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Italiano ma di pelle nera sui barchini dei trafficanti

Repubblica ieri ha raccontato la storia di Michel Ivo Ceresoli, italianissimo con la sfortuna di avere la pelle nera in un’Europa che sancisce il diritto di movimento in modo inversamente proporzionale alla sicurezza della pigmentazione. Come racconta Alessandra Ziniti in Guinea Michel Ivo è sempre vissuto, anche quando il padre se n’è tornato in Italia dimenticandosi della sua famiglia, ma quando il ragazzo ha deciso di venire in Italia ha dovuto scontrarsi con il muro di gomma della burocrazia e con il filo spinato contro gli immigrati.

La storia di Michel Ivo Ceresoli italianissimo ma con la sfortuna di avere la pelle nera in un’Europa

E lui, da italiano, è stato costretto a seguire la stessa strada dei migranti: i trafficanti, il viaggio nel deserto, dal Mali fino alla Tunisia e poi su un barchino fino a Lampedusa. E lì, finalmente in Italia, quando pensava che sarebbe bastato dichiarare la sua identità per essere finalmente libero, la nuova doccia fredda: 8 mesi nel centro di accoglienza di Crotone prima di riuscire finalmente a dimostrare di essere un cittadino italiano e ottenere quella carta di identità che gli spetta.

La vicenda è paragmitaca per comprendere quanto poco valgano i diritti e perfino i documenti quando si approda in Italia e nell’Europa che avrebbe voluto essere la culla del diritto. Basta questa storia per spiegare il razzismo anche ai bambini e per comprendere perché quelli che arrivano dal mare o dall’Afghanistan o dalla rotta balcanica non subiscono lo stesso trattamento degli ucraini o altri stranieri: sono neri, solo quello, semplicemente quello. Ora siamo curiosi di sapere cosa ha da dire il ministro Piantedosi. Vediamo se ora anche nel Michel Ivo è solo colpa sua che non ha pensato a uno sbancamento prima di partire.

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Calenda, voce del verbo calendare. Dopo aver litigato con tutti si ritrova irrimediabilmente solo

Vino al vino, olio all’olio. ”Perché uno è convinto che pagare 30 euro per una bottiglia di vino a tavola, che dura un’ora, sia cosa normale, e quando dovesse pagare 30 euro per un litro d’olio lo vede come un furto con scasso? Questo lo ritengo un fatto assurdo, che non è rispettoso del lavoro che c’è dietro”. Parole, opere e omissioni del ministro all’Agricoltura e al Made in Italy Francesco Lollobrigida, cognato d’Italia nel partito della presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Pensateci bene: perché spendere centinaia di euro per un breve viaggio in aereo per Palermo che dura un’ora e poi chiamate furto un comodo viaggio di 12 ore in treno per arrivare lo stesso?

Istigazione all’idiozia. Oltre a essere indagato per istigazione all’odio razziale al generale Roberto Vannacci farebbe bene un corso base di ironia. Tronfio del suo successo come novello principe degli zotici il papabile candidato di Salvini (insopportabile perfino all’interno della Lega) ha pubblicato sul suo profilo Facebook una foto in grembiule con delle mele blu mentre era impegnato ai fornelli. Oddio, impegnato è una parola grossa: Vannacci cucinava tre hamburger schiacciati simili a torte di sterco di vacca. Come didascalia il generale ha scritto “il misogino”, convinto che non possa essere nemico delle donne un uomo che sta ai fornelli. Con sole due parole quindi è riuscito a dirci che per lui cucinare è “roba da femmine”, come si insegnava alle elementari cinquant’anni fa. E ha fatto la figura del misogino. Genio del banale.

Liberi di farsi sfruttare. Benegas Lynch, deputato del nuovo premier argentino Javier Milei nonché figlio di una delle più storiche aristocrazie argentine legate alle dittature passate, ha proposto di liberalizzare anche la scuola nel senso più stretto delle liberalizzazioni secondo i turboliberisti ovvero cancellarla. La sua proposta di abolizione dell’obbligo scolastico, spiega Lynch, permetterebbe ai ragazzi di scegliere liberamente di poter essere liberi, di farsi schiavi per dedicarsi liberamente a un lavoro che liberamente li sfrutti per aiutarli liberamente a non morire di fame. Siamo certi che qualcuno dalle nostre parti abbia sognato a occhi aperti di fronte a tanto coraggio.

Un ponte per l’Africa. Francesca Porpiglia (Lega) difende il progetto-bandiera di Salvini – il Ponte sullo Stretto – con una grazia senza pari: “I calabresi non sono abituati al progresso, per questo siamo rimasti al livello dell’Africa”, dice. E sembra davvero la frase perfetta per calmare gli animi delle persone che si sono ritrovate senza casa per lasciare spazio al progetto di un Ponte che, vedrete, non si farà mai. Strano che Salvini non abbia ancora pensato di candidarla capolista alle prossime elezioni europee.

Ciocca come lotta. L’europarlamentare Angelo Ciocca è diventato famoso per i suoi gesti eclatanti a Bruxelles. Niente di politico, figurarsi. Una delle sue ultime gesta è stata quella di alzarsi in piedi con un fischietto ed estrarre il cartellino rosso. Potete immaginare come l’abbiano guardato stralunati tutti gli altri. Ora come il suo segretario Salvini ha deciso di lanciare il guanto di sfida alla presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen e ha confezionato un bel video sui suoi social con un cotechino in mano, sorridente con intorno una banda di cuochi. Tenetevi forte, ecco il denso messaggio politico: “Difendiamo il nostro made in Italy”, scrive Ciocca mentre nel video dice a von der Leyen “mangiati tu i grilli!”. Statista.

Carlo non sta Bonino. Si conierà prima o poi il verbo calendare e diventerà sinonimo di porre la condizione di entrare in un’alleanza solo se si ha la possibilità di escludere tutti gli altri. L’ex eurodeputato Carlo Calenda che ha litigato con il Pd, che poi ha litigato con Emma Bonino, che poi ha litigato con Renzi ora si ritrova irrimediabilmente solo. Ma chissà come mai?

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Amadeus in procinto di passare dalla Rai al canale Nove

Il governo Meloni sta dimostrando un’eccezionale talento: la desertificazione della Rai. L’addio di Amadeus sembrava fino a ieri una voce incontrollata che sibilava nei corridoi e invece nelle ultime ore viene definito come “probabile” dai dirigenti di viale Mazzini. L’amministratore delegato Roberto Sergio e il direttore Giampaolo Rossi si ritrovano a fare i conti con l’ennesima partenza ma questa volta sarà più difficile da raccontare e da far digerire.

Nel caso di Lucia Annunziata (fresca candidata alle elezioni europee con il Partito democratico), di Massimo Gramellini, di Fabio Fazio o di Corrado Augias era quasi facile addossare la responsabilità ai partenti dipingendoli come dissidenti politici. “Aria di rinnovamento”, dicevano i vertici aziendali facendo ciao ciao con la manina ai conduttori considerati troppo “di sinistra”. Il passaggio di Bianca Berlinguer alla corte di Pier Silvio Berlusconi è stato più difficile, subire lezioni di pluralismo da una rete privata no è stato un gran spettacolo, visto da fuori. 

Amadeus in procinto di passare a Discovery sul canale Nove. A pesare sono state anche le ingerenze politiche

Amadeus rientra invece di diritto nella stretta schiera dei presentatori veramente nazionalpopolari, macina risultati importanti con telespettatori di qualsiasi fazione e soprattutto con i suoi cinque festival di Sanremo ha rilanciato l’interesse degli sponsor riportando la Rai sulla vetta delle reti televisive e ha catturato un pubblico giovane che sembrava irrecuperabile. Il 9 aprile Amadeus avrebbe comunicato ai dirigenti Rai l’intenzione di seguire Fabio Fazio a Nove, la rete della galassia Discovery. Sul tavolo ci sarebbe un’offerta allettante dal punto di vista economico (circa 3 milioni di euro rispetto al milione e 700mila della Rai) ma soprattutto sfidante per i conduttore: responsabile dell’intrattenimento del canale. 

A pesare sulla decisione ci sarebbe soprattutto – manco a dirlo – il fastidio per l’ingerenza politica in occasione dell’ultima edizione del Festival di Sanremo. Secondo il Corriere, tra i motivi che avrebbero spinto Amadeus a lasciare la Rai ci sarebbero anche le pressioni e richieste ricevute: portare Povia a Sanremo, Hoara Borselli ospite e Mogol direttore artistico. Infine la richiesta di un pranzo “di cortesia” con Pino Insegno. Fonti interne alla Rai dicono di un fastidio insistente per la mancata difesa da parte dell’azienda (Sergio in particolare) sul “caso trattori” che per alcuni giorni ha soffiato sulla competizione sanremese. Infine Amadesu non avrebbe gradito l’atteggiamento (definito “pilatesco”) dell’ad in occasione dei continui attacchi di esponenti della maggioranza contro alcuni cantanti in gara, da Rosa Chemical e Fedez nell’edizione del 2023 alle polemiche che hanno seguito le prese di posizione su immigrazione e Medio oriente di alcuni cantanti in gara quest’anno. “Mentre chiedevano a me di non politicizzare il Festival – è il ragionamento del conduttore – non mi difendevano dalle strumentalizzazione dei loro compagni di partito”. 

La vera sfida per il prossimo amministratore delegato Rai (che sarà Rossi scambiandosi il ruolo con Sergio), per il direttore del day time Angelo Mellone, per il direttore del prime time Marcello Ciannamea e il responsabile della distribuzione Stefano Coletta sarà quella di trovare un sostituto all’altezza per ascolti e introiti pubblicitari. Missione quasi impossibile. Stefano De Martino – primo dei papabili – non è ancora strutturato per raggiungere l’obiettivo. Ma la vera sfida della Rai targata Meloni consiste nel smentire questo deserto che loro si ostinano a voler chiamare cambiamento. 

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Quell’irresistibile voglia del carcere per i giornalisti

Eccola, di nuovo, quell’irresistibile voglia di Fratelli d’Italia di imbavagliare il giornalismo. Il capogruppo al Senato di Fratelli d’Italia nonché relatore del ddl diffamazione Gianni Berrino cede all’incontinenza criminogena e presenta un emendamento che prevede il carcere fino a 3 anni e la multa fino a 120mila euro per “condotte reiterate e coordinate” di diffusione di notizie false. L’emendamento aggiunge un comma al ddl Balboni, punendo la “diffusione di notizie false con il mezzo della stampa”. Prevista anche la pena accessoria dell’interdizione dalla professione di giornalista per un periodo da tre mesi a tre anni. Inoltre, quando le condotte “consistono nell’attribuzione, a taluno che si sa innocente, di fatti costituenti reato, la pena è aumentata da un terzo alla metà”.

Dubbi di Fi e Lega sulla proposta di FdI, che prevede fino a 4 anni e mezzo di carcere per i giornalisti

È l’esatto opposto di ciò che aveva chiesto la Consulta a giugno nel 2021 quando una sentenza – relatore il giudice Francesco Viganò – l’articolo 13 della legge sulla stampa del 1948 che finora faceva scattare, in caso di condanna per diffamazione a mezzo stampa compiuta mediante l’attribuzione di un fatto determinato, la reclusione da uno a sei anni. Dalle parti di Fratelli d’Italia hanno avuto la gran pensata di introdurre un nuovo articolo – il 13 bis – alla legge sulla stampa, dopo che la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l’articolo 13 della legge sulla stampa proprio perché prevedeva pene detentive, in contrasto con la giurisprudenza della Cedu. 

Fnsi: “Misura incivile”

“Nessuno ha diritto di inventarsi fatti falsi e precisi per ledere l’onore delle persone. Quello non è diritto di informazione ma orchestrata macchina del fango, che lede anche il diritto alla corretta e veritiera informazione”, spiega il meloniano nel tentativo di rendere potabile una norma che fa a pugni con la Costituzione italiana e con il diritto internazionale. E a dimostrazione di quanto sia avventata la sua incursione in commissione giustizia ci sono le reazione dei suoi compagni di maggioranza, tutt’altro che felici di dover smussare l’ennesima spinta autoritaria proprio a ridosso delle elezioni europee. Il senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin spiega che non c’è stato il tempo per “approfondire il contenuto degli emendamenti” e rimanda alla sentenza della Consulta, affossando di fatto l’iniziativa del suo collega. Dal canto suo, la presidente della Commissione Giustizia al Senato Giulia Bongiorno (Lega), non entra nel merito ma annuncia una riunione di maggioranza, sottolineando però che il Carroccio “tiene soprattutto a focalizzare l’attenzione sul tema del titolo degli articoli e delle rettifiche”. E pensare che quella sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo si riferiva al caso di Alessandro Sallusti, voce autorevole di questa destra che lambicca Orbàn, condannato dal giudice italiano alla pena di 14 mesi di reclusione e salvato dall’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. 

Inevitabile lo sdegno delle opposizioni, con il Movimento 5 Stelle che attraverso la senatrice Dolores Bevilacqua sottolinea i “troppi campanelli d’allarme per la libera informazione con questo governo” e con il dem Filippo Sensi che parla di “un conto aperto con la libertà di informazione” da parte di questa maggioranza. Di “posizioni inaccettabili frutto di pulsioni autoritarie“ parla il presidente dell’Ordine dei giornalisti Carlo Bartoli mentre Alessandra Costante, segretaria generale della Fnsi intravede “un altro salto indietro nelle classifiche internazionali sulla libertà di informazione”. 

Oggi l’ordine di scuderia è di abbassare i toni, seppellire la polemica e fingere che gli emendamenti siano un’iniziativa personale di Berrino, che si aggira con il cerino in mano e la nomea di Orbàn di questa settimana. Ma intanto l’avvertimento è arrivato. 

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Le carceri italiane scoppiano: c’è un sovraffollamento di 13-14 mila detenuti

Nelle carceri “c’è un livello di tensione molto alta, dettato da una situazione molto complicata”. Lancia l’allarme il presidente dell’associazione Antigone, Patrizio Gonnella, in audizione al Senato.  “In alcune regioni c’è stata meno attenzione all’organizzazione della vita fuori dalla cella”, sottolinea. C’è un sovraffollamento di 13-14 mila persone. Le carceri lombarde sono le più affollate, con il doppio di presenze rispetto a quelle regolamentari”. Calano immigrati detenuti, “dal 37% di qualche anno fa al 31%”. Donne in carcere sono solo il 4,2%.

Le carceri lombarde sono le più affollate, con il doppio di presenze rispetto a quelle regolamentari. Calano gli immigrati detenuti

Al 31 marzo 2024 le carceri italiane ospitavano 61.049 persone. “Numeri così elevati comportano una contrazione dello spazio a disposizione dell’intera comunità penitenziaria, una riduzione del tempo che gli operatori possono dedicare alle persone detenute, una frammentazione delle proposte trattamentali, maggiori difficoltà per l’accesso alle cure mediche e un aumento della conflittualità interna, dice Monica Gallo, garante dei diritti delle persone private della libertà personale.

Suicidi, sovraffollamento e condizioni disumane impongono il ricorso alla Corte costituzionale

Qualche giorno fa l’Osservatorio carcere delle Camere penali ha dichiarato che i suicidi, sovraffollamento, e condizioni disumane impongono il ricorso alla Corte costituzionale sottolineando la violazione dei diritti fondamentali derivanti dall’esecuzione di una pena detentiva in condizioni disumane e degradanti. Già in passato la Consulta si era pronunciata (con la sentenza 279/ 2013) sulla legittimità costituzionale dell’articolo 147 del codice penale, evidenziando l’inaccettabilità dell’inerzia legislativa di fronte a una situazione così grave. Oggi le cose sono messe perfino peggio. 

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Come Orbàn con i suoi giornalisti

«Gli emendamenti presentati in commissione Giustizia dal senatore di FdI Gianni Berrino al ddl Diffamazione dimostrano che qualcuno non ha capito molto delle sentenze della Corte costituzionale in materia. Il carcere per i giornalisti è un provvedimento incivile e denota la paura di questo governo nei confronti della libertà di stampa. Questa è l’orbanizzazione del Paese». Lo ha detto ieri Alessandra Costante, segretaria generale della Fnsi.

In risposta a un’indicazione che arrivava dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e chiedeva di levare la possibilità del carcere per tutelare i giornalisti la compagine di governo ha pensato di riformare la diffamazione in Italia scrivendo male un disegno di legge che complica ulteriormente il rapporto tra potere e giornalismo e all’ultimo momento non sono riusciti a trattenersi dal prevedere il carcere, di nuovo. Anche la Corte costituzionale aveva sottolineato l’illegittimità del carcere. Niente, è più forte di loro.

Le pulsioni autoritarie del resto funzionano esattamente così, spingono il potere a mostrare la sua vera faccia nelle pieghe della sua azione politica, tradiscono la sua natura alla benché minima occasione. Il combinato disposto dell’emendamento al ddl Diffamazione e l’idea di riforma della par condicio (che prevede minutaggio libero per gli esponenti del governo) tradisce una debolezza di fondo dell’esecutivo. 

La querela per diffamazione è il manganello per sabotare il giornalismo che negli ultimi anni è già in crisi per altri – molto più seri – motivi. Il termometro dello scenario rimane l’editoriale di quei due direttori di giornali di destra qualche settimana fa che per mesi hanno ripetuto che no, non c’era nessuna deriva autoritaria, prima di frignare in un editoriale che lamentava l’abuso di querela.

Buon venerdì. 

Nella foto: il senatore Gianni Berrino, frame di un video sulla campagna elettorale 2022

 

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Foti mette all’indice Mira. Pure gli scrittori nel mirino

Il capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera dei deputati, Tommaso Foti ieri ha deciso di dedicarsi alla letteratura, più precisamente al Premio Strega. Di primo acchito potrebbe sembrare una buona notizia – l’editoria italiana ha bisogno di sponsor influenti – se non fosse che per l’ennesima volta un libro viene usato come roncola per farne strumentalizzazione politica. 

Il capogruppo di FdI alla Camera Foti ha deciso di dedicarsi alla letteratura, più precisamente al Premio Strega

Secondo Foti “spiace vedere un’ombra inquietante allungarsi anche sul Premio Strega: la solita ombra che tende a offuscare la strage di Acca Larenzia e vilipendere quei ragazzi innocenti uccisi negli anni più bui della Repubblica, solo perché militanti del Movimento Sociale Italiano. Tra i libri finalisti del Premio – dice il capogruppo di Fratelli d’Italia – si rinviene anche “Dalla stessa parte mi troverai” della scrittrice Valentina Mira che nell’opera ha provato a banalizzare l’atroce assassinio avvenuto nel gennaio del 1978 nei pressi della sede dell’allora sezione del Msi di via Acca Larenzia. Secondo Foti in “una rassegna importante quale il Premio Strega si preferisce offendere la memoria di giovani innocenti uccisi vilmente e con inaudita ferocia i cui assassini non sono mai stati assicurati alla Giustizia”. 

La stupidità della politica che legge la letteratura con gli occhi miopi della propaganda è cosa ormai risaputa, ci siamo abituati. La pericolosità della politica che vorrebbe decidere cosa e come dovrebbe scrivere la letteratura invece è un’ombra inquietante che si allunga sull’Italia. Un’ombra molto più pericolosa di quella che Foti vede nel libro in questione, un’ombra a cui non vorrei stessimo facendo l’abitudine per sfinimento in questo tempo lugubre. 

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Sedici europarlamentari sul canale filorusso “Voice of Europe”

Sono sedici gli europarlamentari, tutti provenienti dall’area dell’estrema destra, che hanno partecipato a video pubblicati sul canale YouTube “Voice of Europe“, considerato un veicolo di propaganda e disinformazione russa. Lo rivela un’indagine dell’edizione europea del portale “Politico“.

Sono 16 gli europarlamentari, tutti provenienti dall’area dell’estrema destra, che hanno partecipato a video pubblicati sul canale YouTube “Voice of Europe”

Gli eurodeputati e altri rappresentanti di governi di Paesi provenienti prevalentemente dell’Europa centrale e orientale hanno rilasciato interviste video a un canale con solo 351 iscritti su YouTube e appena 60 mila visualizzazioni dall’estate scorsa a oggi. La diffusione di tali contenuti sulle piattaforme social risulta però maggiore, in particolare su X. In alcuni dei video in questione, alcuni deputati del Parlamento europeo facevano commenti in cui auspicavano una sconfitta dell’Ucraina e in cui criticavano le istituzioni di Kiev, anche in prospettiva di una futura adesione del Paese all’Ue.

Per l’Italia ospiti del canale sono stati Matteo Gazzini e Francesca Donato, entrambi ex leghisti

Dall’agosto scorso, Voice of Europe ha organizzato quattro dibattiti e interviste individuali con diversi deputati europei. Matteo Gazzini e Francesca Donato (nella foto) sono i nomi italiani citati nell’inchiesta. Gazzini si è candidato per l’Europarlamento nel 2019 con la Lega, risultando primo dei non eletti. Subentrato nel 2022 ha abbandonato il partito di Salvini a dicembre dell’anno scorso entrando in Forza Italia. Ex leghista è anche Francesca Donato, ora dirigente nel partito di Totò Cuffaro. 

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La tentazione di Meloni di essere sponsor di Mario Draghi in Ue

Giorgia Meloni ha deciso, si candiderà alle prossime elezioni europee dell’8 e 9 giugno convinta che il suo nome e la sua faccia possano dare un’ulteriore spinta al suo partito. Nel suo cerchio magico è già pronta la risposta alle prevedibili critiche di chi sottolinea come si tratti di una candidatura farlocca, buona solo per promuoversi a mo’ di marchio. “Si tratta di un coraggioso atto di democrazia: una presidente del Consiglio che non ha paura di sottoporsi a un test democratico in prima persona” è la risposta che hanno confezionato i comunicatori del partito.

L’annuncio è già segnato sul calendario. All’assemblea programmatica di Fratelli d’Italia che si terrà il prossimo 28 aprile a Pescara la presidente del Consiglio annuncerà la sua discesa in campo e chiederà ai nomi forti del suo partito di fare lo stesso. Con Meloni capolista in tutte e cinque le circoscrizioni e con dirigenti e ministri nelle seconde file c’è la convinzione di non inquinare gli equilibri elettorali: gli eleggibili saranno quelli dal terzo posto in poi, con buona pace di quelli che a Bruxelles vorrebbero andarci davvero che potranno sfruttare il traino dei nomi forti del partito senza poter lamentare una gara sfalsata. 

Meloni ha deciso di candidarsi capolista alle europee. Schlein accetterà la sfida

L’annuncio di Meloni sbloccherà anche la decisione della segretaria del Partito democratico Elly Schlein che raccoglierà la sfida. La presidente del Consiglio punta almeno al 25% per Fratelli d’Italia (sognando il 30%) e a un milione e mezzo di preferenze personali. Per Schlein la sfida è improba ma solo giocando la partita in prima persona può sperare di calmierare le mareggiate delle correnti interne e mandare un messaggio chiaro agli elettori e al partito: comando io. Anche in Forza Italia il presidente del partito Antonio Tajani ha intenzione di patrocinare i candidati piazzandosi come capolista per tentare il colpo di reni necessario a superare i voti dell’alleato Salvini. A proposito della Lega voci sempre più insistenti dicono che il ministro dei Trasporti e segretario del partito – in caduta libera nel gradimento dentro e fuori dalla Lega – abbia deciso di puntare forte sul generale Roberto Vannacci, scontentando per l’ennesima volta gli oppositori interni. “Se devo perdere almeno avrò fatto le mie scelte”, spiega Salvini ai suoi (pochi) fedeli con cui condivide le scelte in questo momento non facile. Nel Movimento 5 Stelle si aspetta il 17 aprile per conoscere i nomi delle candidature, compresi quelli del presidente Giuseppe Conte. 

La presidente del Consiglio è tentata dall’idea di abbandonare von der Leyen per virare su Draghi presidente di Commissione

Ma la vera notizia che si bisbiglia è la possibile decisione di Meloni di virare all’ultimo momento su Mario Draghi come presidente proposto per la Commissione europea. La presidente del Consiglio è ogni giorno più preoccupata per l’indebolimento di Ursula von der Leyen, coinvolta nelle indagini dello Pfizergate e osteggiata perfino all’interno del suo partito. La votazione di ieri del Patto su migrazione e asilo ha dimostrato chiaramente che è fallito il progetto della presidente della Commissione Ue di arginare le destre. Con Draghi la presidente del Consiglio ha avuto un ottimo rapporto fin dal primo giorno di insediamento a Palazzo Chigi, nonostante la campagna elettorale tutta incentrata sull’anti-draghismo, e l’economista italiano potrebbe essere il certificato doc di atlantismo e credibilità che Meloni insegue da tempo. Intestarsi la proposta di Draghi consentirebbe al governo italiano anche di avere un filo diretto privilegiato sull’accidentato percorso del Pnrr e del Patto di stabilità. La trasformazione così sarebbe completa: Meloni eletta come “l’unica che si è opposta a Draghi” ora è pronta per essere la più draghiana dei draghiani. 

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Mancano i decreti attuativi: 12,6 miliardi bloccati nei cassetti

Nei cassetti del governo ci sono 12,6 miliardi di euro bloccati perché mancano i decreti attuativi necessari. Qui fuori dai palazzi del governo ci sono soggetti pubblici e privati che aspettano di essere pagati. Come osserva Openpolis considerando tutte le leggi entrate in vigore dal marzo 2018 all’aprile 2024 i decreti attuativi richiesti in totale sono 2.337. Di questi, sono 520 quelli che ancora mancano all’appello. La maggior parte (348) riguardano norme varate dall’attuale esecutivo. Un governo che esautora il Parlamento e poi non riesce a stare al passo con le sue stesse decisioni. 

Secondo un’analisi di Openpolis i decreti attuativi mancanti sono saliti a 520

Leggendo la sesta Relazione sul monitoraggio dei provvedimenti legislativi e attuativi prodotta da Palazzo Chigi si apprende che negli ultimi mesi è stato profuso un significativo sforzo per smaltire l’arretrato. In effetti i decreti attuativi ancora da pubblicare legati a norme dei governi precedenti rappresentano circa un terzo del totale. Nello specifico, le leggi entrate in vigore durante il governo Draghi pesano per il 22,8% delle attuazioni mancanti. Quelle del secondo governo Conte II per il 7,9%, il 2,3% quelle del primo. Come fa notare Openpolis non sempre l’abbattimento dei decreti attuativi mancanti è legato alla loro effettiva pubblicazione quanto a cambiamenti nelle normative vigenti che li rendono non più necessari. La relazione, aggiornata al 31 marzo 2024, ad esempio cita 32 casi di questo tipo per le sole leggi varate nel corso della legislatura attuale.

Il numero più consistente di decreti attuativi mancanti riguarda il ministero dell’economia e delle finanze. La struttura guidata da Giancarlo Giorgetti infatti deve ancora pubblicare 98 attuazioni rispetto alle 284 totali richieste. In valori assoluti, dopo quello dell’economia, i ministeri con il maggior numero di attuazioni mancanti a proprio carico sono ambiente (51), infrastrutture (44) e imprese (39).

Facendo un confronto percentuale tra i decreti richiesti in totale a ogni dicastero e quelli che ancora mancano all’appello, Openpolis osserva che la struttura più in difficoltà è quella guidata dal ministro per gli affari europei, il sud, le politiche di coesione e il Pnrr Raffaele Fitto. Sono solo 9 le attuazioni demandate alla responsabilità di questa singola struttura ma 5 di queste, cioè il 55,6%, devono ancora essere emanate. Seguono il ministero dell’ambiente (37,8%) e quello dello sport (28%). In 57 casi è prevista la collaborazione di due o più strutture nella definizione dei contenuti dei decreti attuativi. In tali circostanze è ragionevole pensare che i tempi per la pubblicazione possano allungarsi. Sono infatti ancora 26 i decreti attuativi che prevedono più ministeri co-proponenti che ancora mancano all’appello, cioè il 45,6%.

I provvedimenti mancanti bloccano l’assegnazione di oltre 12 miliardi di finanziamenti pubblici

In valori assoluti, il maggior numero di attuazioni ancora da emanare fa riferimento alle misure contenute nella legge di bilancio per il 2024 (50). Tali norme sono quelle che tipicamente richiedono più atti di secondo livello per la loro implementazione. Al terzo posto di questa particolare classifica infatti troviamo un’altra legge di bilancio, quella per il 2023 per cui mancano ancora all’appello 27 decreti attuativi. Al secondo posto c’è la legge relativa alle disposizioni organiche per la valorizzazione, la promozione e la tutela del made in Italy per cui mancano ancora 34 attuazioni. Openpolis sottolinea come sia significativo anche il numero di provvedimenti ancora da pubblicare per quanto riguarda il cosiddetto decreto Pnrr quater (20). Parte delle attuazioni legate a queste sole 4 leggi bloccano un totale di circa 8,5 miliardi di euro. Ampliando questa analisi a tutte le misure che richiedono decreti attuativi, possiamo osservare che le risorse ancora non erogabili superano i 12 miliardi. Per 181 decreti attuativi è già scaduto il termine fissato per la pubblicazione. 

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