti umani creata dal governo è una clamorosa bufala, uno strumento per accreditarsi agli occhi dell’occidente e del mondo intero” diceva ad agosto intervistata da Gariwo Mag. 

Una transizione discutibile: il lato oscuro della modernizzazione saudita

Ma di tutto questo, in Europa, non sembra esserci traccia nelle discussioni politiche di alto livello. Il petrolio, la stabilità regionale e gli investimenti contano più delle sofferenze delle persone comuni. E così l’incontro tra Bruxelles e bin Salman diventa un palcoscenico in cui l’Europa gioca il ruolo del partner pragmatico dimenticando, o fingendo di dimenticare, il passato recente.

Questo vertice segna una nuova era per le relazioni tra l’Europa e il Golfo. Una partnership che si consolida su basi fragili dove i valori democratici si piegano alle esigenze economiche. E mentre Charles Michel, Ursula von der Leyen ed Emmanuel Macron stringono mani e sorridono per le telecamere l’Europa si dimostra, ancora una volta, un continente dallo stomaco forte, capace di digerire qualunque compromesso, senza nemmeno battere ciglio.

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Sanatoria col buco: 90.000 migranti in attesa, mentre il Paese ha bisogno di lavoratori

L’Italia ha un problema. O meglio, ne ha parecchi ma uno spicca per il suo carattere paradossale e per l’incredibile capacità di passare sotto traccia: 90.000 migranti stanno aspettando da quattro anni il permesso di soggiorno, intrappolati in un limbo giuridico che è una vera e propria condanna.

Il report della campagna “Ero Straniero“, aggiornato al 2024, fa emergere numeri spietati. Di oltre 220.000 domande di regolarizzazione presentate nel 2020, solo il 74,8% è stato esaminato, e un misero 59% ha ricevuto un esito positivo. Parliamo di persone, non di numeri su un foglio di calcolo: lavoratori, famiglie, esseri umani che da quattro anni aspettano un documento che dovrebbe essere una formalità. E invece no, in Italia una formalità si trasforma in un calvario amministrativo. 

Un disastro annunciato: la crisi degli uffici dell’immigrazione

Il sistema è collassato sotto il peso delle sue stesse inefficienze. Si è proceduto come se l’urgenza del momento, la pandemia e il caos che ne è seguito, fossero una buona scusa per nascondere sotto il tappeto le debolezze di un apparato pubblico incapace di gestire la complessità. Ma non si tratta di una “crisi inaspettata”. La carenza di personale negli uffici che gestiscono l’immigrazione è cronica e ben nota da anni. “Ero Straniero” non usa mezzi termini: “Un disastro annunciato”. E come dargli torto? Nel 2020, il governo aveva provato a tamponare la situazione assumendo personale interinale, ma si è trattato di un palliativo inutile. Oggi, a quasi cinque anni dall’inizio della sanatoria, gli uffici sono svuotati e le pratiche accumulate.

C’è il caso di Roma, che sembra una barzelletta, ma non fa ridere. Nel 2023, solo il 55% delle domande era stato lavorato. Il dato più agghiacciante? Tra le pratiche esaminate nell’ultimo anno, quasi l’85% è stato rigettato. Poiché non è credibile che migliaia di migranti abbiano commesso errori nei loro documenti o non si siano presentati, è evidente che c’è qualcosa che non va nel meccanismo. Più che sanatoria, sembra una trappola 

A Milano la situazione non è migliore ma qui almeno qualcuno ha deciso di reagire. Alcune associazioni hanno promosso una class action contro la Prefettura. Risultato? Il Tribunale amministrativo ha condannato il Ministero dell’Interno per il ritardo sistemico. Ma attenzione, anche dopo la sentenza, non è cambiato granché.

La Cgil, per voce di Kurosh Danesh, ha definito il sistema “un disastro”. E non c’è definizione più accurata. Gli stessi sindacati hanno ripetutamente denunciato come l’utilizzo di personale interinale non fosse sufficiente a smaltire il carico di lavoro. Per non parlare del fatto che i contratti interinali, già scaduti da tempo, non sono stati rinnovati.

Ma qui non parliamo solo di burocrazia: la vita di 90.000 persone è appesa a un filo. Persone che lavorano, che hanno famiglie e che, senza un permesso di soggiorno, vivono in una continua precarietà. Senza quel pezzo di carta, non possono aprire un conto in banca, non possono accedere ai servizi di base, non possono nemmeno lasciare il Paese per far visita ai propri familiari. 

Diritto negato: altro che sanatoria, vite sospese in attesa di un documento

E mentre le istituzioni si perdono nei meandri delle pratiche inevase, il sistema produttivo italiano continua a chiedere manodopera. L’economia ha bisogno di queste persone ma sembra che nessuno voglia davvero accoglierle. Invece di riformare il sistema di ingresso per il lavoro si continua a fare affidamento su misure straordinarie, sanatorie temporanee che non risolvono nulla ma aggiungono solo caos. 

La campagna “Ero Straniero” lo dice chiaramente: serve una riforma. Servono meccanismi di regolarizzazione permanenti, su base individuale. La verità è che questo Paese ha costruito la sua economia sull’irregolarità, e ora non sa come uscirne. Le sanatorie sono l’ennesima toppa su un sistema che fa acqua da tutte le parti. 

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In Europa sarà Il vertice delle tre “I”: indecisione, irrilevanza, impotenza

L’Unione Europea si avvicina al prossimo vertice con una sicurezza quasi disarmante: l’arte di non decidere, quella sì, è una delle poche cose che sa fare bene. Guerra in Ucraina, conflitto in Medio Oriente, crisi migratoria: tre fronti di fuoco, tre dossier che da mesi rimangono sul tavolo in attesa di soluzione. Non accadrà niente. L’Europa si prepara all’ennesimo spettacolo di equilibrismi tra Stati membri che giocano a chi urla di più, sperando che alla fine non succeda niente. Non sia mai che qualcuno si sporchi le mani.

L’Europa dei tre fronti: guerra, conflitto e crisi

Da una parte abbiamo l’Ucraina che ormai è diventata la misura della nostra vergogna. Volodymyr Zelensky ha smesso di nascondere la delusione: l’Europa promette ma non mantiene, manda armi ma poi impone limiti, chiede resistenza ma tergiversa su aiuti concreti. E mentre Zelensky si chiede se vogliamo davvero che vinca, Viktor Orbàn, l’irriducibile alleato di Putin travestito da premier ungherese, blocca 6,6 miliardi di aiuti militari. Scommette su Trump, aspetta che cambi il vento, e intanto l’Europa resta in ostaggio del suo veto. Soluzioni diplomatiche? All’orizzonte non se ne vede nessuna. 

Poi c’è il Medio Oriente, un’altra polveriera in cui l’Europa è irrilevante. Israele bombarda Gaza e Hezbollah in Libano ma l’Unione non riesce a fare altro che lanciare qualche timido appello al cessate il fuoco. Le posizioni sono talmente frammentate che non si riesce nemmeno a stabilire chi è responsabile della conflagrazione: Netanyahu che si difende o chi lo accusa di essere il piromane? Parigi e Berlino sono su fronti opposti e l’unico vero attore in campo è, come al solito, Washington. A noi non resta che guardarci allo specchio e ammettere che il nostro peso in politica estera è pari a zero.

E infine il solito fantasma che torna a infestare i palazzi di Bruxelles: l’immigrazione. Ogni volta sembra la volta buona per una svolta, e ogni volta finisce con un pugno di mosche. Al Consiglio europeo ci saranno tre gruppi: quelli che vogliono una linea dura, quelli che vogliono una linea morbida, e quelli che, tanto per non scontentare nessuno, preferiscono non avere proprio una linea. È una commedia che si ripete da anni. L’Italia di Giorgia Meloni spinge per anticipare il Patto su Migrazione e Asilo ma tanto lo sappiamo tutti come andrà a finire: un po’ di compromessi, un po’ di rinvii e arrivederci al prossimo vertice. 

Una portavoce della Commissione ieri ha confermato che i “return hubs” sostenuti dalla presidente Ursula von der Leyen sono illegali secondo l’attuale legislazione dell’Ue. Scrollandosi di dosso il diritto internazionale von der Leyen e i suoi stanno cercando in tutti i modi di legalizzare la deportazione. “Oggi non è giuridicamente possibile nell’Ue inviare un immigrato illegale in un paese terzo” diverso da quello di origine, ha detto la portavoce della Commissione. “Per renderlo possibile, il diritto dell’Ue dovrebbe regolare la possibilità dell’invio forzato di un migrante illegale in un paese diverso dal suo paese di origine (…), È una cosa che stiamo considerando”. 

Politica estera Ue: un gigante dai piedi d’argilla

Josep Borrell, il nostro Alto rappresentante per la politica estera, ha detto che il potere non è solo una questione di risorse ma anche di determinazione. Peccato che la determinazione da quelle parti sia evaporata da tempo.

Alla fine, l’unica cosa certa di questo vertice è che si concluderà con un nulla di fatto. Sulla guerra in Ucraina, sul Medio Oriente e sull’immigrazione, l’Unione Europea continuerà a non decidere. E a forza di non decidere, rischiamo di diventare davvero quello che l’ex premier lussemburghese Xavier Bettel continua a ripetere: “coriandoli sulla scena internazionale”.

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Musk, Meloni e mazzette: Il futuro digitale italiano in bilico

Sogei spa, la società che per conto dello Stato si occupa di modernizzare il Paese, secondo la Procura di Roma si affidava all’antico sistema delle tangenti. Il manager Paolino Iorio, arrestato in flagranza, si stava intascando una mazzetta da quindicimila euro quando è arrivata la Guardia di finanza che lo ascoltava da tempo.  

Un direttore generale di un’azienda controllata al cento per cento dai ministeri dell’Economia e dell’Interno accusato di essere a capo di “un articolato sistema corruttivo” non è certo una buona notizia. Se poi teniamo conto che Sogei si occupa dei delicati sistemi informatici della pubblica amministrazione ci si rende conto che il guaio è bello grosso.

Dietro alle quinte c’è il giovane Andrea Stroppa, informatico che stamane sui giornali viene indicato come genio dell’informatica, hacker, programmatore. Quello che sappiamo è che Stroppa fu un ragazzetto sveglio portato sul palco della Leopolda da Matteo Renzi, molto vicino al caro amico Carrai. Ultimamente è transitato sotto l’ala dell’imprenditore sudafricano Elon Musk che ne ha fatto il suo lobbista preferito per l’Italia. 

Musk e Giorgia Meloni sono una coppia politica di fatto. Lui ama i sovranismi, lei ha bisogno presto di un’infrastruttura che connetta alla rete le aree più remote dell’Italia come promesso nel Pnrr. Così i satelliti di Musk del sistema Starlink sono il connubio perfetto per corrispondenza di amorosi sensi politici e di necessità. Lì in mezzo Stroppa briga per chiudere l’accordo, nonostante qualcuno come il presidente del Copasir Lorenzo Guerini faccia notare che cedere i dati degli italiani a Musk sia un’idea piuttosto perigliosa. 

Stroppa, indagato, dice che è un grande complotto contro Giorgia Meloni. Dimostra di essere il meloniano perfetto per conto di Musk.

Buon mercoledì. 

Nella foto: la presidente del Consiglio Giorgia Meloni riceve da Elon Musk il Global Citizen Awards conferitogli dall’Atlantic Council, New York, 23 settembre 2024 (governo.it)

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