Vai al contenuto

Da mai candidato a capolista: altra giravolta di Calenda

Nella serata di domenica 28 aprile il leader di Azione Carlo Calenda ha annunciato che si candiderà alle elezioni europee di giugno, smentendo quanto promesso pochi mesi fa. Calenda ha giustificato la sua giravolta dicendo che “la discesa in campo della presidente del Consiglio e la sua piattaforma antieuropea e sovranista cambiano completamente lo scenario”.  Dice Calenda che le candidature di Meloni, Tajani e Schlein lo hanno spinto a candidarsi “per dare ancora più forza alla squadra di straordinaria qualità che abbiamo messo in campo da settimane, con un programma netto e chiaro”. 

Il 12 gennaio di quest’anno Calenda aveva detto: “Non dobbiamo candidarci, nessuno si deve candidare dei leader, perché in Europa bisogna andarci”. Il 20 gennaio alla domanda su una sua candidatura aveva risposto: “No, io no, perché penso che si deve candidare chi va in Europa. Se si candida chi sa già di non andare in Europa, è uno svilimento degli elettori. È una presa in giro degli elettori”. Che Calenda cambi idea è legittimo. La critica – la solita – è a un atteggiamento paternalistico con piglio da maestrino con cui ogni volta giudica gli altri per poi assolvere sempre sé stesso.

Che oggi il leader di Azione provi a convincerci che la sua candidatura è perché così fan tutti non fa che peggiorare la situazione. Se si decide di contestare le candidature finte di leader che non andranno a Bruxelles per imporre un’altra etica toccherebbe fare ciò che si dice. L’ipocrisia già fastidiosa di suo diventa insopportabile se condita con la saccenza. Altrimenti a Calenda non resterà che essere quel buon politico che sarebbe stato votabile se fosse riuscito a fare ciò che diceva. Come tutti i populisti. 

L’articolo Da mai candidato a capolista: altra giravolta di Calenda sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Dietro la propaganda niente: benvenuti nella Giorgiacrazia

Benvenuti nella Giorgiacrazia, dove anche il cognome è un inutile orpello per la capa che vuole essere lo Stato. Sono passate 48 ore da quando la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha annunciato la candidatura per le prossime elezioni europee, in scia con l’ipocrisia molto italiana di candidarsi a ruoli che non si ha intenzione di ricoprire per sfruttare il proprio nome come logo. Meloni l’ha voluto fare a Pescara, tra i fedelissimi riuniti in un bagno rigenerante di tifosi travestito da conferenza programmatica.

Meloni mal sopporta i giornalisti, sta scomoda nelle istituzioni italiane e europee ma ama farsi applaudire dalla sua borgata itinerante. A Pescara di fronte ai fedelissimi si è lanciata in un monologo (arte prediletta) in cui ha potuto liberamente trasformare il Pnrr, l’economia e l’immigrazione in mangime elettorale. “Alle europee del 2019 noi abbiamo messo insieme il 6,5 per cento dei consensi. Era la prima volta che ottenevamo un risultato che ci metteva, come dire, al riparo da qualsiasi soglia di sbarramento”, ha declamato la leader di Fratelli d’Italia, convinta che il trucco retorico dell’underdog possa funzionare addirittura seduta a Palazzo Chigi.

Rivendere le prossime elezioni per Bruxelles come l’occasione per essere una novità è un gioco un po’ stantio. Fratelli d’Italia è nato come partito nel 2012, 12 anni fa, entrando nel Parlamento europeo già nel 2019. Ma immaginare ogni volta un nuovo tetto di cristallo è la narrazione che preferisce. Poi inizia l’elenco dei successi, non del tutto veri. “Il debito sta tornando nelle mani degli italiani grazie al successo dei Btp Valore”, ha detto Meloni, intestandosi la discesa del debito pubblico italiano grazie all’emissione dei titoli di Stato. Pagella Politica fa due conti: secondo i dati più aggiornati della Banca d’Italia, a gennaio 2024 il debito pubblico italiano valeva circa 2.849 miliardi di euro: quasi il 28 per cento era detenuto dai cosiddetti “non residenti”. Come suggerisce il nome, rientrano in questa categoria i singoli investitori e gli istituti finanziari che non sono residenti in Italia. Da quando si è insediato il governo Meloni, questa percentuale è rimasta di fatto stabile. A novembre 2022 il 27 per cento del debito pubblico era detenuto infatti da “non residenti”. La stessa percentuale è stata registrata a giugno 2023.

La Giorgiacrazia fra palco e realtà

Poi ci sono le abituali bugie sull’occupazione che per la presidente del Consiglio avrebbe “toccato il record” grazie a “un’inversione di tendenza”. Peccato che la tendenza sia sempre la stessa (in crescita) dal 2021 (era il governo Draghi) e l’Italia resta sempre all’ultimo posto dell’Unione europea. Non poteva mancare la retorica sull’immigrazione: “grazie all’accordo tra Unione europea e Tunisia le partenze sulle rotte del Mediterraneo centrale sono diminuite del 60 per cento”, dice Meloni. Il 2023 è stato il secondo anno con più sbarchi dal 2016 eppure per Meloni il calo (che non è del 60% ma solo del 12%) sarebbe merito dei suoi accordi con Kaïs Saïed.

Meloni dice che “il traffico degli esseri umani vale più della droga” ma nessuno sa dove lo abbia letto: escondo le stime più aggiornate delle Nazioni Unite, nel mondo il profitto del traffico di migranti arriva fino ai 7 miliardi di dollari, mentre quello degli esseri umani fino a 32 miliardi. Il traffico di droga vale di più, superando i 300 miliardi di dollari. Numeri a caso con il Pnrr con la presidente del Consiglio che esulta perché l’Italia “è la nazione più avanti per rate erogate” omettendo che molti altri Paesi non hanno concordato l’erogazione di fondi in dieci rate come noi. Un misto di mezze verità e di propaganda retequattrista, con il nome Giorgia da scrivere sulla scheda per illudersi di darle del tu.

È una Meloni che assomiglia ogni giorno di più alla politica “stile Mediaset” del “se ce l’ho fatta io ce la farete anche voi”, tutta tesa a identificare le sorti del Paese con gli umori di una persona. Lì Silvio rivendicava i successi imprenditoriali, qui è il sogno americano in salsa borgatara. Così Meloni può permettersi di irridere anche il suo alleato Matteo Salvini che vorrebbe il ponte ma non riesce a stare a galla nemmeno nel suo partito. In casa Lega la candidatura del generale Roberto Vannacci sta serrando le fila degli ostili al ministro e rischia di essere un acceleratore della caduta facilmente prevedibile. Salvini sa bene che Vannacci ha già iniziato a correre in solitaria, prendendo le distanze dalla Lega e quindi anche dalle sorti del suo segretario. L’unica possibilità di salvare la sua leadership per Salvini è un miracolo elettorale che non accadrà. La campagna elettorale per le europee ha l’aria di essere una lunga agonia. E così tra una Meloni in delirio di onnipotenza e un Salvini che tenta la xenofobia come colpo di coda basta che il presidente di Forza Italia Antonio Tajani rimanga zitto e in disparte per farlo sembrare il nuovo Churchill.

L’articolo Dietro la propaganda niente: benvenuti nella Giorgiacrazia sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

L’ossessione del carcere per i giornalisti: nuovi emendamenti

Incapaci di liberarsi dall’ossessione delle manette per i giornalisti gli emendamenti ora fanno il giro largo e ritornano sul tavolo della commissione Giustizia alla Camera sul ddl Cybersicurezza. Le firme sono sempre le stesse: c’è Forza Italia che continua la lotta al giornalismo del suo fondatore Silvio Berlusconi e ci sono i due centri del fu terzo polo (Azione e Italia viva) che in nome del garantismo aggiungono carcere. 

Gli emendamenti sono firmati da Enrico Costa di Azione, Maria Elena Boschi di Italia viva e Tommaso Calderone di Forza Italia. I calendiani e renziani vorrebbero il carcere da sei mesi fino a tre anni per chiunque, fuori dai casi di concorso, divulghi “mediante qualsiasi mezzo” informazioni provenienti da sistema informatico conoscendone la provenienza illecita. Calderone rilancia con 8 anni di carcere per chiunque con “qualsiasi mezzo” divulghi dati sottratti da un sistema informatico. 

Nel ddl Cybersicurezza spuntano emendamenti di Forza Italia, Azione e Italia viva che prevedono fino a otto anni di carcere

Il sottosegretario Mantovano nei giorni scorsi ha precisato che il governo deve ancora ragionare sugli emendamenti proposti, provando a non fare accendere l’allarme. È però evidente che i “chiunque” citati all’interno delle proposte non siano altro che i giornalisti, con particolare riferimento ai tre giornalisti del quotidiano Domani Giovanni Tizian, Nello Trocchia, Stefano Vergine e Federico Marconi sotto inchiesta a Perugia per accesso abusivo e rivelazione di segreto coinvolti da un esposto del ministro Crosetto che ha chiesto ai magistrati di individuare le fonti.

Lo scontro tra Crosetto e Domani è nato quando il quotidiano ha accusato il neo ministro della Difesa per potenziali conflitti d’interesse tra le sue attività da consulente nel settore della difesa e il ruolo istituzionale che ricopre come ministro. Crosetto che ha lavorato a lungo con aziende che si occupano di armi, incluso Leonardo, ha annunciato la liquidazione delle sue società, decisioni considerate non sufficienti per allontanare i sospetti su alcune scelte che potrebbe fare come ministro, come hanno denunciato anche altri giornali, tra cui il Giornale con il suo direttore Alessadro Sallusti, querelato da Crosetto.

Se gli emendamenti dovessero diventare legge sarebbe la fine del giornalismo investigativo. Rimarrebbe il giornalismo come amplificatore del potere, l’unico che piace moltissimo ai politici di destra, di centrodestra e di quel centro centro che piace tanto alla destra.  

L’articolo L’ossessione del carcere per i giornalisti: nuovi emendamenti sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Due milioni di lavoratori italiani sono costretti al part-time

Una delle cause delle gravi disuguaglianze che affliggono le società è la perdita di potere negoziale del lavoro. In particolare in Italia ci sono troppe lavoratrici e troppi lavoratori che vivono il lavoro come un dono e non come un diritto costituzionalmente riconosciuto, e tra i fenomeni che caratterizzano il Paese, in modo anomalo rispetto al contesto europeo, c’è il part-time involontario che oggi riguarda oltre 2 milioni di lavoratori e lavoratrici.

In Italia quasi un lavoratore su cinque ha un contratto part-time ma nel 57,9% dei casi si tratta di una scelta obbligata

Per il Forum disuguaglianze e diversità si tratta di un paradosso “se si pensa che il lavoro a orario ridotto è considerato una delle strade a cui in molte parti del mondo si guarda per consentire che la riduzione dei tempi di lavoro si trasformi per tutti, indipendentemente dal genere, in un riequilibrio fra tempi di vita e tempi di lavoro”. Invece in Italia il part-time è “molto spesso è l’esito involontario di una marginalizzazione del lavoro che colpisce soprattutto le donne che non traggono da questa condizione benefici, né sul fronte della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro né della remunerazione”. 

Il Forum per le disuguaglianze ha annunciato di avere elaborato un report che verrà presentato nei prossimi giorni. Già il mese scorso la Cgil aveva denunciato che in Italia quasi un lavoratore su cinque in Italia ha un contratto part time ma nel 57,9% dei casi si tratta di una scelta obbligata. È il dato più alto di tutta l’Eurozona. “Se alcuni lavoratori preferiscono o scelgono il part time come un’opportunità – aveva spiegato la Cgil – la realtà evidenzia come per la stragrande maggioranza dei part time involontari le condizioni di estrema flessibilità nell’uso degli orari rendono i lavoratori persone che si devono adattare al ciclo e agli orari delle aziende”.

Le ore che eccedono quelle previste dal contratto di lavoro spesso vengono retribuite in nero

O peggio: “Come emerge anche dall’attività ispettiva condotta dall’Inail, in un rapporto regolarizzato a part time spesso si nasconde un full time irregolare”. Le ore che eccedono quelle previste dal contratto di lavoro, a volte, vengono retribuite in nero, e spesso neanche per intero. La retribuzione media annua di un lavoratore part time, calcola la Cgil, è di 11.451 euro, e si abbassa ancora nel Mezzogiorno, ma se all’orario ridotto si aggiunge anche il contratto a tempo determinato, e quindi l’occupazione discontinua, il salario lordo medio annuo si riduce a 6.267 euro.

L’articolo Due milioni di lavoratori italiani sono costretti al part-time sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Casa lettori recensisce “I mangiafemmine”

(Casa lettori recensisce “I mangiafemmine”)

«È riduttivo definire “I mangiafemmine”, pubblicato da Fandango Libri, un romanzo distopico.

Il testo assume più forme letterarie riuscendo a fare luce sulla contemporaneità.

Uno sguardo che va oltre il presente, lucido, asciutto, crudo e bellissimo.

Ambientato nel paese di DF riesce a cogliere le ambiguità di una classe politica che sottovaluta le problematiche sociali.

La figura di Valerio Corti è tragica icona di un modo di pensare distorto e malato.

A fare da controcanto le storie delle vittime di femminicidio.

Beatrice, Frida, Sonia danno dignità a coloro che non ci sono più.

Giulio Cavalli scrive un testo politico di forte impatto emotivo.

Si fa voce collettiva e rompe il silenzio complice di tutti noi.

La scrittura curata nel linguaggio ha risonanze teatrali, suggestioni immaginifiche, fluidità stilistica.

Ricca di sperimentazioni visive è specchio dove dovremo avere il coraggio di guardarci.

Appariranno maschere o false parvenze di umanità?

Complimenti all’autore per la creatività e l’originalità di un’opera che scuote le coscienze.»

https://casadeilettori.blogspot.com/2024/04/i-mangiafemmine-giulio-cavalli-fandango.html

Meloni e lo Stato come succursale di partito

Il triste spettacolo di manager pubblici in un settore così delicato come la difesa con addosso la maglietta di un partito politico come dei ragazzini invitati a una festa di compleanno è la fotografia perfetta del momento politico italiano. Mentre un partito di maggioranza (la Lega) è in subbuglio per un segretario ormai alla frutta che tenta il patetico colpo di coda con un candidato generale dell’esercito troppo fascista perfino per loro e mentre l’altro partito di maggioranza (Forza Italia) guadagna in credibilità semplicemente astenendosi dal fare e dire cretinate il partito di governo (Fratelli d’Italia) marchia la classe dirigente del Paese chiedendo pubblici atti di sottomissione. 

Nella sala Vienna 1683, una delle tre aree di dibattito della conferenza programmatica di FdI, a tenere in mano la maglietta “L’Italia cambia l’Europa” – slogan del partito di Meloni alle prossime europee – ci sono il ministro della Difesa Guido Crosetto, Giulio Tremonti, Isabella Rauti e il capo dell’agenzia per la cybersicurezza Bruno Frattasi e il presidente di Leonardo, ex Finmeccanica, Stefano Pontecorvo.  La maglietta con il richiamo elettorale di Fratelli d’Italia, nel primo pomeriggio, la espone allegramente anche Pierroberto Folgiero, amministratore delegato di Fincantieri. 

Lo Stato inteso come una succursale del partito è l’ennesima sinistra analogia con quella pagina politica nera in cui perfino i tiepidi vengono visti come potenziali traditori. Quella foto dice molto della politica ma dice molto anche della classe dirigente italiana, serva per inclinazione, che sta guadagnando posizioni in questi anni. 

L’articolo Meloni e lo Stato come succursale di partito sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

La neolingua di Meloni che diserta ma non lo dice

Il responsabile editoriale di Pagella politica Carlo Canepa sottolinea una frase pronunciata dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni durante il suo pomposo annuncio di candidatura alle prossime elezioni europee: «Lo faccio perché mi sono sempre considerata un soldato, e i soldati, quando devono, non esitano a schierarsi in prima linea».

L’utilizzo di un linguaggio militare in tempi di guerra per infiammare un gesto che non è nulla di più di una candidatura meramente simbolica serve per sottolineare l’essere in linea con il tempo. Ma è ridicolo, eccome, perché la prima linea di cui parla Giorgia Meloni è semplicemente un nome usato come simbolo per aggiungere forza a una votazione che di simbolico non ha nulla. La politica come marketing bellico è un modus che di solito si pratica con un minimo di vergogna ma la fierezza in queste ultime elezioni è un caso scuola.

Si tratta dell’ennesimo riferimento alla politica (e quindi alla vita) come guerra costante, con avversari da sconfiggere, armi da scovare, idee da debellare, territori da conquistare. Come scriveva Michele Nigro in un importante articolo su Pangea la lingua “diventa brutta e imprecisa perché i nostri pensieri sono stupidi, ma a sua volta la sciatteria della lingua ci rende più facili i pensieri stupidi […] pensare con chiarezza è il primo passo necessario verso una rigenerazione politica: così la lotta alla cattiva lingua non è un vezzo e non riguarda solo gli scrittori di professione”.

Se Giorgia Meloni si schiera in prima linea per le europee possiamo quindi dire che Meloni sa già che diserterà, se dovessimo seguire la sua metafora. Le parole sono importanti. Ecco spiegato perché intellettuali e scrittori diventano nemici.

Buon lunedì. 

Nella foto: frame del video della conferenza programmatica di FdI, Pescara, 28 aprile 2024

L’articolo proviene da Left.it qui

Il Bestiario della settimana – Il profumo di Fassino, Letizia lieta che balla, le boiate sul 25 aprile e il dadaista Sangiuliano

Il senso del 25 aprile

In evidente crisi di voti e di credibilità, Matteo Salvini si lancia sulla sua idea del 25 aprile in un’intervista al Corriere della Sera. “Ci sono alcuni principii che vanno difesi a tutti i costi: penso alla libertà di pensiero e parola, messi a rischio dal politicamente corretto ormai assurdo che arriva a censurare le fiabe o i cartoni animati”. Per il ministro alle Infrastrutture quindi quella marea di gente che ha sfilato nelle piazze italiane era lì per difendere le fiabe e i cartoni animati. Ci aspettiamo che dopo il generale Vannacci il leader della Lega candida alle europee anche Topo Gigio come simbolo della Resistenza.

Profumo di Piero

Nuova puntata della saga di quel maledetto profumo che si è infilato nella tasca del deputato dem Piero Fassino. Fonti all’interno dell’aeroporto ora dicono che l’ex sindaco di Torino era controllato perché recidivo. Per questo motivo è stato denunciato dal duty free dello scalo di Fiumicino e per questo motivo i vigilantes lo stavano tenendo d’occhio. Lui replica: “Mai detto che stavo parlando al telefono, lo avevo in mano. Contro di me accanimento, ora sto male. Voglio vedere quelle immagini. In vita mia non ho mai rubato nulla. Un malinteso rischia di oscurare tutti i miei anni di attività politica”. Si sente già aria di cleptomania scritta sulla giustifica nel caso in cui la vicenda si rivelasse vera.

Il Paese che amo

L’ex vicepresidente del Parlamento europeo e politica greca Eva Kaili, arrestata e accusata di corruzione nell’ambito dello scandalo corruzione del Qatar nell’Ue, ha annunciato che si trasferirà in Italia. “Verrò a vivere in Italia, paese garantista”, dice. Qualcuno le dica che nel giro di qualche anno potrà tranquillamente rientrare in politica, qui abbiamo lo stomaco forte.

Stangata veneziana

A Venezia per entrare nel centro storico i turisti dovranno pagare un biglietto di 5 euro. Sarà obbligatorio farlo dal 25 aprile al 5 maggio e nei fine settimana fino al 14 luglio, ma solo nella fascia oraria che va dalle 8:30 alle 16. Sono esentati dal pagamento coloro che vivono, studiano, lavorano o alloggiano a Venezia, oltre ad altre categorie, tra cui i parenti dei residenti in città fino al terzo grado e tutte le persone che abitano in Veneto. Tutti devono comunque registrarsi alla piattaforma messa online dal Comune e scaricare un QR Code da mostrare in caso di controlli. Praticamente serve un commercialista per andare in gita.

Quanta Letizia

Letizia Moratti ha ballato sulle note di The best cantata da Ivana Spagna durante la presentazione della sua candidatura. Dopo essersi proposta come punto di riferimento del centrosinistra milanese ora la candidata tornata a casa tra i berluscones decide di riciclarsi come danzatrice. S’è fatta prendere la mano dal trasformismo.

Il dadaista Sangiuliano

Ha ragione il giornalista Massimo Giannini quando dice che il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano “ha tratti di dadaismo politico”. Secondo Sangiuliano, che è pur sempre un ministro, in Italia fino a metà degli anni Settanta c’è stata una dittatura comunista. Nel Paese in cui ha sempre governato la Democrazia cristiana quindi esisteva una dittatura dell’opposizione. Così la destra decide di passare direttamente dal revisionismo all’invenzione. Ce li immaginiamo Fanfani, Andreotti e Forlani a fingere di essere moderati mentre erano spie pagate dal nemico. Una sciagura di ministro.

Ravvedimento operoso

La ministra Daniela Santanchè – che è ancora ministra, sta ancora là, nonostante tutto – per il 25 aprile ha chiesto di “liberare il 25 aprile da chi lo tiene in ostaggio” per farlo diventare “la festa di tutti”. Nel 2008 la stessa ministra festeggiava il 25 aprile scrivendo: “Rivendico con orgoglio di essere fascista, se fascista vuol dire cacciare a pedate nel sedere i clandestini e gli irregolari”. Ora, va bene che devono fare finta di essere diventati improvvisamente adulti e responsabili però non staranno esagerando?

L’articolo Il Bestiario della settimana – Il profumo di Fassino, Letizia lieta che balla, le boiate sul 25 aprile e il dadaista Sangiuliano sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

I tentacoli della ‘ndrangheta in Canada e il sovranismo anche nell’antimafia – Lettera43

Da giorni il collettivo di giornalismo investigativo Occpr si occupa di Angelo Figliomeni, panettiere di Vaughan sospettato di essere uno dei boss a Toronto. In epoca di grande interesse per i criminali percepiti importati in Italia, le ramificazioni delle mafie all’estero sono scomparse dal dibattito pubblico.

I tentacoli della ‘ndrangheta in Canada e il sovranismo anche nell’antimafia

Da giorni il collettivo di giornalisti di inchiesta Occrp si sta occupando di un italiano in Canada, Angelo Figliomeni, ritenuto il boss della locale di ‘ndrangheta a Toronto. Nell’inchiesta condotta da Brian Fitzpatrick (Occrp), Robert Cribb (Toronto Star), Jared Ferrie (Occrp), Alessia Candito (la Repubblica) e Alessia Cerantola (Occrp/Investigate Europe) si racconta di questo apparente panettiere di Vaughan che alza il telefono per minacciare e intimidire alcuni dipendenti della Royal Bank of Canada e della TD Bank. La polizia canadese dal 2017 segue le tracce di Figliomeni e ascolta le sue telefonate in quella che è stata definita «la più grande operazione antimafia» nella storia del Canada. I pubblici ministeri hanno però deciso di non procedere poiché in fase di indagine erano state intercettate anche le telefonate tra gli imputati e gli avvocati. Così le autorità sono state costrette a restituire la mostruosa cifra di 27 milioni di dollari americani che era stata sequestrata. Non male, per un panettiere.

Le cosche e i legami con le banche canadesi

Figliomeni, originario di Siderno e considerato uno dei principali esponenti della ‘ndrangheta della Jonica, è arrivato a Toronto da pregiudicato nei primi anni del 2000. Il suo negozio di panini apparentemente gli ha fruttato moltissimo, visto che Figliomeni può permettersi di avere autisti sempre pronti per portarlo da una parte all’altra della regione. Per verificare la notevole ricchezza dell’organizzazione Figliomeni, la polizia canadese ha ottenuto ordini giudiziari che hanno costretto quattro delle più grandi banche del Paese a consegnare informazioni suoi suoi conti. Al “panettiere” italiano sono stati sequestrati più di 35 milioni di dollari canadesi (27 milioni di dollari Usa) di beni, tra cui cinque Ferrari. La polizia ha anche bloccato 27 case – vietandone la vendita – per un valore di circa 24 milioni di dollari canadesi (18 milioni di dollari Usa). I conti correnti presso RBC, TD Bank, Canadian Imperial Bank of Commerce e Bank of Montreal erano circa 500. Secondo gli investigatori nelle conversazioni tra il presunto boss e il suo “responsabile dell’assistenza clienti” presso la filiale della Royal Bank of Canada, Nicola “Nick” Martino, i «croissant» erano pacchetti di soldi che andavano ripuliti. Per la polizia canadese il 61enne Figliomeni guiderebbe dal Canada la cosca di Siderno. A testimoniarlo, come scrive sempre Occrp, ci sarebbe anche un viaggio di Vincenzo Muià, determinato a scoprire chi avesse ucciso il fratello Carmelo (uomo di mafia) per le strade di Siderno nel 2018. Dov’è andato Muià? A Toronto. Quando è atterrato all’aeroporto internazionale Pearson la sera del 31 marzo 2019 c’erano anche agenti di polizia italiani. Il suo telefono era intercettato. Tra le conversazioni registrate c’è un’appassionata discussione tra Figliomeni, Muià e Luigi Vescio (un altro pregiudicato che a Toronto gestisce un negozio di pompe funebri) su creme idratanti per la pelle.

Canada, i tentacoli della 'ndrangheta e il sovranismo anche nell'antimafia
Una filiale della TD Bank (Getty Images).

Le aree di influenza di clan in Canada e la faida tra i Costa e i Commisso

La federazione delle ‘ndrine calabresi attive in Canada viene chiamata Siderno Group. «Nel Paese dei grandi laghi», scrive Francesco Forgione nel suo libro Mafia export, «i boss di Siderno sono da decenni diventati i padroni e i capi indiscussi tra tutte le organizzazioni criminali presenti: controllano il traffico della droga, hanno creato e comprato attività commerciali, sono ben radicati nelle attività dei porti». Una potenza economica che ha suddiviso il Canada in aree di influenza, proprio come nella regione di origine, al fine di evitare al massimo lotte intestine che avrebbero potuto indebolire i ricchi affari da sviluppare. Scontri, purtroppo, che non sono mancati. La faida scoppiata proprio a Siderno tra i Costa e i Commisso, che ha lasciato sul terreno 53 morti tra la fine degli Anni 80 e i primi Anni 90, ha fatto le sue vittime anche in Canada, indebolendo il gruppo federato, e cosa ancora peggiore, attirando l’attenzione degli investigatori. Il contrasto tra i Costa e i Commisso è nato dal tentativo dei primi di ritagliarsi più spazio e quindi maggiore profitto nei traffici canadesi. I Commisso negli Anni 80 avevano preso in mano le redini della federazione, oltre che del territorio di Siderno, entrando nel grande business della droga. Le rivendicazioni dei Costa sfociarono in una guerra aperta. Vincitori su tutti i fronti, i Commisso ordinarono l’omicidio a Concord, nella regione dell’Ontario, di Giovanni Costa, uno dei boss di rilievo della cosca avversaria. Sconfitti i Costa, che videro decimata la propria famiglia oltre al proprio potere, i Commisso rilanciarono le attività economiche della federazione.

Canada, i tentacoli della 'ndrangheta e il sovranismo anche nell'antimafia
La stazione di Siderno.

Mentre si puntano i fari sui criminali importati in Italia, i tentacoli delle mafie all’estero sono scomparsi dal dibattito pubblico

Un ulteriore duro colpo agli affari delle ‘ndrine canadesi è stato sferrato dall’operazione Siderno Group coordinata dalla Dda di Reggio Calabria nel 2005. Operazione che portò all’arresto a Toronto del boss Antonio Commisso, uno tra i più importanti trafficanti di cocaina allora in circolazione. «L’operazione Siderno Group», si legge nella relazione del 2008 della Commissione parlamentare antimafia, «condotta tra l’Italia, il Canada, gli Usa e l’Australia, ha messo a nudo le attività criminali e i traffici di stupefacenti gestiti da famiglie mafiose dell’area ionica reggina, in stretto collegamento con loro esponenti emigrati da anni in quei Paesi». A distanza di tre anni l’arresto, sempre a Toronto, di Giuseppe Coluccio. Dimostrazione, questa, della capacità della ‘ndrangheta di recuperare le perdite subite da grosse operazioni internazionali di polizia. Una potenza che mette in allarme i suoi diretti avversari, i Rizzuto di Montréal che proprio a Toronto hanno cercato, senza grandi successi, di estendere il proprio potere, e che adesso, decimati dagli arresti, devono respingere l’onda d’urto della ‘ndrangheta. Ora a Toronto comanda, sostengono gli inquirenti, Angelo Figliomeni. In epoca di grande interesse per i criminali percepiti importati in Italia, le ramificazioni delle mafie all’estero sono scomparse dal dibattito pubblico. È il sovranismo, bellezza, anche nell’antimafia.

L’articolo proviene da Lettera43 qui https://www.lettera43.it/canada-ndrangheta-figliomeni-occrp-siderno-group/

In Iran il boia non si ferma mai, pure il rap finisce al patibolo

L’Iran continua la sua opera di repressione del dissenso all’interno del Paese. Ultimo a farne le spese, con la vita, sarà il rapper Toomaj Salehi. Il 32enne è stato condannato a morte per il suo coinvolgimento nelle proteste che hanno travolto l’Iran nel 2022 in seguito alla morte della 22enne Mahsa Amini, la giovane arrestata il 13 settembre 2022 dalla polizia religiosa nella capitale iraniana, dove si trovava con la sua famiglia in vacanza, a causa della mancata osservanza della legge sull’obbligo del velo. Mahsa, condotta in un centro di detenzione, morì dopo tre giorni di coma all’ospedale Kasra di Teheran, presumibilmente dopo esser stata picchiata dagli agenti.

L’avvocato del cantante ha definito “senza precedenti” la decisione del tribunale rivoluzionario, che non ha dato attuazione alla sentenza della Corte Suprema iraniana. Quest’ultima infatti a novembre dello scorso anno ha bocciato la condanna a sei anni e tre mesi di carcere emessa appunto dal tribunale rivoluzionario, a cui aveva poi rimandato il caso per eliminare i vizi di forma riscontrati. Per questo Salehi era stato scarcerato su cauzione: dopo appena 12 giorni di libertà, per aver pubblicato un video su Internet con accuse alla magistratura iraniana e il racconto di torture subite in carcere, era stato nuovamente arrestato. In Iran nel 2023 sono stati giustiziate almeno 883 persone, due al giorno. Sette di loro erano minorenni. I giornalisti che raccontano le rivolte interne sono stati condannati a una media di più di 10 anni di carcere. Amnesty International in un report di agosto 2023 segnalava la morte di “centinaia di manifestanti”, migliaia di arresti, torture e violenze sessuali in stato di detenzione.

L’articolo In Iran il boia non si ferma mai, pure il rap finisce al patibolo sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui