Vai al contenuto

Barnier sull’orlo del baratro: Parigi brucia tra alleanze di convenienza e crisi istituzionali

A Parigi il termometro politico segna febbre. Il governo di Michel Barnier si trova sull’orlo di un precipizio istituzionale. Mercoledì, l’Assemblea Nazionale discuterà due mozioni di censura: una della sinistra unita sotto il Nuovo Fronte Popolare (NFP), l’altra del Raggruppamento Nazionale (RN). In uno scenario quasi surreale, l’estrema destra di Marine Le Pen ha annunciato il suo appoggio alla mozione della sinistra, una scelta che potrebbe sigillare la sorte del governo. Un’alleanza di opportunismo o di caos, come denunciato dai Repubblicani, che accusano Le Pen di giocare con il fuoco per alimentare le sue ambizioni elettorali.

Il peso del 49.3: Barnier sotto accusa

La miccia che rischia di far esplodere il governo è l’utilizzo, da parte di Barnier, dell’articolo 49.3 della Costituzione per far approvare il bilancio della Previdenza Sociale senza il voto parlamentare. Una mossa che, nella fragile cornice di un governo di minoranza, ha offerto alla sinistra e all’estrema destra un’occasione irripetibile per unire le forze. Il voto di censura, se approvato, segnerà la fine di Barnier come primo ministro, rendendolo il capo di governo con il mandato più breve nella storia della Quinta Repubblica.

Dal suo arrivo a Matignon, Barnier ha vissuto in una condizione di precario equilibrio. Il sostegno incerto del Parlamento e l’incapacità di gestire il dialogo con le opposizioni lo hanno reso un bersaglio facile. L’ex commissario europeo, celebre per la sua compostezza, ha mostrato di non aver compreso appieno i rischi di fare concessioni al RN, convinto che Marine Le Pen non avrebbe spinto fino a far cadere il governo. Una valutazione che, secondo fonti vicine al primo ministro, si è rivelata fatale.

Macron, la crisi e la ricerca di stabilità

Intanto, il presidente Emmanuel Macron osserva da Riad, dove si trova per una visita ufficiale. Se la mozione di censura passerà, Macron sarà costretto a nominare un nuovo primo ministro, un compito reso ancora più arduo dall’assenza di una chiara maggioranza in Parlamento. La possibilità di un governo tecnico, o di un esecutivo con una base parlamentare frammentata, potrebbe aggravare ulteriormente l’instabilità politica.

Secondo il leader socialista Olivier Faure, la situazione attuale riflette il fallimento strutturale del macronismo: “Macron ha ignorato la necessità di compromessi reali. Ora paga il prezzo della sua arroganza istituzionale.” La sinistra spinge per la nomina di un primo ministro vicino al loro fronte, ma la realtà parlamentare rende questa prospettiva altamente improbabile.

Marine Le Pen: stratega o sabotatrice di Barnier?

Nel frattempo, Marine Le Pen emerge come una figura ambigua. La sua decisione di sostenere la mozione di censura della sinistra ha suscitato accuse di irresponsabilità, ma anche plausi da chi vede in questa mossa un calcolo strategico per rafforzare la sua immagine come leader trasversale. “Non è una questione di destra o sinistra, ma di difendere i francesi,” ha dichiarato, giustificando il suo sostegno alla censura come una necessità per bloccare un bilancio definito “ingiusto e punitivo.”

Un Paese sull’orlo dell’incertezza

La Francia si prepara a una settimana decisiva. Il rischio non è solo quello di una crisi politica, ma anche di un impasse istituzionale che potrebbe paralizzare le decisioni cruciali per il Paese. Con le elezioni presidenziali ancora lontane, ma un Parlamento frammentato e polarizzato, l’unica certezza è l’incertezza.

Barnier, con il suo stile solenne e poco incline al compromesso, appare sempre più come il capro espiatorio di un sistema in bilico. Se mercoledì il suo governo verrà censurato, l’eredità del suo breve mandato sarà un monito per chiunque tenti di governare senza il sostegno reale di un Parlamento. Macron, intanto, dovrà trovare un equilibrio quasi impossibile: mantenere una parvenza di stabilità mentre il vento del caos soffia sempre più forte.

L’articolo Barnier sull’orlo del baratro: Parigi brucia tra alleanze di convenienza e crisi istituzionali sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

I buchi neri dell’Autonomia: la lezione della Consulta

La Corte costituzionale ha depositato la sentenza sull’Autonomia differenziata, dopo che a novembre era stata annunciata la dichiarazione di parziale incostituzionalità della riforma voluta dalla Lega e scritta dal ministro Roberto Calderoli. 

Nella sentenza firmata dal giudice Giovanni Pitruzzella, si specificano esattamente su quali questioni il parlamento dovrà intervenire con una modifica costituzionalmente orientata. Tra i rilievi vi sono le materie intrasferibili che erano state fissate all’articolo 117 della Costituzione e che sono state violate dalla legge illegittima voluta dal governo. Sono le materie in cui, dice la Consulta, “predominano le regolamentazioni dell’Unione europea” come la politica commerciale comune, la tutela dell’ambiente, la produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia e del sistema elettrico e le grandi reti di trasporto e di navigazione, le norme generali sull’istruzione che hanno una «valenza necessariamente generale ed unitaria», le funzioni relative alla materia delle “professioni”, in particolare quelle ordinistiche, e i sistemi di comunicazione (elettronica o di internet) che hanno finalità di tutela dei consumatori e dunque afferiscono alla materia “tutela della concorrenza”. 

Come nel caso dei migranti in Albania un tribunale deve ricordare alla maggioranza di governo che esiste una gerarchia delle leggi che deve essere rispettata e che nulla ha a che vedere con il “mandato del popolo” o altre sciocchezze elementari simili.  Di solito il concetto di norme superiori e norme inferiori si studia in educazione civica nella scuola secondaria di primo grado, alle scuole medie. Ma evidentemente al governo urge un ripasso generale.

L’articolo I buchi neri dell’Autonomia: la lezione della Consulta sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Un milione di occupati fantasma, così i numeri alimentano la propaganda. Nel post di Meloni 24,092 diventa 24,92 per celebrare un altro successo

Giorgia Meloni si prende un’altra licenza poetica con i numeri. Questa volta il tema è l’occupazione ed è bastata una semplice grafica sui social per trasformare i dati ufficiali dell’Istat in un piccolo capolavoro di distorsione. Il post, datato 2 dicembre, attribuisce al governo il merito di un record occupazionale con “24,92 milioni di occupati”, “47 mila in più” rispetto al mese precedente. Peccato che i numeri veri parlino di 24,092 milioni, quasi un milione in meno rispetto alla narrazione trionfalistica. La differenza non è un dettaglio tecnico: è il cuore del problema.

Il numero gonfiato da Meloni e i fatti veri

Secondo l’analisi pubblicata da Pagella Politica, i dati Istat sull’occupazione di ottobre sono chiari e pubblici: si tratta di 24 milioni e 92 mila persone occupate non 24 milioni e 920 mila. Un errore macroscopico che rivela quanto la propaganda nel tentativo di esaltare i risultati del governo possa finire per deformare la realtà. L’Istat stesso, interpellato da Pagella Politica, ha confermato il dato corretto e smentito la cifra riportata dalla presidente del Consiglio. Tanto che, “due ore dopo la pubblicazione del post, la grafica è stata corretta sulle pagine Facebook e Instagram di Meloni“, mentre “su X il tweet con la grafica è stato eliminato“, rileva il sito di Fact Checking.

Non è la prima volta

L’abitudine a giocare con i numeri non è una novità per Meloni. Durante il suo mandato i dati sull’occupazione sono stati spesso usati per costruire narrazioni favorevoli. A settembre, ad esempio, un altro post celebrava un presunto record parlando di “un numero mai raggiunto prima nella storia della Repubblica”. In quel caso, come hanno evidenziato diversi analisti, l’incremento occupazionale era iniziato molto prima dell’insediamento del governo rendendo quanto meno discutibile l’attribuzione dei meriti. Ora però il discorso si complica: non si tratta più di interpretazioni ma di un errore numerico evidente.

I dati non mentono ma la propaganda sì

Come spiega l’analisi di Pagella Politica, l’incremento annuale di occupati è stato di circa 523 mila persone, ma questa crescita segue una tendenza iniziata già nel 2021 quando l’economia ha iniziato a riprendersi dopo il crollo della pandemia. Le politiche dell’attuale governo, in altre parole, non possono essere l’unica causa di questo miglioramento come invece si tende a suggerire nei messaggi propagandistici.

Non è solo un problema di numeri gonfiati. È un problema di fiducia. Quando una delle massime cariche dello Stato comunica dati sbagliati il rischio è quello di minare il rapporto tra istituzioni e cittadini. La fiducia si costruisce con la trasparenza non con le cifre accomodate per una grafica più accattivante.

Governo Meloni, una comunicazione sistematicamente imprecisa

Quello che emerge da episodi come questo non è un errore isolato ma una tendenza consolidata. Meloni e il suo governo sembrano essere sempre più inclini a un uso disinvolto dei numeri piegandoli alle necessità di una narrazione che punta al consenso. Non è un caso che proprio quest’anno Pagella Politica abbia dedicato numerose analisi alle dichiarazioni della presidente del Consiglio riscontrando un pattern di inesattezze, in particolare sui temi economici e sull’immigrazione.

La manipolazione numerica non è mai neutrale. Serve a costruire una realtà parallela in cui il governo appare impeccabile anche quando i dati raccontano una storia diversa. In un contesto come quello attuale, con un’opinione pubblica già polarizzata e una fiducia nelle istituzioni ai minimi storici, questa strategia rischia di essere profondamente dannosa.

Alla fine, l’errore di Meloni sui dati Istat è più che un errore. È un riflesso di come la comunicazione politica stia abbandonando la precisione e l’accuratezza a favore della spettacolarità. E quando i numeri diventano una questione di marketing allora i politici giocano ad altro. Rischiando di trasformarsi in televenditori. 

L’articolo Un milione di occupati fantasma, così i numeri alimentano la propaganda. Nel post di Meloni 24,092 diventa 24,92 per celebrare un altro successo sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Altro che Italia davanti a tutti, ecco la realtà parallela del Pnrr

Siamo alle solite. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) nasceva come una promessa: ridare slancio alle grandi opere italiane e colmare i divari territoriali. Una partita decisiva, finanziata con risorse europee irripetibili. Oggi, però, i numeri e i fatti raccolti da Openpolis raccontano una storia molto meno entusiasmante. Finanziamenti ridotti, progetti in stallo e una trasparenza che vacilla.

Da 126 miliardi a 82: il taglio ai finanziamenti del Pnrr

Partiamo dai numeri: il valore complessivo delle opere strategiche previste dal Pnrr è passato da 126 miliardi di euro a 82,8. Perché? Il governo ha deciso di ridimensionare il piano, tagliando fuori i progetti che non possono essere completati entro il 2026, scadenza imposta dall’Unione europea. Dei fondi rimasti, solo 27,1 miliardi provengono direttamente dal Pnrr, mentre altri 16,2 sono coperti dal Piano nazionale complementare (Pnc). E gli altri progetti? Definanziati, con la promessa – tutta da verificare – di recuperarli attraverso altre risorse.

La revisione ha sollevato più di un dubbio: quali sono le opere che realmente verranno portate a termine? A quali si rinuncia Finora, le risposte mancano.

Un altro dato chiave arriva dall’analisi dello stato di avanzamento dei progetti. Formalmente, l’81,3% del valore delle opere risulta “avviato”. Ma attenzione: avviare un progetto non significa avviare un cantiere. Molte delle opere incluse in questa percentuale sono ancora in fase di progettazione o gara d’appalto. Le ruspe, nella maggior parte dei casi, non si vedono ancora.

Il Sud, ancora una volta, paga il prezzo più alto. Doveva essere la grande occasione per colmare il divario infrastrutturale con il Nord, ma il Mezzogiorno è rimasto indietro. Le opere promesse tardano a partire e, senza un’accelerazione significativa, difficilmente saranno completate nei tempi richiesti dall’Europa.

Il nodo della trasparenza

Se a questo quadro si aggiunge la difficoltà di monitorare i progetti, il problema diventa ancora più grave. La piattaforma “Italia Domani” dovrebbe servire a garantire trasparenza e accesso alle informazioni. Ma i dati disponibili sono lacunosi. Al 31 dicembre 2021, erano consultabili informazioni dettagliate su 5.246 progetti, contro i 73.000 annunciati dal governo Draghi nella seconda relazione al Parlamento. Una discrepanza che solleva interrogativi sulla reale capacità di controllo e supervisione.

La scadenza del 2026 rappresenta un’altra spada di Damocle. I fondi europei devono essere utilizzati entro quella data, pena la loro perdita. Questo lascia pochissimo margine per errori o ritardi. Progetti già finanziati potrebbero non essere completati in tempo, e le opere escluse dal Pnrr rischiano di rimanere nei cassetti.

I numeri non mentono: tagliare quasi 50 miliardi di euro significa ridurre drasticamente le ambizioni. Lasciare i cantieri fermi, soprattutto al Sud, vuol dire tradire la promessa di un Paese più coeso. E ignorare il problema della trasparenza significa alimentare il sospetto che le risorse non vengano utilizzate al meglio.

Il Pnrr era un’occasione unica. Il tempo stringe, e la sensazione è che ci si stia muovendo troppo lentamente nonostante il taglio delle ambizioni. Il governo insiste con gli euforici annunci, evitando accuratamente le conferenze stampa. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni tre giorni fa ha parlato di “Italia davanti a tutti” nella realizzazione del Piano. È magia finanziaria: restringere gli obiettivi in corsa per dare l’illusione dell’avanzamento. 

E chissà che ne dicono a Bruxelles, che ne pensa von der Leyen di un ex ministro al nostro Pnrr opaco e zoppicante che ora è stato promosso vice presidente della Commissione europea: Raffaele Fitto. 

L’articolo Altro che Italia davanti a tutti, ecco la realtà parallela del Pnrr sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Aumenti beffa ai pensionati, dieci grammi di pane al dì

Non le costosissime carceri deserte in Albania, né le scazzottate tra Lega e Forza Italia sul canone che non deve disturbare la famiglia Berlusconi, né la lista della spesa dei nuovi reati: se c’è un’immagine che fotografa il Paese impantanato, sono le pensioni minime, appiglio vitale di un’Italia sempre più vecchia e con sempre meno servizi sanitari pubblici. Qualche settimana fa, nella bozza della legge finanziaria, si parlava di un aumento di tre euro, portando le pensioni minime a 617,77 euro, una cifra per mettere insieme il pranzo con la cena, trascinandosi come peso in un Paese in cui figli e genitori diventano welfare gli uni per gli altri in mancanza di protezione e cura dello Stato. Poi qualcuno deve aver pensato che tre euro fossero troppi e quindi, da gennaio, l’aumento sarà di 1,80 euro al mese. Sono trecento grammi di pane in più da dividere in un mese, 10 grammi al giorno.

È il tozzo di pane non figurato. Forza Italia (ma non solo), da anni, a ogni tornata elettorale, promette pensioni minime da mille euro per tutti, secondo il verbo che fu di Silvio Berlusconi. Ai tempi d’oro, c’era anche la promessa di una dentiera gratis per tutti “i nostri nonni”, come li chiamava Silvio. Con l’aumento delle pensioni minime, i nonni dovranno vivere almeno altri 25 anni per comprarsene una. I giovani traditi dal mercato del lavoro con salari bloccati, gli anziani in fila per il loro tozzo di pane, il ceto medio stangato dall’aumento delle tasse. Non ci vuole troppa fantasia per comprendere a chi giova la legge di bilancio, basta escludere le categorie punite. Niente nonni, dunque, nella famiglia tradizionale che si vuole preservare. Né nipoti, né cittadini medi. E, se finirà il pane, qualcuno dirà di distribuire le brioche.

L’articolo Aumenti beffa ai pensionati, dieci grammi di pane al dì sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Tra Tajani e Salvini è guerra, e Meloni si arrocca sui fedelissimi

Giorgia Meloni aveva fretta. Stringe il tempo del probabile rinvio a giudizio della ministra del Turismo, Daniela Santanchè, e la priorità era quella di sostituire subito il ministro degli Affari europei e del Pnrr, Raffaele Fitto, neo commissario a Bruxelles alla corte di von der Leyen.

Evitare il rimpasto era l’imperativo della presidente del Consiglio, soprattutto in queste settimane in cui Tajani e Salvini se le stanno dando di santa ragione, inficiando la parvenza di maggioranza compatta che per Meloni è fondamentale per concimare la sua autorevolezza.

Forza Italia ha timidamente provato a chiedere la poltrona in virtù della crescita alle ultime tornate elettorali. Da Palazzo Chigi fanno notare che ,al massimo, avrebbe dovuto essere la Lega a cedere qualcuno dei suoi posti. Per qualche giorno si è coltivata l’idea di mettere al ministero un tecnico, qualsiasi cosa significhi. Il ragionamento era semplice: un nome ben visto dall’Ue avrebbe contribuito alla narrazione di Meloni moderata ed europeista, un altro passo per rendere potabile il gruppo dei Conservatori e Riformisti europei (Ecr) nel consesso dei grandi d’Europa.

Ma alla fine a vincere sono le fobie. La presidente del Consiglio si sente assediata perfino dai suoi alleati, vede complotti dappertutto. Si opta per la fedeltà come primo merito, ingrediente immancabile del sovranismo contemporaneo. Così Con Fitto a Bruxelles  Tommaso Foti diventa ministro. “Masino” è meloniano fino al midollo, bravo a mostrarsi istituzionale quando non gli scappa una mascherina con la scritta “Boia chi molla” e quando non rinnega il 25 aprile per eccesso di euforia. “Tra le migliori risorse di cui Fratelli d’Italia dispone oggi”. Non ne dubitiamo.

Buon martedì.

L’articolo proviene da Left.it qui

Quando il mare si alza, chi paga La sfida delle isole del Pacifico contro gli inquinatori globali

Non è solo una questione di sopravvivenza. Le isole del Pacifico, i luoghi che rischiano di sparire sotto il mare gonfiato dai gas serra dei giganti industriali, hanno deciso di puntare il dito. Non con le armi, ma con la legge. Vanuatu, l’arcipelago che i modelli climatici predicono sarà sommerso entro pochi decenni, è al centro di un processo che potrebbe cambiare il modo in cui il mondo definisce il cambiamento climatico: responsabilità giuridica, non più un generico “problema globale”.

La Corte Internazionale di Giustizia (CIG) ha aperto oggi audizioni che nessuno può permettersi di ignorare. Non si tratta di una querelle accademica, ma della domanda più scomoda del nostro tempo: gli Stati che inquinano possono essere considerati legalmente responsabili dei danni climatici? La risposta, se arriverà, sarà il risultato di un’iniziativa lanciata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite su richiesta proprio di Vanuatu. Sono stati necessari anni di lobbying internazionale per ottenere quel voto, che ora porta la questione davanti ai 15 giudici dell’Aia.

Il parere che uscirà da queste udienze non sarà tecnicamente vincolante, ma sarebbe superficiale sottovalutarne il potenziale impatto. Negli anni, i pareri consultivi della CIG hanno tracciato linee rosse per le dispute territoriali, definito i contorni delle violazioni dei diritti umani, e ora potrebbero aprire la strada a cause climatiche che non sarebbero più un’utopia. Potremmo trovarci, a breve, in un mondo in cui gli Stati più colpevoli di emissioni devono rispondere non solo ai propri elettori, ma anche ai tribunali internazionali.

Chi paga il conto del riscaldamento globale

La partita non è solo giuridica. È politica, economica, e profondamente morale. Quando la Cina e gli Stati Uniti – i due più grandi emettitori di gas serra al mondo – si presentano all’Aia, è chiaro che la posta in gioco è enorme. Le nazioni del Pacifico, spesso liquidate come vittime passive, ribaltano la narrativa. Non chiedono elemosina, ma riconoscimento: il danno che subiscono è conseguenza diretta delle emissioni altrui. Non è fatalismo, ma causalità scientifica.

Gli ultimi report dell’IPCC parlano chiaro: il livello del mare è salito di circa 21-24 cm dal 1900 a oggi, con un’accelerazione negli ultimi trent’anni. Per nazioni come Vanuatu, questo significa non solo perdere terra, ma anche acqua potabile, biodiversità, economie. La vita quotidiana di chi vive in queste isole è già segnata da eventi climatici estremi che diventano più frequenti e devastanti. Eppure, i finanziamenti promessi dai Paesi ricchi – come i famosi 100 miliardi di dollari annui per il clima – restano una promessa. L’Ocse ha certificato che quella cifra non è mai stata raggiunta, un altro tassello di un sistema costruito sulla retorica.

Le promesse infrante della diplomazia

L’Accordo di Parigi del 2015, celebrato come il punto di svolta per la lotta al cambiamento climatico, non prevede meccanismi di enforcement. Chi inquina e non rispetta gli impegni può farlo impunemente. La CIG, con il suo parere, potrebbe colmare questo vuoto, fornendo un quadro giuridico che altri tribunali – nazionali e internazionali – potrebbero adottare.

Dietro le quinte, però, si intravede il nervosismo. Stati Uniti, Cina e persino l’Unione europea non amano l’idea di trovarsi accusati per inazione o per politiche climatiche troppo lente. Eppure, negare che esista una responsabilità giuridica rischia di indebolire ulteriormente la credibilità di quei Paesi che si autoproclamano leader nella transizione verde. Come puoi dichiararti “campione del clima” quando rifiuti persino di affrontare un tribunale?

L’orizzonte del 2025

Il parere consultivo della CIG arriverà, con ogni probabilità, nel 2025. Ma non sarà la fine. È solo il primo capitolo di una battaglia legale che potrebbe durare decenni. Intanto, il mondo continuerà a bruciare: 2024 potrebbe essere l’anno più caldo mai registrato, spinto da El Niño e dall’aumento continuo delle emissioni di CO₂. Le persone migranti climatiche – termine che oggi sembra ancora troppo astratto – potrebbero raggiungere i 1,2 miliardi entro il 2050, secondo un rapporto della Banca Mondiale.

Ecco perché il caso delle isole del Pacifico non riguarda solo loro. Riguarda tutti. Se un giorno ci sarà giustizia climatica, sarà grazie a quelle nazioni che, nonostante la fragilità geografica e politica, hanno deciso di sfidare il mondo intero. Vanuatu e le altre isole del Pacifico non stanno chiedendo il permesso di sopravvivere. Stanno reclamando un diritto. E se vinceranno, sarà un precedente che nessun inquinatore potrà ignorare.

L’articolo Quando il mare si alza, chi paga La sfida delle isole del Pacifico contro gli inquinatori globali sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Joe Biden: grazia a Hunter, ma chi grazierà la sua credibilità?

Nelle ultime settimane prima del passaggio di consegne alla Casa Bianca, il presidente uscente Joe Biden ha sentito l’impellente necessità di concedere l’uso di mine antiuomo all’Ucraina, dimenticando come gli Stati Uniti abbiano speso un miliardo di dollari per toglierle in luoghi come Iraq, Afghanistan, Vietnam, Laos e Cambogia.

Ieri Biden ha deciso di usare i suoi poteri residuali per dare la “grazia piena e incondizionata” a suo figlio Hunter, spiegando di averlo fatto per “ragioni politiche”. «Attraverso lui – ha spiegato – volevano spezzare me. Quando è troppo, è troppo».

Il figlio del presidente rischiava oltre vent’anni di carcere dopo essere stato dichiarato colpevole per possesso illegale di arma e per avere mentito all’Fbi e, in un altro processo in California, per frode finanziaria.

Hunter Biden è da tempo nel mirino della propaganda trumpiana, dipinto come connivente con la Cina e l’Ucraina (accuse che si sono rivelate infondate), nonché dedito a riti satanici e ad altre sciocchezze. Hunter Biden però è anche stato giudicato colpevole da due diversi tribunali statunitensi.

«Nessuna persona ragionevole – ha scritto il presidente Biden in una nota – che guarda ai fatti dei processi a Hunter può arrivare a una conclusione diversa da quella che sia stato preso di mira perché è mio figlio, e questo è sbagliato». Il presidente, quindi, ha ritenuto che il suo ruolo politico valesse come ultimo grado di giudizio, confondendo la giustizia con la politica.

Biden, quindi, ha fatto ciò che si teme possa fare Trump. L’indelebile ricordo lo pagheranno i Dem.

Buon lunedì.

Nella foto: Hunter e Joe Biden, 2009

L’articolo proviene da Left.it qui

Punire o rieducare? La lezione di una madre ai politici che giocano con le leggi

C.G. ha compiuto da poco 18 anni. La sera del 16 ottobre, di fronte al bar Mediterraneo di Sorrento, è caduto vittima di un agguato. Sei ragazzi l’hanno aggredito alle spalle e, quando è caduto a terra, lo hanno riempito di calci e pugni. Ha rischiato di perdere un occhio; gli hanno frantumato la mandibola, uno zigomo e alcuni nervi; ha perso un dente.

C.G. quella sera è tornato a casa. I suoi genitori l’hanno visto rientrare con il cappuccio della felpa che gli nascondeva il viso e solo al mattino hanno scoperto la faccia sfigurata del figlio. Trasportato d’urgenza in ospedale, vi è rimasto per più di un mese. I medici parlano di danni permanenti.

La colpa di C.G. è stata quella di difendere un amico dal bullo del posto. Questioni di ex fidanzate, “ragazzate”, si scriverebbe negli articoli frettolosi. Qui il morto non c’è stato per poco, ma i morti in Campania e gli episodi di violenza giovanile si ripetono negli ultimi mesi.

La madre del ragazzo, Alessandra, intervistata da Vincenzo Iurillo del Fatto Quotidiano, alla domanda se ritiene troppo flebili gli arresti domiciliari degli aggressori di suo figlio, risponde: “Sui provvedimenti non ho rimproveri da fare. Da mamma mi sentirò tranquilla solo quando questi ragazzi saranno rieducati e capiranno il male che ci hanno fatto. Ho tanta speranza che siano recuperabili”.

Mentre il governo invoca nuovi reati e più punizioni, la madre di una vittima ricorda il dovere costituzionale della riabilitazione. Siamo in un tempo in cui le vittime sono più lucide dei governanti. E questo è tutto.

L’articolo Punire o rieducare? La lezione di una madre ai politici che giocano con le leggi sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Modena Today su “A casa loro”

Venerdì 29 novembre alle 21 al Teatro Troisi di Nonantola è in programma “A casa loro”, monologo teatrale sull’immigrazione che fa parte del del Festival della Migrazione 2024 Europa-Africa andata e ritorno. Partendo da inchieste, interviste e documentazione delle ONG Internazionali, Giulio Cavalli e Nello Scavo, reporter internazionale di “Avvenire”, raccontano la tratta degli esseri umani che ogni giorno si consuma attraverso l’Africa e il Mediterraneo, fino alle nostre coste. 

“Siamo lieti – commenta l’Assessora Ileana Borsari – di ospitare a Nonantola la IX Edizione del Festival della Migrazione 2024 Europa-Africa  andata e ritorno: le storie e i cammini che rigenerano l’Italia. Il Festival si pone l’obiettivo ambizioso di trasformare la narrazione della migrazione, in  particolare mette in luce il contributo delle comunità migranti all’economia, alla cultura e alla società italiana.  Il Festival non è solo un’occasione di riflessione accademica e istituzionale, ma offre anche appuntamenti di grande impatto. Venerdì 29 novembre  – conclude l’Assessora con deleghe a Servizi sociali, Associazionismo, Pace ed intercultura –  è in programma il primo evento. Attraverso inchieste, interviste e documentazioni raccolte da ONG internazionali, il monologo teatrale “A casa loro” racconta le stori di chi affronta la tratta degli esseri umani, attraverso l’Africa e il Mediterraneo”. 

Un’opera scritta e interpretata da Giulio Cavalli, insieme a Nello Scavo, reporter internazionale di “Avvenire” che ci invita a riflettere sulla migrazione da una prospettiva umana e diretta. Un evento realizzato grazie al contributo della rete di Associazioni presente e impegnata a Nonantola nell’accoglienza e nella promozione dei diritti e della cittadinanza dei migranti.

— 
Al Teatro Troisi di Nonantola il monologo sull’immigrazione “A casa loro”
https://www.modenatoday.it/eventi/a-casa-loro-troisi-nonantola-29-novembre-2024.html
© ModenaToday