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Miele sì, ma senza pace. Al mercato il mix è illegale

Marco Borella è un apicoltore che gira i mercati della sua zona per vendere il miele. Al mercato di Desio, in provincia di Monza e Brianza, ci va tutte le settimane con il suo banchetto del miele all’interno del mercato cittadino.

Lunedì mattina a Desio qualcuno ha chiamato i carabinieri perché Marco sul suo banchetto esponeva uno striscione con scritto “stop bombing Gaza, stop genocide”. Marco è un professionista come lo volevano i padri costituenti: professionista perché guadagna un salario dal suo lavoro e professionista perché professa nel suo lavoro i suoi ideali.

I carabinieri gli hanno chiesto di rimuovere lo striscione perché si trattava di “propaganda politica” non autorizzata. È il segno di questi tempi, dove chiedere di cessare un conflitto o chiedere di non far annegare le persone in mare o chiedere di non violentarle nei lager ai confini dell’Europa è considerato una “posizione di parte”.

Marco si è rifiutato di rimuovere lo striscione e si è beccato una multa da 430€ per “propaganda politica non autorizzata”. A pensarci bene, gli è andata bene in questo periodo dove il potere vede terroristi e scafisti dappertutto.

Ora ci sarà il ricorso, ma l’apicoltore dice di non potersi permettere una multa ogni volta. Lo striscione per ora viene ripiegato nel cassetto, con buona pace dei troppo sensibili che vogliono un mercato che si limiti ai salumi e ai formaggi.

Essere multati perché si chiede lo stop alle bombe è la dimostrazione che non siamo solo in un’economia di guerra ma in una vera e propria socialità di guerra. Le guerre lì fuori sono già qui, accalorano gli animi e soffiano sulla repressione. Come tutte le guerre.

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L’Europa si spopola mentre Bruxelles accelera sui rimpatri

Non c’è solo la spettacolare deportazione del governo italiano. L’Unione europea è nel pieno di un dibattito sulle migrazioni e  sembra allontanarsi sempre più dai principi fondanti di solidarietà e accoglienza che ne hanno caratterizzato la nascita. Il prossimo vertice europeo si concentrerà principalmente su come accelerare e rendere più efficienti le procedure di rimpatrio per i migranti irregolari, con proposte che sfiorano pericolosamente i limiti della legalità e dell’etica.

L’ossessione dei rimpatri: l’UE si allontana dai suoi valori fondanti

Quindici Stati membri hanno firmato una lettera chiedendo alla Commissione europea misure “innovative” per accelerare le deportazioni. Tra i firmatari, paradossalmente, figurano paesi come Bulgaria, Lettonia, Lituania e Romania, dove la presenza di stranieri è minima e il vero problema demografico è l’emigrazione massiccia dei propri cittadini verso l’Europa occidentale.

La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, sembra ben disposta ad assecondare queste richieste, aprendo alla possibilità di creare “hub di rimpatrio” al di fuori del territorio dell’Ue. Una proposta che non solo solleva dubbi sulla sua legalità ma che rappresenta un significativo cambio di rotta rispetto alla posizione della Commissione di Jean-Claude Juncker, che nel 2018 aveva escluso tali soluzioni proprio per il rischio di violare il principio di non respingimento.

l paradosso demografico: l’Est Europa si svuota ma chiede frontiere chiuse

Ma mentre l’Ue si concentra sulle misure restrittive emerge un quadro demografico preoccupante per molti Stati membri per una altro tipo di migrazioni, soprattutto quelli dell’Europa orientale. Paesi come Bulgaria, Ungheria, Croazia e Romania stanno vivendo un esodo massiccio della propria popolazione verso l’Ovest, con perdite che in alcuni casi superano il 20% rispetto al periodo successivo alla caduta del Muro di Berlino. 

La Bulgaria, ad esempio, ha perso il 28,2% della sua popolazione in 35 anni, passando da quasi 9 milioni di abitanti nel 1988 a poco più di 6,4 milioni nel 2023. L’Ungheria, nonostante la retorica anti-immigrazione del governo Orban, ha visto la sua popolazione ridursi del 10,5% nello stesso periodo. La Romania ha perso oltre 4 milioni di abitanti dal 1989, pari al 17,8% della sua popolazione.

I dati mettono in luce una contraddizione fondamentale: mentre alcuni paesi chiedono politiche più dure contro l’immigrazione stanno in realtà affrontando una crisi demografica dovuta all’emigrazione dei propri cittadini. La percentuale di popolazione straniera in questi paesi è infatti minima: 1,1% in Romania, 1,3% in Bulgaria, 1,8% in Croazia, 2,4% in Ungheria.

Le proiezioni di Eurostat dipingono un quadro fosco per il futuro. Senza un cambio di rotta nelle politiche migratorie e di natalità molti paesi dell’Ue rischiano di perdere una parte significativa della loro popolazione entro la fine del secolo. La Lettonia potrebbe perdere quasi il 40% della sua popolazione, la Lituania oltre il 35%, la Croazia quasi il 30%.

Ecco perché l’approccio Ue è miope e senza senso. Concentrandosi esclusivamente sul controllo delle frontiere e sull’accelerazione dei rimpatri, l’Unione rischia di ignorare le reali sfide demografiche e economiche che molti suoi Stati membri stanno affrontando.

L’Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, Filippo Grandi, ha recentemente criticato questo approccio, sottolineando come concentrarsi unicamente sui confini non solo sia inefficace ma possa anche violare gli obblighi legali internazionali. Grandi ha invitato invece a guardare alle cause profonde nei paesi di origine, un appello che sembra cadere nel vuoto nel dibattito europeo attuale.

La disunione dell’Ue sulla questione migratoria si manifesta anche nelle recenti dichiarazioni del primo ministro polacco Donald Tusk che ha annunciato la sospensione temporanea delle procedure di asilo a seguito dell’aumento degli ingressi dalla Bielorussia. Una mossa che la Commissione europea ha prontamente ricordato essere in contrasto con gli obblighi internazionali degli Stati membri. Ma gli obblighi internazionale a Bruxelles sembrano esserseli dimenticati da un bel pezzo. 

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Dall’appello su Fitto ai fondi del Pnrr: da Meloni omissioni e mezze verità in vista del Consiglio Ue

Ora è il turno dell’abito conciliante. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha scelto la simulata comunione di intenti per presentarsi di fronte alle Camere in vista del prossimo Consiglio europeo del 17 e del 18 ottobre.

Il primo appello è per sostenere Raffaele Fitto la cui nomina, secondo la premier, è “un notevole miglioramento per la nostra nazione rispetto alla composizione della Commissione uscente, che vedeva quattro vicepresidenti esecutivi e sette vicepresidenti complessivi ma nessuno di questi era italiano”. Le cose non stanno proprio così, visto che la delega ottenuta da Paolo Gentiloni nella scorsa legislatura europea (commissario agli Affari europei) era una delle più pesanti e che l’Italia aveva anche la presidenza del Parlamento europeo con David Sassoli.

Impegnata a ottenere sostegno per il suo ex ministro, Meloni ridisegna anche la storia spiegando che “Raffaele Fitto – in rappresentanza di Fratelli d’Italia – si espresse a favore del candidato italiano (Paolo Gentiloni, ndr) e conseguentemente il gruppo di Ecr votò in suo favore”. Una dichiarazione che secondo Pagella Politica contiene alcune omissioni. A settembre 2019 proprio Fitto diceva che “l’indicazione di Gentiloni come commissario Ue è l’ultimo frutto avvelenato del patto delle poltrone tra Movimento 5 Stelle e Partito Democratico”. E se nella valutazione post audizioni delle Commissioni (tra le quali Bilancio, Affari economici e monetari e  Sviluppo regionale nelle quali sedeva anche Fitto) non risulta nessuna contrarietà da parte del gruppo dei Conservatori e Riformisti, quello di cui fa parte Fratelli d’Italia, alla plenaria il gruppo si è invece diviso: tra i 16 che votarono contro la Commissione Ue (con dentro Gentiloni) c’erano  tutti i parlamentari europei di Fratelli d’Italia (compreso Fitto).

La retorica europea di Meloni: tra fatti distorti e ambizioni personali

Presa dall’entusiasmo Meloni spiega che “l’Italia è oggi la nazione più avanti di tutte nella realizzazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, nonostante abbia anche il piano più corposo”. Anche questa è un’iperbole già sentita e già smentita. Pagella politica ricorda come sulle rate la Francia ha ricevuto tre rate su cinque (il 60 per cento) ed è davanti all’Italia e sull’erogazione dei contributi in percentuale Francia e Danimarca hanno ricevuto più soldi dell’Italia.

La premier, nel suo discorso alle Camere, ha toccato diversi temi caldi. Con tono grave, ha espresso “preoccupazione per l’escalation in corso in Libano”, sottolineando l’importanza di garantire la sicurezza dei soldati italiani impegnati nella missione Unifil. Preoccupata di perdere l’amicizia di Israele Meloni ha tirato la stoccata “alle manifestazioni di piazza di questi giorni” accusate di “un giustificazionismo verso organizzazioni come Hamas ed Hezbollah, e questo, piaccia o no, tradisce altro un antisemitismo montante”. 

Politica estera e interna: il doppio binario della strategia meloniana

Sulla questione migratoria, la premier ha rivendicato i risultati del governo, parlando di una diminuzione del 60% degli sbarchi nel 2024 rispetto all’anno precedente. Dati sostanzialmente corretti. La premier non ha risparmiato critiche alle Ong, in particolare a Sea Watch, accusandola di “dichiarazioni vergognose” per aver definito le guardie costiere “i veri trafficanti di uomini”. L’Ong risponde spiegando che “non è Sea Watch a definire ‘criminali’ le guardie costiere del Nord Africa, ma ci sono sanzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite” e ricordando che “negli anni 2015-2016 la Guardia costiera italiana convocava le ong a Roma per studiare insieme come meglio soccorrere le persone migranti nell’ambito di incontri chiamati ‘una vis’, una forza”. 

Sul fronte economico Meloni ha citato i rapporti di Mario Draghi ed Enrico Letta – vecchi nemici ora fari –  per sostenere la necessità di un cambio di rotta sul Green Deal europeo. Ha parlato di “effetti disastrosi” dell’approccio ideologico alla transizione ecologica, sostenendo che “inseguire la decarbonizzazione al prezzo della deindustrializzazione è un suicidio”.

La strategia di Meloni appare chiara: presentarsi come leader forte e decisa in patria, mentre cerca di navigare le acque tumultuose della politica europea con una miscela di assertività e pragmatismo. Resta da vedere se questa strategia porterà i risultati sperati o se, al contrario, finirà per indebolire la posizione italiana nel contesto europeo.

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La povertà si eredita: come il titolo di studio dei genitori condanna i figli

Inizia l’anno accademico per gli studenti e l’Italia si conferma fanalino di coda in Europa per istruzione universitaria, con implicazioni allarmanti per il futuro del paese. Secondo i dati Eurostat elaborati da Openpolis, nel 2023 solo il 30,6% dei giovani italiani tra 25 e 34 anni risultava in possesso di una laurea o titolo equivalente. Un dato che, nonostante il lieve miglioramento rispetto al 29,2% del 2022, relega l’Italia al terzultimo posto in Unione Europea, seguita solo da Ungheria (29,4%) e Romania (22,5%). La distanza dalla media UE, pari al 43,1%, resta abissale.

La carenza di laureati non è solo un problema di prestigio nazionale ma ha profonde ripercussioni sul tessuto socio-economico del paese. Come evidenziato da Openpolis, esiste una stretta correlazione tra il livello di istruzione dei genitori e le prospettive educative ed economiche dei figli. In particolare, emerge che nelle famiglie con persona di riferimento in possesso di diploma o titolo superiore, l’incidenza della povertà assoluta si attesta al 4%. La percentuale triplica, raggiungendo il 12,5%, quando il capo famiglia ha al massimo la licenza media.

L’eredità dell’ignoranza: un ciclo vizioso che si autoalimenta

Ancora più preoccupante è l’impatto sull’abbandono scolastico. Tra i figli di genitori laureati, solo l’1,6% abbandona precocemente gli studi. La percentuale sale al 5% quando i genitori hanno il diploma, per poi schizzare al 23,9% – quasi un giovane su quattro – quando il titolo massimo dei genitori è la licenza media.

I dati delineano un quadro in cui il basso livello di istruzione rischia di perpetuarsi di generazione in generazione, creando un circolo vizioso di povertà educativa ed economica. La situazione appare particolarmente critica nel Mezzogiorno, dove si concentrano 14 dei 17 capoluoghi in cui meno di un quarto dei residenti tra 25 e 49 anni è laureato.

Il PNRR: un cerotto su una ferita profonda

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) prevede investimenti mirati per contrastare il fenomeno. In Puglia, ad esempio, sono stati stanziati 268,7 milioni di euro per asili nido e poli d’infanzia, di cui 93,9 milioni destinati alla sola città metropolitana di Bari. Inoltre, 212 istituti pugliesi riceveranno complessivamente 43,1 milioni di euro per contrastare la dispersione scolastica.

Tuttavia gli esperti sottolineano come questi interventi, per quanto necessari, rischino di essere insufficienti se non accompagnati da un cambiamento culturale profondo. La vera sfida sarà quella di spezzare la tendenza alla trasmissione generazionale del livello di istruzione, garantendo a tutti l’accesso a una formazione di qualità, indipendentemente dal background familiare.

Le disparità territoriali emergono con forza dai dati: mentre a Pavia quasi la metà degli adulti (49,5%) ha una laurea, ad Andria la percentuale crolla al 16,6%. Queste differenze non sono solo il riflesso di diverse opportunità economiche ma anche di un diverso atteggiamento culturale nei confronti dell’istruzione superiore.

In Italia, a quanto pare, la laurea non è solo un pezzo di carta incorniciato ma un vero e proprio scudo anti-povertà. I numeri parlano: se il capofamiglia sventola un diploma, solo il 4% delle famiglie rischia di finire sotto la soglia di povertà. Ma se si ha la licenza media la percentuale triplica al 12,5%. E attenzione, perché questo dato sta peggiorando. Sarà forse che l’ignoranza fa più male dell’inflazione?

Ma non solo. Se papà e mamma hanno sudato sui libri fino alla laurea, il figlio ha solo l’1,6% di chance di mollare gli studi. Con genitori diplomati? Si sale al 5%. E con la licenza media Un sonoro 23,9%. Quasi un giovane su quattro che dice addio ai libri prima del tempo. Insomma, in Italia non si trasmettono solo i geni ma anche i titoli di studio e, guarda caso, i conti in rosso. Un perfetto meccanismo per assicurarsi che la povertà resti una tradizione di famiglia. Chi era povero, povero resta. Con tanti saluti all’ascensore sociale.

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Nave Libra: lo spot pubblicitario più costoso del fascismo moderno

Questa mattina tutti i giornali scrivono di gran cassa dei sedici (16!) migranti deportati in Albania su mezzi italiani dopo essere stati accalappiati in mezzo al mare. Un’operazione che costa un miliardo di euro scippati dalle tasche dei contribuenti mentre il ministro all’Economia Giorgetti rischia l’afonia per il continuo avvisarci che le casse sono vuote e che la situazione è difficilmente raddrizzabile.

Mentre la nave militare Libra scaraventava gli egiziani e bangladesi nei container di Shengjin – un lager di cartapesta come certe facciate finte dei set cinematografici – al porto di Lampedusa sono sbarcate oltre 300 persone. 

In un Paese normale perfino gli xenofobi questa mattina dovrebbero avere il polso dell’enorme presa in giro che stanno subendo dalla loro amata leader. Ora la Giustizia italiana dovrà correre per rispettare il termine di 28 giorni previsto dalle procedure accelerate per sedici persone cannibalizzate dalla propaganda di Stato. 

A dire il vero c’è anche una sentenza della Corte di giustizia europea che potrebbe annullare il meccanismo da un momento all’altro sulla base di una recente sentenza. Comunque di quei sedici chi non riuscirà a ottenere la protezione e farsi mandare in Italia verrà trasferito nel Car Gjader in attesa di un rimpatrio che l’Italia non riesce quasi mai ad ottenere. Nel Bangladesh rientrano solo il 5% di quelli che l’Italia si promette di rimpatriare.

L’operazione è costata almeno quattro volte di più del solito. Quella nave fanfarona che trasborda sedici persone in mezzo al Mediterraneo è lo spot pubblicitario del fascismo. 

Buon martedì. 

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Dal vertice di Dubai a quello di Baku, la Cop29 sul clima resta una farsa

Mentre il mondo si prepara all’ennesima conferenza sul clima, la COP29 in Azerbaigian, viene da chiedersi: a che serve? L’inchiostro della COP28 di Dubai è appena asciugato e già le sue promesse si sgretolano come castelli di sabbia.

L’Agenzia Internazionale per le Energie Rinnovabili (IRENA) ha appena pubblicato un rapporto che suona come una sentenza di condanna per gli impegni presi alla COP28. Quei solenni giuramenti di triplicare la capacità di energia rinnovabile globale e raddoppiare l’efficienza energetica entro il 2030? Poco più che vuote parole, a quanto pare.

Il rapporto che sgretola le promesse: dati impietosi sulle rinnovabili

Il rapporto di IRENA non lascia scampo. I paesi sono sulla buona strada per raggiungere solo la metà della crescita necessaria nelle rinnovabili. Metà. E parliamo di un obiettivo che era già considerato il minimo sindacale per evitare il disastro climatico.

Ma la vera beffa arriva quando si parla di soldi. IRENA stima che per centrare gli obiettivi della COP28 servirebbero investimenti per 31,5 trilioni di dollari entro il 2030. Una cifra astronomica, certo ma non impossibile se ci fosse una vera volontà politica. Il problema è che al momento siamo fermi a investimenti di 570 miliardi di dollari l’anno. Un progresso, dirà qualcuno. Sì, come svuotare l’oceano con un cucchiaino. E così, mentre i leader mondiali si preparano a volare in Azerbaigian (ironia della sorte, un paese che vive di petrolio) per l’ennesima passerella climatica, viene da chiedersi: che senso ha

COP29: l’ennesima passerella o una svolta reale?

La COP29 si preannuncia come l’ennesimo esercizio di retorica verde, dove si parlerà di nuovi obiettivi finanziari per l’azione climatica nei paesi in via di sviluppo. Si discuterà di cifre che vanno dai 100 miliardi attuali fino a ipotetici 1,3 trilioni di dollari all’anno. Numeri che, alla luce del rapporto IRENA, suonano come una barzelletta di cattivo gusto.

Il rapporto IRENA mette in luce una realtà scomoda: l’84% degli investimenti nelle rinnovabili si concentra in Ue, Cina e Stati Uniti. L’Africa, il continente più vulnerabile ai cambiamenti climatici, vede i suoi già miseri investimenti dimezzarsi.

E mentre il solare cresce al ritmo richiesto, altre tecnologie come l’eolico offshore e la geotermia arrancano. Per non parlare dell’efficienza energetica dove secondo il rapporto “sono stati fatti pochi progressi significativi”. Le vendite di pompe di calore, cruciali per ridurre i consumi, sono addirittura in calo in Europa.

I numeri parlano chiaro: per raggiungere l’obiettivo di triplicazione, la capacità di energia rinnovabile installata dovrebbe aumentare da 3,9 terawatt (TW) a 11,2 TW entro la fine del decennio. Ma gli attuali obiettivi nazionali porteranno solo a 7,4 TW entro il 2030. E i piani presentati alle Nazioni Unite nell’ambito dell’Accordo di Parigi? Ancora peggio: solo 5,4 TW.

La spesa per le misure di risparmio energetico deve aumentare di sette volte, da 323 milioni di dollari nel 2023 a 2,2 trilioni di dollari all’anno. Un salto quantico che sembra più fantascienza che realtà. L’eolico onshore deve triplicare la sua crescita, l’eolico offshore e la bioenergia devono aumentare di sei volte. La capacità geotermica Deve crescere 35 volte più velocemente dell’anno scorso.

IRENA sottolinea la necessità di un “importante aumento” del finanziamento pubblico e privato per incrementare la quota di investimenti nei paesi in via di sviluppo. Ma come si fa ad aumentare gli investimenti quando i paesi ricchi faticano già a mantenere gli impegni presi?

La COP29 si trova di fronte a sfide titaniche. Il divario tra gli obiettivi stabiliti e i progressi effettivi è un abisso. E il tempo stringe. I governi sono tenuti a presentare piani aggiornati nel 2025, ma IRENA afferma che questi nuovi piani devono “più che raddoppiare” i loro obiettivi di energia rinnovabile per allinearsi con gli impegni della COP28. Alla luce dei fatti voi vi fidereste?

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“Non siamo un’associazione a delinquere”: De Luca bombarda il Pd

Siamo ancora allo scontro aperto tra Vincenzo De Luca ed Elly Schlein. Il governatore della Campania, noto per la sua verve polemica e la sua capacità di polarizzare l’opinione pubblica, ha lanciato l’ennesima sfida alla segretaria del Partito Democratico. 

Il casus belli questa volta è il commissariamento del Pd campano, una decisione che De Luca considera un affronto personale e un tentativo di minare la sua autorità sul territorio. “In Campania il Partito democratico è commissariato da due anni perché nell’ultimo congresso il 70% non ha appoggiato la mozione di Schlein. Non accade neanche nella Corea del Nord”, tuona il governatore. 

Lo scontro sul commissariamento: “Neanche in Corea del Nord”

Ma De Luca non si ferma qui. Con la sua proverbiale ironia al vetriolo, attacca frontalmente Antonio Misiani, il commissario inviato da Roma: “Misiani avrebbe dovuto dimettersi dopo aver chiesto scusa. Il Pd è un partito, non un’associazione a delinquere”. Parole forti, che gettano benzina sul fuoco di un partito da quelle parti già diviso e in difficoltà.

Il governatore campano, che non ha mai fatto mistero della sua insofferenza verso le logiche di partito, rivendica l’autonomia del Pd regionale: “La vita del Pd della Campania si decide qui, non a Roma“. Un messaggio chiaro alla segreteria nazionale, accusata di voler imporre decisioni dall’alto senza considerare le realtà locali.

De Luca, attacco frontale a Schlein: “Non è cambiato nulla”

Ma l’attacco più duro è riservato proprio a Elly Schlein. De Luca mette in discussione la leadership della segretaria: “Schlein si era proposta come il cambiamento ma in due anni non è cambiato nulla, non si valorizza il merito ma i maggiordomi dei capicorrente”. Il governatore non risparmia critiche nemmeno al gruppo dirigente del Pd nazionale: “Il 90% della segreteria del Pd non rappresenta nulla, né nei propri territori né nella società italiana”.

De Luca, che si considera un “uomo libero, senza correnti e padroni”, vede nel tentativo di impedirgli un terzo mandato alla guida della Regione Campania un’aggressione personale e politica. “La questione del terzo mandato è una grande palla”, afferma, sottolineando come ad altri esponenti del partito sia concesso ciò che a lui viene negato.

Il governatore campano non lesina critiche nemmeno alla gestione complessiva del partito: “Il Pd non è credibile per governare l’Italia. Oggi il Pd ospita tutto quello che è contro natura, contro ragione e contro decenza”. Parole durissime, che dipingono un quadro a tinte fosche del principale partito di opposizione.

De Luca attacca Schlein, ma le riconosce alcuni meriti

Tuttavia, De Luca riconosce alcuni meriti a Schlein, in particolare l’apertura sui temi sociali oltre che sui diritti civili. Ma subito dopo aggiunge: “Per governare un paese come l’Italia serve un programma e una coalizione credibili in grado di parlare alla maggioranza delle famiglie italiane”. Un monito che suona come una sfida aperta alla leadership attuale.

Lo scontro tra De Luca e Schlein sembra destinato a protrarsi, in un braccio di ferro che vede da un lato la volontà di centralizzazione del partito, dall’altro la rivendicazione di autonomia dei territori. Un conflitto che rischia di logorare ulteriormente un Pd già in difficoltà, alla ricerca di una identità chiara e di una strategia efficace per contrastare il governo di centrodestra.

Il futuro del Pd in Campania, e più in generale il rapporto tra centro e periferia all’interno del partito, dipenderà in larga misura dall’esito di questo scontro. Una cosa è certa: con Vincenzo De Luca in campo il dibattito politico non mancherà di colpi di scena e di momenti di alta tensione. Dietro alle quinte Giorgia Meloni sorride. 

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Sulla Libia l’ipocrisia dell’Ue non cambia: a Sabrata la nuova scuola per guardie di frontiera

L’Europa inaugura un nuovo capitolo nella sua saga di complicità con la Libia, questa volta sotto forma di un centro di formazione per guardie di frontiera a Sabrata. Un gioiellino da esibire come trofeo della “cooperazione” italo-libica, frutto avvelenato del programma europeo Sibmmil. Il progetto fa parte del programma europeo “Sibmmil” (Support for Integrated Border and Migration Management in Libya), ed è stato annunciato dall’ambasciatore dell’Ue in Libia, Nicola Orlando.

Solo che mentre l’ambasciatore cinguetta festoso su X della partnership con la Libia “nel rispetto dei diritti umani”, la realtà sul terreno racconta una storia ben diversa. Il progetto Sibmmil, con i suoi 60 milioni di euro stanziati dal 2017, non è altro che l’ennesimo tentativo di esternalizzare le frontiere europee, scaricando sulla Libia il contenimento dei flussi migratori.

Libia, la cooperazione paravento dei diritti umani

Ma chi sono questi “eccezionali ufficiali libici” che, secondo Orlando, “potranno salvare vite”? Sono gli stessi che la missione europea Irini, nel gennaio 2022, ha accusato di “uso eccessivo della forza”.  O forse sono quelli che, stando alle parole di un portavoce della Commissione europea nel marzo 2023, hanno “sostanzialmente ignorato gli addestramenti finora impartiti”. 

Il centro di Sabrata si erge come monumento all’ipocrisia di un’Europa che predica diritti umani ma pratica respingimenti per procura. L’Italia, capofila di questa strategia dal Memorandum del 2017, continua imperterrita sulla strada tracciata da Minniti, incurante delle denunce delle Ong e delle sentenze della Cassazione che definiscono la Libia un paese non sicuro.

I numeri cantano: 30.147 migranti arrivati in Italia dalla Libia nei primi nove mesi del 2024. Un calo del 17,81% rispetto al 2023 che il governo italiano sbandiera come un successo. Ma a quale prezzo? Quanti sono stati intercettati e riportati nell’inferno libico? Quanti hanno subito torture nei famigerati centri di detenzione che l’Europa finge di non vedere?

L’OIM conta 761.322 migranti in Libia tra giugno e luglio 2024, con un aumento del 5% dovuto principalmente all’arrivo di sudanesi in fuga dalla guerra. Ma invece di affrontare le cause profonde delle migrazioni, l’Italia preferisce addestrare guardie di frontiera in un paese frammentato, dove l’autorità del governo di Tripoli è più nominale che effettiva.

Il prezzo del ‘successo’ sull’altare delle statistiche

Il progetto dell’MRCC di Tripoli, il centro di coordinamento per il soccorso marittimo, è l’ennesima chimera inseguita dal 2017. Promesso, rimandato, mai realizzato. Eppure si continua a investire in questa farsa, ignorando le testimonianze delle Ong che denunciano l’aggressività e la scorrettezza della Guardia costiera libica nelle operazioni di “salvataggio”.

Mentre ci si vanta di formare le guardie libiche sui diritti umani si chiudono gli occhi sulle difficoltà di accesso ai servizi essenziali per i migranti, soprattutto in regioni remote come Al Kufra. Si parla di lotta ai trafficanti ma si alimenta semplicemente un sistema che li rende sempre più ingegnosi, come dimostra il recente caso del convoglio camuffato da corteo nuziale.

L’inaugurazione del centro di Sabrata non è un passo avanti, è l’ennesimo chiodo nella bara dei diritti umani nel Mediterraneo. È la prova tangibile di come non investire in una seria politica migratoria. 

Mentre si tagliano nastri e si fanno foto di rito – anche se molto sottovoce rispetto a qualche tempo fa –  migliaia di persone continuano a rischiare la vita in mare o a subire violenze indicibili in territorio libico. Ma finché i numeri degli sbarchi calano, tutto va bene. L’importante è che il problema resti al di là del mare, fuori dalla vista e dalla coscienza dell’Europa. Questa è la vera natura del “pilastro della partnership con l’Ue”: un monumento all’indifferenza, costruito sulle fondamenta della sofferenza umana.

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Dietro la passerella niente, al G7 della disabilità

Il G7 sulla disabilità si apre ad Assisi ma dietro la facciata festosa si cela una realtà ben più cupa. Banda, stand e annulli filatelici non serviranno a mascherare l’inadeguatezza delle politiche governative.

Partiamo dai numeri: il tanto sbandierato “Fondo unico per l’inclusione” ammonta a 552 milioni per il 2024, destinati a ridursi a 231 nel 2025. Una miseria, se si considera che questo fondo accorpa risorse precedentemente separate che superavano tale cifra.

La realtà sul campo è impietosa. Quasi 800mila disabili attendono ancora un’occupazione, iscritti a un collocamento mirato che di “mirato” ha ben poco. Le barriere architettoniche persistono, nonostante leggi mai veramente applicate. I servizi territoriali? Un miraggio in molte parti del Paese.

Il recente decreto legislativo promette una rivoluzione nei criteri di accertamento dell’invalidità. Peccato che manchi qualsiasi dettaglio su come gestire i casi non permanenti. Si parla di “progetti di vita personalizzati”, ignorando la cronica mancanza di servizi sul territorio. 

Ma il colmo è l’esclusione dell’Osservatorio sulla disabilità da questo G7. Un organismo istituito proprio per consultazione e proposta, tenuto all’oscuro dei contenuti in discussione. Quindi a chi serve il G7?

Migliaia di disabili e caregiver lottano quotidianamente contro un sistema che li abbandona. La disabilità resta uno dei principali fattori di povertà ma a Palazzo Chigi sembrano più interessati ai francobolli che a politiche concrete.

La propaganda non abbatte le barriere, non crea posti di lavoro, non garantisce assistenza. E i numeri, impietosi, sono lì a dimostrarlo.

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Meloni e il bancario: anatomia di un complotto immaginario

C’era questo bancario di Bitonto che al mattino navigava su internet, dava una scorsa alle notizie di politica, di sport e di costume e poi ficcava il naso nei conti correnti dei personaggi à la page per farsi i fatti loro e presumibilmente cullarsene con gli amici al bar. 

Il bancario ficcanaso ha compiuto migliaia di accessi illegali, mostrando un’eterogeneità invidiabile tra i vari sport, tra le varie fazioni politiche, tra le diverse squadre. Evidentemente all’impiegato infedele interessava soprattutto essere sulla cresta della notizia, poter essere uno di quelli che ne sa sempre un po’ di più della gente normale. 

La pratica è censurabile e fastidiosa, soprattutto perché nella geografia dei nostri conti correnti vi sono le traiettorie dei nostri comportamenti. E infatti il ficcanaso è stato licenziato e passerà guai grossi nei mesi a venire. 

Tra gli spiati c’è ovviamente anche Giorgia Meloni, insieme a una folta schiera di politici, in virtù delle posizioni apicali raggiunte. Per il capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera Tommaso Foti dietro quell’impiegato «ci sono manine nazionali, e magari anche qualcuna internazionale». Anzi Foti invita a guardare «dove tira il vento di sinistra». «Mi sembra anomalo – dice – che in Italia la sinistra taccia, e che questo scandalo non abbia riverbero in alcun contesto esterno». 

In sostanza una presunta internazionale di sinistra avrebbe mosso un impiegato di Bitonto a spiare migliaia di calciatori e vip per attaccare il governo Meloni. E questo è tutto quello che c’è da dire sulla sindrome del complotto e sulla perdita del senso delle proporzioni. 

Buon lunedì. 

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