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Pochi Rave e meno Party. Altro flop delle destre

Ve la ricordate la legge contro i rave party? Fu il primo discusso provvedimento del governo Meloni appena insediato, con la presidente del Consiglio e il suo vice Matteo Salvini – all’epoca alleato più mansueto – che bramavano l’essere indicati fin da subito come uomini forti al comando. Proprio in quei giorni si discuteva di un rave party dalle parti di Modena, presentato come la più grave minaccia per la democrazia italiana.

Ve la ricordate la legge contro i rave party? Fu il primo discusso provvedimento del governo Meloni appena insediato

Meloni e Salvini si intestarono un decreto uscito dal Consiglio dei ministri che conteneva nuove norme per evitare l’organizzazione di eventi simili. Che la guerra ai rave party fosse la prima ossessiva urgenza del governo lo dimostra anche lo strumento usato, il decreto legge che secondo l’articolo 77 della Costituzione andrebbe adottato solo in casi di necessità e urgenza. Il decreto straordinariamente necessario e urgente oggi dimostra tutto il suo nanismo politico di fronte alle impellenze contemporanee con la terza guerra mondiale a pezzi alle porte dell’Europa.

È il primo di una lunga serie di provvedimenti che inseguono il sensazionalismo del momento senza avvicinarsi lontanamente alla dignità e alla durabilità delle riforme che sarebbero richieste a un governo credibile. Ma c’è di più. Quella norma – lo scrive il ministro della Giustizia Carlo Nordio – ha prodotto finora solo 8 persone imputate e nessuna condanna. Il sedicente pugno duro non era altro che una manata contro il vento, utile alla politica percepita che alimenta il giornalismo d’allarme. Per questo andrebbe ricordata molto bene la legge contro i rave party: per osservare il pugno vuoto due anni dopo. È il lascito politico di questo governo.

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L’orbanizzazione dell’Italia continua: ora tocca all’aborto

A settembre del 2022 la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ripeteva che non avrebbe mai toccato il diritto di abortire e la legge 194. Ovviamente non era vero. Tanto’è che la sua passione per gli antiabortisti è finita in piena pagina sul britannico The Guardian in cui si sottolinea come “il parlamento ha approvato una misura del governo di estrema destra (sì, all’estero chiamano questo governo con il suo nome nda) di Giorgia Meloni che ha permesso agli attivisti anti-aborto di entrare nelle cliniche di consultazione sull’aborto”. Non sfugge al prestigioso tabloid che il tutto sia finanziato “dal fondo di ripresa post-pandemia dell’UE, di cui l’Italia è la più grande beneficiaria”. 

Evidentemente all’estero desta il giusto scalpore che in Italia lo svuotamento della legge 194 del 1978 non abbia avuto nemmeno bisogno di riforme. “La mossa – scrive il Guardian – segue le misure già adottate da diverse regioni guidate dalla destra nel finanziamento di gruppi di pressione per infiltrarsi nelle cliniche di consultazione, che forniscono alle donne un certificato che conferma il loro desiderio di porre fine a una gravidanza. Alcune regioni, come le Marche, guidate dai Fratelli d’Italia di Meloni, hanno anche limitato l’accesso alla pillola abortiva”. 

Giorgia Meloni finisce sul The Guardian per la sua guerra al diritto all’aborto. Critiche anche dal governo spagnolo

Normale anche che faccia rumore la dichiarazione del ministro agli Esteri nonché presidente di Forza Italia, Antonio Tajani, secondo cui “non dobbiamo criminalizzare coloro che sono contrari all’aborto” perché crede “che ognuno si comporti secondo le proprie convinzioni e coscienza”. La legge 194 è di difficile applicazione poiché “secondo i dati del ministero della salute del 2021, circa il 63”, scrive il Guardian. È lo stesso dato che da anni urlano le attiviste e gli attivisti per l’aborto, inascoltati. 

Critiche al governo italiano arrivano anche dalla Spagna. “Consentire le molestie organizzate contro le donne che vogliono interrompere la gravidanza significa minare un diritto riconosciuto dalla legge. È la strategia dell’ultradestra: intimidire per annullare i diritti, per fermare l’uguaglianza tra donne e uomini”. Lo ha affermato la ministra della Parità spagnola Ana Redondo su X, condividendo un articolo del diario.es sull’emendamento della maggioranza italiana che apre alla presenza dei movimenti pro-vita nei consultori. “Nel contesto europeo si è appena fatto un passo importante nel riconoscimento dell’autodeterminazione delle donne, con la richiesta del parlamento di inserire la libertà di scelta di interruzione della gravidanza nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione. È naturale che ci sia una preoccupazione rispetto a quanto sta avvenendo in Italia”, aggiunge Luana Zanella, capogruppo di Alleanza Verdi e Sinistra alla Camera. 

Bocciati in Aula tutti gli emendamenti dell’opposizione che proponevano di rilanciare il ruolo dei consultori

Oggi la Camera ha bocciato gli ordini del giorno presentati dalle forze di opposizione che proponevano di rilanciare il ruolo dei consultori. Per la senatrice del Pd Valeria Valente “il comportamento della maggioranza rappresenta una dimostrazione che purtroppo non basta una donna a mettere in campo le politiche delle donne. La 194, vale la pena ricordarlo – aggiunge Valente – non solo è una legge di grande civiltà, ma soprattutto è una legge che ha tutelato in questi anni la salute e la sicurezza delle donne, ha abbattuto il numero di aborti clandestini, ha consentito alle donne semplicemente scelte di libertà”. Il M5s rilancia con un progetto di legge “per inserire l’aborto in Costituzione”, spiega la prima firmataria Gilda Sportiello. “Non toccherò la 194”, diceva Meloni. Promessa non mantenuta. 

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In Ue e in Italia scoppia per l’ennesima volta la passione per Draghi

Il giorno dopo, come previsto, risuonano forti le trombe dei fan di Mario Draghi. L’ex presidente della Bce ha scelto la maschera preferita per partecipare da non partecipante alle prossime elezioni europee: quella del convitato di pietra. Nelle ultime ore lascia trapelare di non voler pensare a un ritorno attivo in politica e di non sentirsi coinvolto in questioni elettorali. Anche questo draghiamo l’abbiamo già visto. Il fattore Draghi per funzionare deve essere il risultato di un’invocazione, al limite del salvataggio. E l’invocazione piano piano si sta costruendo.

Il grande regista dell’operazione è Emmanuel Macron che da tempo lavora al piano Draghi. Il rapporto tra l’attuale presidente della Commissione Ue von der Leyen e il presidente francese è in netto deterioramento. Draghi assicurerebbe un gran spolvero a Macron e ai liberali di Renew. C’è però un particolare non trascurabile: i liberal di Renew prevedibilmente non incasseranno gradi risultati dalle urne alle prossime elezioni e Draghi quindi deve apparire come candidato molto più largo. Ecco perché Macron briga e dice privatamente senza esporsi in pubblico. Il piano di Macron prevede il coinvolgimento della Francia, della Spagna, della Germania e dell’Italia con la Polonia come nuova invitata al tavolo degli autodichiarati competenti, la nouvelle vague degli ultimi anni che potrebbe funzionare ancora. 

Macron lavora dietro le quinti per portare Draghi a capo della Commissione. I liberal italiani (ovviamente) esultano

In Italia scoppia di felicità Carlo Calenda di Azione. “L’Italia ha una sua auctoritas, come ha dimostrato Mario Draghi. Noi ci ispiriamo al lavoro di Mario Draghi. Ci piacerebbe anzi riteniamo indispensabile un ruolo di Mario Draghi come presidente del Consiglio o della Commissione europea, noi faremo il possibile perché questo accada”, dice durante un incontro con i giornalisti. I renziani fanno uscire un comunicato (con il solito trucco di affidarlo a “fonti”) per fare sapere che il loro capo Renzi “punta su Draghi in Ue”. Anche questo è un déjà vu: il senatore fiorentino è campione del mondo nell’intestarsi processi che stanno già accadendo anche senza di lui. Così come l’utilizzo di Draghi come clava contro M5s e Lega che agita l’eurodeputato di Italia Viva Nicola Danti secondo “un eventuale ritorno di Draghi in Europa “ridurrebbe ed anche di molto le loro castronerie”. 

Dal Pd Arturo Scotto si augura che l’ex presidente del Consiglio abbia “una funzione in Ue” e che “abbia una funzione nell’Ue e che le scelte fatte non siano soltanto sulla base del risultato elettorale ma anche rispetto al valore degli Stati”. Parole come carezze arrivano anche dal commissario dem Gentiloni e dal sindaco di Roma Gualtieri. Tace la segretaria Schlein, consapevole che l’elettorato che l’ha portata al Nazareno non gradirebbe. Giuseppe Conte plaude il “cambio di rotta” auspicato da Draghi puntualizzando di “essere stato il primo a dirlo da presidente del Consiglio”. Il messaggio è chiaro: per il M5s non è Draghi quello che serve. Dal partito della presidente del Consiglio Giorgia Meloni parla invece il capogruppo alla Camera Tommaso Foti ricordando che “chi entra Papa esce cardinale”. Il ministro meloniano Urso invece la spara grossa: “le parole di Draghi sono quelle di Meloni”, dice. 

A rovinare i piani ci sono le indiscrezioni del libro di Salvini: ama il potere molto più di quello che sembra

Nell’ennesimo giorno di beatificazione dell’ex presidente della Bce irrompe invece Salvini con alcune anticipazioni del suo nuovo libro. Il leader della Lega e ministro dei Trasporti scrive che Draghi formò il suo governo senza consultare i capi di partito ma soprattutto che Draghi chiese una mano per tentare di salire al Colle prima della rielezione di Mattarella. E questo per il draghismo è il colpo più duro perché se il “tecnico sopra ai partiti” si mostra bramoso di scalare i partiti si sgretola l’allure. 

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Dilaga un’altra guerra a Gaza. Al New York Times va in stampa il negazionismo

Il sito d’inchiesta The intercept ha scovato una comunicazione all’interno della redazione del New York Times rivolta ai giornalisti che si occupano della guerra tra Israele e Hamas in cui si invita a non usare i termini “genocidio” e “pulizia etnica” e ad “evitare” di usare la frase “territorio occupato” quando si descrive la terra palestinese. Il memorandum istruisce anche i giornalisti a non usare la parola Palestina “tranne in casi molto rari” e ad evitare il termine “campi profughi” per descrivere le aree di Gaza storicamente colonizzate da palestinesi sfollati espulsi da altre parti della Palestina durante le precedenti guerre israelo-arabe.

I giornalisti del New York Times che si occupano della guerra a Gaza sono stati invitati a non usare i termini “genocidio” e “pulizia etnica”

Le aree sono riconosciute dalle Nazioni Unite come campi profughi e ospitano centinaia di migliaia di rifugiati registrati. Fingere un dibattito democratico anestetizzando il linguaggio non è una novità in tempi di guerra. Siamo cresciuti per anni con i missili intelligenti, come se si potesse intelligentemente lanciare missili e abbiamo avuto modo di assaporare l’esportazione di democrazia come vestito buono della guerra.

Tornando al NY Times forse vale la pena ricordare che i termini “genocidio” e “pulizia etnica” sono piena responsabilità di coloro che da anni (mica da ora) li pronunciano argomentando la propria scelta. Si può essere d’accordo o meno. Se ne dibatte, appunto, non si cancella. Ma l’enorme malafede sta nel vietare il termine “territorio occupato” che riflette esattamente lo status giuridico di Gaza e della Cisgiordania nel diritto internazionale. Il NY Times decide di stare dalla parte degli estremisti e dei negazionisti. L’importante è che questo sia chiaro.

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Eccola la nuova Libia, la Tunisia

In un comunicato congiunto 36 organizzazioni della società civile, tra cui il Forum Tunisien pour les Droits Economiques et Sociaux (FTDES), Avocats Sans Frontières (ASF) e Migreurop, a un anno dal discorso razzista del presidente Kaïs Saïd, denunciano la sistematizzazione della violenza commessa dalle autorità tunisine contro le persone africane.

Si legge che le politiche dei governi che si sono succeduti in Tunisia hanno continuato a piegarsi ai dettami dell’Unione Europea per esternalizzare le frontiere, delegando tutta la gestione della sicurezza e la sorveglianza dei confini ai Paesi del Mediterraneo meridionale. Questa esternalizzazione è accompagnata da una condizionalità in base alla quale aiuti finanziari, sussidi e prestiti vengono erogati ai Paesi del Sud se accettano di svolgere il ruolo di guardie di frontiera. Queste misure sono state ratificate nell’ambito di accordi con alcuni Paesi del vicinato meridionale dell’Unione europea, violando ancora una volta la base fondamentale di qualsiasi partenariato, che può essere fondato solo su un rapporto equilibrato e di rispetto reciproco tra i Paesi del Nord e del Sud.

Oltre a intercettare le persone migranti nelle acque territoriali nazionali, la Guardia nazionale marittima tunisina cerca di perseguirli all’interno del Paese, in particolare spostandoli arbitrariamente, senza tenere conto della loro situazione umanitaria o degli accordi internazionali firmati e ratificati dalla Tunisia. Ciò è avvenuto in diverse regioni del Paese, dove le forze di sicurezza hanno scelto di spingere i migranti verso alcune aree periurbane, in particolare El Aamra, El Jédériya e Kasserine, dove la situazione è sempre più preoccupante e allarmante.

Eccola la nuova Libia, la Tunisia. 

Buon mercoledì. 

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Gimbe, l’aumento della spesa sanitaria è “un’illusione ottica”

L’aumento della spesa sanitaria Un’illusione ottica. La Fondazione Gimbe analizza il Documento di Economia e Finanza (DEF) 2024 in forma semplificata e smentisce le parole di Giorgia Meloni.

“Rispetto alle previsioni di spesa sanitaria sino al 2027 – afferma il presidente Nino Cartabellotta – il DEF 2024 certifica l’assenza di un cambio di rotta e ignora il pessimo “stato di salute” del Servizio Sanitario Nazionale (SSN), i cui princìpi fondamentali di universalità, uguaglianza ed equità sono stati traditi, con conseguenze che condizionano la vita delle persone, in particolare delle fasce socio-economiche più deboli e delle persone residenti nel Mezzogiorno. Dai lunghissimi tempi di attesa all’affollamento inaccettabile dei pronto soccorso; dalle diseguaglianze regionali e locali nell’offerta di prestazioni sanitarie alla migrazione sanitaria dal Sud al Nord; dall’aumento della spesa privata all’impoverimento delle famiglie sino alla rinuncia alle cure”. 

Secondo Gimbe il DEF 2024 certifica per l’anno 2023 un rapporto spesa sanitaria/PIL del 6,3% e, in termini assoluti, una spesa sanitaria di € 131.103 milioni, oltre € 3.600 milioni in meno rispetto a quanto previsto dalla NaDEF 2023 (€ 134.734 milioni). Per Cartabellotta la riduzione di spesa consegue in larga misura al mancato perfezionamento del rinnovo dei contratti del personale dirigente e convenzionato per il triennio 2019-2021, i cui oneri non sono stati imputati nel 2023 e spostati al 2024. In misura minore hanno inciso le spese per contrastare la pandemia, che sono state inferiori al previsto. 

Per il presidente Gimbe Cartabellotta “il Def 2024 certifica l’assenza di un cambio di rotta e ignora il pessimo stato di salute del Servizio Sanitario Nazionale”

Rispetto al 2022 la spesa sanitaria nel 2023 si è ridotta dal 6,7% al 6,3% del PIL e di € 555 milioni in termini assoluti. “Questo primo dato – commenta Cartabellotta – certifica che il 2023 è stato segnato da un netto definanziamento in termini di rapporto spesa sanitaria/PIL (-0,4%), facendo addirittura segnare un valore negativo della spesa sanitaria, il cui potere d’acquisto è stato anche ridotto da un’inflazione che nel 2023 ha raggiunto il 5,7% su base annua”. Ma quindi l’incremento di oltre 7,6 miliardi di euro per il 2024 sventolato dal governo? Per Cartabellotta è una dato “illusorio”. “In parte è dovuto – spiega – al un mero spostamento al 2024 della spesa prevista nel 2023 per i rinnovi contrattuali 2019-2021, in parte agli oneri correlati al personale sanitario dipendente per il triennio 2022-2024 e, addirittura, all’anticipo del rinnovo per il triennio 2025-2027. Una previsione poco comprensibile, visto che la Legge di Bilancio 2024 non ha affatto stanziato le risorse per questi due capitoli di spesa”.

Senza considerare, peraltro, l’erosione del potere di acquisto, visto che secondo l’ISTAT ad oggi l’inflazione si attesta su base annua a +1,3%. Nel triennio 2025-2027, a fronte di una crescita media annua del PIL nominale del 3,1%, il DEF 2024 stima al 2% la crescita media annua della spesa sanitaria. Il rapporto spesa sanitaria/PIL si riduce dal 6,4% del 2024 al 6,3% nel 2025-2026, al 6,2% nel 2027.

Sul rapporto spesa sanitaria/Pil l’Italia è ultima tra i Paesi del G7

“Il DEF 2024 – chiosa il Presidente – conferma che, in linea con quanto accaduto negli ultimi 15 anni, la sanità pubblica non rappresenta affatto una priorità neppure per l’attuale Governo. In tal senso, la comunicazione pubblica dell’Esecutivo continua a puntare esclusivamente sulla spesa sanitaria in termini assoluti che dal 2012 è (quasi) sempre aumentata rispetto all’anno precedente, e non sul rapporto spesa sanitaria/PIL che documenta al contrario un lento e inesorabile declino, collocando l’Italia prima tra i paesi poveri dell’Europa e ultima del G7 di cui proprio nel 2024 il nostro Paese ha la presidenza”. Con buona pace dei proclami di Giorgia Meloni. 

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Condoni e sanatorie, il Governo Meloni ha varato 18 provvedimenti per aiutare i furbetti

Una Repubblica fondata su condoni e sanatorie. La Cgil mette in fila i 18 provvedimenti emanati dal governo Meloni che, in nome della ‘pace fiscale’, favoriscono chi non paga quanto dovuto allo stato o alle amministrazioni locali con palese ingiustizia nei confronti di chi paga regolarmente e di vantaggi non ne riceve. 

L’economista Cristian Perniciano ha cercato sanatorie e condoni durante il governo Meloni: sono 18

Cristian Perniciano, economista che per la Cgil nazionale si occupa di politiche fiscali, sottolinea al gran parte dei provvedimenti nella prima legge di Bilancio del 2022 che contiene 12 tra condoni e sanatorie. Un messaggio politico chiaro da parte del governo Meloni appena insediato: la lotta all’evasione fiscale è una delle ultime priorità dell’esecutivo e della maggioranza. Le promesse in campagna elettorale in questo caso sono state mantenute. In quella legge di Bilancio viene approvata la “rottamazione quater” delle cartelle esattoriali emesse tra il 1° gennaio 2000 ed il 30 giugno 2022, in modo che il debitore beneficiasse dell’abbattimento di sanzioni e interessi, interessi di mora, sanzioni civili e somme aggiuntive e anche l’aggio in favore dell’agente della riscossione.

Poi c‘è la rottamazione delle multe stradali, l’annullamento automatico dei debiti fino a 1000 euro con l’Agenzia delle entrate dal 2000 al 2010. Poi una sanatoria per i guadagni in criptovalute, oltre a un ribasso della tassazione. Poi ci sono le agevolazioni per gli avvisi bonari, con sanzioni ridotte al 3% invece del 10%, una sanatoria delle irregolarità formali, cancellate con un pagamento di 200 euro per ciascun periodo d’imposta e la riduzione delle sanzioni sugli atti di accertamento. Non è tutto.

Dalla manovra sono arrivati anche lo sconto per la conciliazione agevolata delle controversie tributarie, con una sostanziale riduzione delle sanzioni e una dilazione dei pagamenti sino a 5 anni, poi la definizione agevolata delle liti pendenti, per chiudere le controversie con il fisco con sconti e dilazioni sino a 54 rate e infine “il salva calcio”, vale a dire la possibilità per società e associazioni sportive di rateizzare in 5 anni il pagamento dei versamenti sospesi per l’emergenza Covid.

Meloni aveva parlato delle tasse come “pizzo di Stato”. Poi si era scusata ma i fatti dicono che la pensa proprio così

È di questo governo anche la rinuncia agevolata dei giudizi in cassazione, con la riduzione delle sanzioni a un diciottesimo del minimo previsto dalla legge oltre allo scudo penale per alcuni reati tributari, introdotto nella legge che stabiliva misure urgenti a sostegno delle famiglie e delle imprese per l’acquisto di energia elettrica e gas naturale, nonché in materia di salute e adempimenti fiscali. Lo scudo penale dei reati tributari hanno dovuto infilarlo in una legge che stabiliva misure urgenti a sostegno delle famiglie e delle imprese per l’acquisto di energia elettrica e gas naturale, nonché in materia di salute e adempimenti fiscali. Troppo complicato metterlo nella legge di Bilancio. Ancora: la riduzione delle multe per chi non emette scontrini e fatture. La delega fiscale ha seguito la stessa linea don due provvedimenti: la rateazione “ordinaria” degli importi dovuti sino a 10 anni e la cancellazione automatica  dopo 5 anni delle somme inesigibili. 

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni aveva parlato delle tasse come un “pizzo di Stato” durante un suo comizio a Catania il 27 maggio dell’anno scorso. Sommersa dalle critiche aveva poi parlato di “evasione come terrorismo”. Aveva capito perfettamente che le cose bastava farle senza bisogno di dirle e quei 18 provvedimenti puntellati durante il suo governo sono molto di più dei due indizi che fanno una prova. 

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Medio Oriente, Israele promette vendetta e Teheran risponde

Israele risponderà all’Iran. L’attacco potrebbe essere “imminente. Nonostante le pressioni dell’Onu e dell’occidente il governo di Benyamin Netanyahu ha deciso. Yoav Gallant, il ministro della Difesa israeliana, l’ha comunicato a Lloyd Austin, il capo del Pentagono americano: “Non abbiamo altra scelta che contrattaccare”, gli avrebbe detto secondo la rivista Axios. Stesso concetto ribadito da Herzi Halevi, il capo di stato maggiore, parlando ai piloti nella base di Nevatim, deserto del Negev, che è stata colpita da un missile lanciato dai Pasdaran: “L’Iran voleva bersagliare le nostre capacità strategiche, la rappresaglia è inevitabile”.

Il ministro della Difesa israeliana Yoav Gallant: “non abbiamo altra scelta che contrattaccare”

Teheran  ha messo in stato di massima allerta le sue difese aeree e ha ammonito che l’eventuale azione armata di Israele stavolta “avrà una risposta molto dura”. Il ministro degli Esteri iraniano Hossein Amirabdollahian – lo scrive Mehr – avrebbe detto che l’inefficacia del Consiglio di Sicurezza dell’Onu nel fermare le azioni israeliane non ha lasciato altra scelta all’Iran se non quella di ricorrere a un’operazione difensiva e punire Israele. Parlando con il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres durante una conversazione telefonica lunedì sera, Amirabdollahian ha aggiunto che l’Iran eavrbbe potuto attaccare Israele in modo molto più ampio ma ha preso di mira solo alcune postazioni militari israeliane, da dove hanno attaccato il consolato iraniano a Damasco.

L’Iran: pronti a usare “un’arma che non abbiamo mai usato”

l direttore generale dell’Aiea, l’agenzia internazionale per l’energia atomica, Rafael Grossi ha detto, parlando ai giornalisti a margine di un’audizione all’Onu, che l’Iran ha chiuso i suoi impianti nucleari domenica per “motivi di sicurezza”, li ha riaperti lunedì ma l’Aiea ha tenuto lontani i suoi ispettori dell’Aiea anche oggi “riprenderemo domani”. Lo scrive Haaretz. Interrogato sulla possibilità di un attacco israeliano agli impianti nucleari iraniani, Grossi ha detto: “Siamo sempre preoccupati per questa possibilità”. E ha esortato a “estrema moderazione”. Il Comitato per la Sicurezza Nazionale del Parlamento iraniano, Abolfazl Amouei, ha dichiarato che se Israele dovesse rispondere all’attacco di droni e missili dell’Iran, Teheran è “pronto a usare un’arma che non abbiamo mai usato“. Lo ha scritto l’Iran International. Nella stessa dichiarazione, Amouei ha affermato che Israele dovrebbe considerare i suoi prossimi passi e “agire con saggezza”.

Quattro funzionari statunitensi hanno detto all’emittente statunitense Nbc News che un’eventuale risposta israeliana all’attacco iraniano sarà di portata limitata e riguarderà probabilmente attacchi contro le forze militari iraniane e i proxy sostenuti da Teheran al di fuori dell’Iran. Le opzioni potrebbero includere un attacco in Siria, hanno precisato tre funzionari americani che non si aspettano che la risposta colpisca gli alti funzionari iraniani, ma piuttosto le spedizioni o gli impianti di stoccaggio con armi o componenti missilistici avanzati inviati dall’Iran a Hezbollah.

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Il ministro che chiamava le macchine

Venerdì scorso sono scese in piazza 12mila persone appartenenti a tutte le sigle sindacali per contestare l’accordo di Stellantis (già Fiat) con cui altre 3mila e 600 lavoratori dovranno “volontariamente” uscire dagli stabilimenti italiani di un’azienda che di italiano ha davvero poco. A Torino con gli operai c’erano anche gli studenti. Altri 1.500 lavoratori dovranno lasciare la fabbrica con l’accordo sulle uscite incentivate. Come se non bastasse, due giorni fa, l’ad Carlos Tavares è tornato a minacciare altri “feriti e vittime” se il governo lascerà entrare un concorrente cinese. 

Ci si aspetterebbe che il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso imponesse il ruolo del governo, aprisse il tavolo delle trattative, mettesse in campo tutti gli strumenti a disposizione per salvare i posti di lavoro. 

Che ha fatto il ministro? Si è infilato in una polemica sul nome di un tipo di auto, quasi fosse stato in un forum di appassionati, irritato dal fatto che Alfa Romeo avesse deciso di chiamare Milano un suo modello prodotto in Polonia. Qualcuno avrebbe bonariamente potuto pensare che fosse il primo passo di una complessa strategia. Niente di tutto questo. Quelli all’Alfa Romeo hanno risposto che “Il nome Milano, tra i favoriti dal pubblico, era stato scelto per rendere tributo alla città dove tutto ebbe origine nel 1910” e sottolineando come ci siano “temi di stretta attualità più rilevanti del nome di una nuova autovettura” hanno decisa di chiamarla Junior. Ci si poteva aspettare quindi una mossa successiva da parte del ministro ma niente. Urso ha espresso “grande soddisfazione”. Immaginiamo come siano soddisfatti anche gli operai. 

Buon martedì. 

Nella foto: manifestazione a Torino, 12 aprile 2024 (foto Marioluca Bariona)

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La Giustizia nell’era di Giorgia. Forte soltanto con i deboli

Ospite del Festival internazionale dell’Antimafia “L’Impegno di tutti” organizzato dall’associazione Wikimafia a Milano Nino Di Matteo ha messo in fila le riforme Cartabia e Nordio osservando una curiosa coincidenza con i desiderata di Licio Gelli e poi Silvio Berlusconi. Il magistrato, già componente del Consiglio superiore, ha passato in rassegna rapidamente le norme recentemente approvate dai governi di Mario Draghi e Giorgia Meloni e quelle attualmente in discussione in Parlamento.

Una giustizia feroce con la povera gente e le persone comuni che si professa garantista per lasciare impunite le persone vicine al potere

“Riforme costituzionali, separazione delle carriere, attenuazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale, limitazione dell’utilizzo d’intercettazioni telefoniche e ambientali, abrogazione dell’abuso d’ufficio, modifica del reato di traffico d’influenze. E poi: divieto per i magistrati di parlare con la stampa. E non mi riferisco – ha detto Di Matteo – ovviamente agli atti coperti da segreto – ma a quelli ormai pubblici. Come se Falcone e Borsellino, di cui tutti si riempiono la bocca, non avessero parlato della configurazione di Cosa nostra che veniva fuori dalle dichiarazioni di Tommaso Buscetta, prima della sentenza sul Maxiprocesso”.

“E aggiungo – ha proseguito Di Matteo – il divieto di pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare, divieto di pubblicazione delle intercettazioni se riguardano terzi, e adesso i test psicoattitudinali dei magistrati, che facevano già parte del Piano di rinascita democratica di Gelli“. Una giustizia feroce con la povera gente e le persone comuni che si professa garantista per lasciare impunite le persone vicine al potere. Nemmeno Licio Gelli e Silvio Berlusconi avrebbero potuto sperare tanto.

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