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Angelucci prende l’Agi senza scucire un centesimo. Ecco le cifre

Immagina di riuscire a comprare la seconda agenzia di stampa compartecipata al 35% dal Ministero all’Economia mentre sei parlamentare di maggioranza senza scucire un euro anzi addirittura guadagnandoci. L’imprenditore, editore e deputato della Lega Antonio Angelucci potrebbe comprarsi l’Agi a cifre molto diverse rispetto a quelle ventilate nelle scorse settimane. Non è un caso che l’operazione inizialmente venisse raccontata come un affare da 40 milioni di euro che poi sono diventati 30, poi 20 per poi abbassarsi ancora. L’offerta reale sarebbe avanzata da Angelucci all’Eni si aggira sui 7 milioni ma quei soldi – anzi qualcosa in più – sono già guadagnati.

L’imprenditore, editore e deputato della Lega Antonio Angelucci potrebbe comprarsi l’Agi a cifre molto diverse rispetto a quelle ventilate nelle scorse settimane

Come? Nella trattativa rientrerebbero 4,5 milioni di pubblicità che l’Eni spalmerebbe nei prossimi tre anni su tutti i giornali di Angelucci (Libero, Il Tempo e Il Giornale) mentre 3.041.152 euro sono garantiti dal bando del governo per il 2024. La somma è fin troppo semplice, balla addirittura mezzo milioni di euro in più. Ma i bonus che Eni riconoscerebbe all’editore laziale non finiscono qui. Per avere i tre milioni e spicci del bando sull’editoria le agenzia devono avere almeno 50+1 giornalisti. Oggi Agi ne conta 72 oltre ai 19 poligrafici che in caso di successo dell’operazione rimarrebbero in carico a Eni. Quattordici giornalisti a oggi hanno aderito alla procedura di isopensione che il governo Meloni ha prorogato con possibilità di pensionamento anticipato fino a 7 anni nelle aziende interessate da eccedenze di personale, fino al 2026. Se tutti e quattordici i giornalisti usciranno L’Eni non solo regalerà Agi a Angelucci e si farà carico dei poligrafici ma pagherà anche le pensioni di alcuni suoi dipendenti. 

Per il Gruppo Angelucci sarebbe un ulteriore passo verso la costruzione del polo editoriale che il patron ha in mente. Dopo i quotidiani e l’agenzia di stampa sarebbe pronto a sferrare per Radio Capital per chiudere il cerchio. Sarebbero invece false le voci che indicano un suo interessamento per il gruppo Quotidiano Nazionale. 

Meloni spera di sfruttare l’agenzia di stampa per il referendum come già fece Renzi

A Palazzo Chigi la presidente del Consiglio Giorgia Meloni avrebbe da tempo dato il via libera all’operazione ripetendo l’errore che da premier fece Matteo Renzi. Meloni sa bene che in tempi di referendum avere un’agenzia di stampa “amica” significa indirettamente avere la possibilità di mettere le mani su quella miriade di quotidiani locali che molto spesso affidano alle agenzie la cronaca politica. Dalle parti di Fratelli d’Italia sono convinti che un lancio di agenzia ben confezionato possa finire senza troppo sforzo su migliaia di piccoli giornali praticamente copincollato. Nel 2016 Renzi pensò di compiere l’operazione con Riccardo Luna direttore proprio all’Agi. Il risultato però non fu quello previsto. 

A coordinare l’operazione in veste di facilitatore c’è ovviamente il direttore di Libero, nonché ex direttore dell’Agi, nonché ex portavoce di Giorgia Meloni. Mario Sechi avrebbe oliato i rapporti tra Giampaolo Angelucci (figlio del deputato Antonio) e quel Claudio Granata che all’Eni è uomo ombra di De Scalzi per le operazioni più difficili. Nonostante le smentite i ben informati confermano che alla cena prima di Pasqua Giampaolo Angelucci con il padre Antonio, la direttrice di Agi Rita Lofano e e Granata per l’Eni avrebbero stretto l’accordo di firmare il compromesso dopo la due diligence che è prevista per oggi. Rimangono sul tavolo due problemi: l’opinione pubblica con i partiti che all’Eni hanno più peso di quello che sembra e una società pubblica al 35% partecipata dal Mef che vende un importante ramo d’azienda con un trattativa privata. 

Nei corridoi dell’Agi Mario Sechi quando era direttore ripeteva ai giornalisti “l’Eni deve vendere, vi deve vendere”. Mai come ora ci sono vicini. 

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Il Foglio ribalta la realtà, a Gaza si mangia benissimo e la fame non esiste

Fermi tutti. Non è vero che a Gaza le persone debbano sopportare alla fame oltre a scampare dalle bombe. Il buon cuore di Benjamin Netanyahu sta inondando Gaza di quantità di cibo, tonnellate d’acqua e attrezzature mediche. La fame? È solo un’invenzione di Hamas e le principali organizzazioni del mondo crederebbero a questa bugia planetaria. 

In un suo articolo Il Foglio ribalta la realtà: a Gaza la fame non esiste. Anzi, c’è più cibo di prima

A sostenere questa folle tesi oggi in edicola c’è Il Foglio che con un articolo di Giulio Meotti riesce a ribaltare la realtà in punta di penna. Il “fact-checking” (l’hanno chiamato davvero così) del giornale diretto da Cerasa si intitola “Dal cibo all’acqua, cosa fa Israele sulla crisi a Gaza. Ma i media credono a Hamas” e vorrebbe illuminarci perché, scrivono, “nonostante gli enormi ostacoli nell’area, in realtà Israele facilità gli aiuti e le forniture di cibo”. Le prove? Un’amorevole chiaccherata con Pnina Sharvit-Baruch, ex colonnello dell’esercito israeliano promossa nel 2009 alla cattedra di diritto internazionale dell’Università di Tel Aviv già sospettata di aver fornito copertura legale ai crimini di guerra commessi durante l’offensiva israeliana a Gaza di quell’anno. In quell’operazione furono uccisi più di 1300 palestinesi, la maggioranza dei quali civili, e migliaia furono feriti. Secondo critici citati dal quotidiano israeliano Ha’aretz, il colonnello Sharvit-Baruch e il suo staff avrebbero distorto le tradizionali interpretazioni delle leggi internazionali, per allargare il raggio delle operazioni militari legittime e includervi anche gli obiettivi civili.

Al Foglio devono avere pensato: chi meglio di lei potrebbe svelarci i lauti banche che Israele concede ai Palestinesi? Tutto falso quindi quello che dicono gli esperti (messi tra virgolette nell’articolo, giusto per sminuirli). “A Gaza non c’è carenza di cibo”, scrive Meotti. Le prove? “Basta andare sui social palestinesi”, si legge nella ficcante inchiesta del giorno. Anzi, per Il Foglio è tutta un’invenzione di “Hamas che usa la sofferenza palestinese per esercitare pressioni internazionali su Israele affinché interrompa la campagna militare”. 

A sostenere la folle tesi è Pnina Sharvit-Baruch, ex colonnello dell’esercito israeliano già sospettata di aver fornito copertura legale a crimini di guerra nel 2009

Proprio ieri Save The Children ci ha fatto sapere che i 346.000 bambini sotto i cinque anni presenti nella Striscia sono quelli a più alto rischio di malnutrizione. Si stima che già 1 bambino su 3 sotto i due anni soffra di deperimento, e secondo il Global Nutrition Cluster, un gruppo di organizzazioni umanitarie focalizzate sulla nutrizione, le stime sulla malnutrizione sono raddoppiate rispetto a gennaio, quando a soffrirne erano 1 bambino su 6. Quelli che non leggono Il Foglio dicono che a Gaza oltre un milione di persone rischia di morire di fame tra maggio e luglio, a causa della carestia provocata da Israele nei territori palestinesi.

A lanciare l’allarme è stato l’ultimo rapporto dell’Integrated food security phase classification (Ipc), di cui fanno parte due agenzie delle Nazioni Unite: il Programma alimentare mondiale (Fao) e l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Il documento denuncia esplicitamente la responsabilità israeliana della situazione, definita “carestia provocata dall’uomo”. “La comunità internazionale dovrebbe vergognarsi per non essere riuscita a impedire la carestia. Sappiamo che quando viene riconosciuta come tale è ormai troppo tardi per evitarla”, ha detto su X Martin Griffiths, coordinatore dei programmi di soccorso delle Nazioni Unite. “L’unica domanda che possiamo porci a questo punto è quanto ancora si permetterà che vada avanti”, ha aggiunto Jeremy Konyndyk, capo dell’organizzazione umanitaria Refugees international. Ma non è vero, si sbagliano tutti. A Gaza si mangia benissimo, parola de Il Foglio. 

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L’80% di emissioni di gas serra dal 2016 è stato prodotto da soltanto 57 aziende

Un nuovo studio dimostra che solo 57 produttori di di petrolio, gas, carbone e cemento sono direttamente collegati all’80% delle emissioni mondiali di gas serra dall’accordo sul clima di Parigi del 2016. Una potente schiera di società (controllate dagli stati o multinazionali invano agli azionisti) che sarebbero – secondo il report di Carbon Majors Database – sarebbe il principale motore della crisi climatica.

Emissioni, il 65% delle aziende statali e il 55% delle aziende del settore privato hanno aumentato la produzione in barba all’accordo sul clima di Parigi

Nonostante nel 2016 i governi si siano impegnati a tagliare i gas serra l’analisi rileva che la maggior parte dei grandi produttori ha addirittura aumentato la produzione di combustibili fossili e le relative emissioni nei sette anni successivi a quell’accordo rispetto ai sette anni precedenti. Dal database rilasciato ieri dei 122 maggiori inquinati al mondo i ricercatori scrivono che il 65% delle aziende statali e il 55% delle aziende del settore privato hanno aumentato la produzione in barba agli accordi sottoscritti dagli Stati. In testa alle aziende inquisitrici svetta il colosso statunitense ExxonMobil che avrebbe prodotto 3,6 gigatonnellate di CO2 in sette anni, ovvero l’1,4% del totale globale. Seguono Shell, BP, Chevron e TotalEnergies con l’1% delle emissioni globali a testa. Dai dati risulta evidente l’aumento di emissioni legate allo sfruttamento di carbone, nonostante l’Agenzia internazionale dell’energia abbia più volte avvertito che non è possibile aprire nuovi giacimenti di petrolio e gas se il mondo deve rimanere entro i limiti stabiliti del riscaldamento globale.

Gli scienziati concordano nel ritenere che le temperature globali si stiano avvicinando rapidamente all’obiettivo di Parigi, ovvero l’aumento entro 1,5°, con conseguenze potenzialmente disastrose per le persone e l’ambiente. “È moralmente riprovevole per le aziende continuare ad espandere l’esplorazione e la produzione di combustibili al carbonio di fronte alla consapevolezza decennale che i loro prodotti sono dannosi”, ha detto Richard Heede, che ha istituito il set di dati Carbon Majors nel 2013. “Non si possono incolpare i consumatori che sono stati costretti a dipendere dal petrolio e dal gas a causa della cattura del governo da parte delle compagnie petrolifere e del gas”, ha aggiunto. 

Il paradosso di una lotta al cambiamento climatico che si limita a essere pronunciata più che praticata

Tzeporah Berman, direttore del programma internazionale presso Stand.earth e presidente del Trattato di non proliferazione dei combustibili fossili, spiega che “la ricerca di Carbon Majors ci mostra esattamente chi è responsabile del calore letale, del clima estremo e dell’inquinamento atmosferico che minaccia le vite e scatena il caos sui nostri oceani e sulle nostre foreste. Queste aziende – dice Berman – hanno realizzato miliardi di dollari di profitti negando il problema e ritardando e ostacolando la politica climatica. Stanno spendendo milioni in campagne pubblicitarie sull’essere parte di una soluzione sostenibile, pur continuando a investire in una maggiore estrazione di combustibili fossili”. 

Secondo l’Agenzia internazionale per l’energia il consumo globale di carbone è aumentato di quasi l’8% dal 2015 al 2022, raggiungendo un massimo storico di 8,3 miliardi di tonnellate nel 2022. Questa ricerca rileva che dal 2015 al 2022, le emissioni di CO2e legate alla produzione di carbone di proprietà degli investitori sono diminuite del 28%, mentre le emissioni di CO2e legate alla produzione di carbone delle società statali e degli Stati nazionali sono aumentate rispettivamente del 29% e del 19%. È il paradosso di una lotta al cambiamento climatico che si limita a essere pronunciata più che praticata. 

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Insistere sempre, sempre di più, per proteggere Rafah

“A una settimana di distanza da quando il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato la risoluzione che chiedeva un cessate il fuoco immediato, e dopo solo alcuni giorni da quando la Corte internazionale di Giustizia ha emesso ulteriori misure provvisorie a proposito della causa per genocidio sostenuta dal Sudafrica contro Israele, gli Stati devono ancora agire con urgenza per garantirne l’applicazione e prevenire crimini di atrocità a Rafah, mentre prosegue l’escalation degli attacchi”. È l’allarme lanciato oggi da 13 organizzazioni umanitarie e per i diritti umani in un comunicato stampa coingiunto. A firmarlo Save the Children, International Federation for Human Rights, Amnesty International, Doctors of the World/Médecins du Monde France, Spain and Switzerland, ActionAid International, Oxfam International, Norwegian Refugee Council, Plan International, Handicap International – Humanity & Inclusion, Medical Aid for Palestinians (MAP), International Rescue Committee (IRC), Danish Refugee Council, DanChurch Aid.

“La settimana scorsa, il governo israeliano ha chiarito la propria intenzione di espandere le operazioni militari a Rafah indipendentemente dalla risoluzione giuridicamente vincolante del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che chiede un cessate il fuoco immediato. Nell’ultima settimana a Rafah questo scenario ha iniziato a realizzarsi. I bombardamenti israeliani, infatti, solo tra il 26 e il 27 marzo hanno ucciso almeno 31 persone, tra le quali 14 bambini. Le Organizzazioni umanitarie e per i diritti umani hanno lanciato l’allarme ripetutamente su una pianificata incursione di terra israeliana a Rafah che promette di decimare la vita e compromettere la possibilità di aiuti di prima necessità per oltre 1,3 milioni di civili, tra questi ci sono almeno 610mila bambini che sarebbero ora sulla linea diretta del fuoco”, sottolinea la nota.

“Non esiste un piano di evacuazione fattibile o condizioni che possano proteggere i civili nel caso in cui un’incursione di terra dovesse essere portata avanti. Per rispettare il divieto assoluto di trasferimento forzato e deportazione di civili previsto dal diritto internazionale umanitario, Israele è obbligato ad adottare ‘tutte le misure possibili’ per fornire ai civili evacuati beni di prima necessità per la sopravvivenza e garanzie di un ritorno sicuro e dignitoso una volta terminate le ostilità. Tali misure includono la garanzia di sicurezza e protezione adeguate, alloggi, acqua, servizi igienico-sanitari, assistenza sanitaria e nutrizione. A oggi non esiste alcun posto del genere né all’interno né all’esterno di Gaza. I bombardamenti israeliani della Striscia di Gaza, dopo sei mesi di ostilità, hanno danneggiato o distrutto più del 60% delle unità abitative e annientato la maggior parte delle infrastrutture nella parte settentrionale e centrale di Gaza”, prosegue il comunicato.

“A Gaza non c’è nessun posto sicuro in cui le persone possano rifugiarsi. Le forze israeliane hanno ripetutamente attaccato aree che in precedenza avevano definito “sicure”. Gli attacchi aerei israeliani dentro e intorno alla cosiddetta zona sicura di Al-Mawasi hanno ucciso almeno 28 persone, mentre le forze di terra israeliane entravano e occupavano la zona settentrionale. In tutta Gaza, anche quando le Organizzazioni umanitarie hanno dato informazioni alle forze israeliane rispetto alle sedi per le operazioni di aiuto e ai membri del personale, queste aree hanno continuato a essere attaccate. Gli operatori umanitari sono stati uccisi, i convogli umanitari sono finiti sotto il fuoco israeliano e i rifugi e gli ospedali sostenuti dalle Organizzazioni vengono danneggiati o distrutti sotto i bombardamenti. Le nuove proposte del governo israeliano di costringere i civili nelle cosiddette ‘isole umanitarie’ probabilmente fornirebbero un’altra falsa pretesa di sicurezza e spingerebbero invece i civili in aree piccole, ristrette e con scarse risorse dove rischiano di essere attaccati, sia che si trovino all’interno o all’esterno di queste ‘isole’. Non c’è nessun posto a Gaza che abbia a disposizione assistenza e servizi sufficienti per garantire la sopravvivenza della popolazione. Nella stessa Rafah, i servizi e le infrastrutture essenziali funzionano solo parzialmente, compresi ospedali, panifici e strutture per il rifornimento idrico o quelle igienico-sanitarie ormai al collasso. Il centro e il nord di Gaza sono devastati, con interi sistemi, infrastrutture e quartieri cancellati dalla mappa e mentre continuano le restrizioni di accesso all’area per le agenzie di assistenza umanitaria. Un’ulteriore escalation delle operazioni militari israeliane a Rafah avrebbe anche conseguenze catastrofiche per la risposta umanitaria già fortemente ostacolata in tutta Gaza, poiché maggior parte del coordinamento degli aiuti e delle infrastrutture istituite dall’ottobre 2023 ha sede proprio a Rafah”, si legge ancora nel testo.

“Tutti gli Stati hanno l’obbligo di proteggere le popolazioni dai crimini di atrocità. I bambini e le famiglie di Rafah vivono in un costante stato di paura e pericolo. Il governo israeliano ha annunciato l’intenzione di espandere le operazioni militari nella zona e questo rischio si è ulteriormente aggravato dal 31 marzo, quando il gabinetto di guerra israeliano ha approvato i piani per le operazioni di terra nel governatorato più a sud. Sebbene alcuni stati abbiano espresso pubblicamente disapprovazione, le pressioni diplomatiche e le dichiarazioni internazionali non sono state finora sufficienti a produrre risultati e ad evitare l’incursione pianificata. Tuttavia, esistono una serie di misure di protezione a disposizione degli Stati, che sono obbligati a rispettare e garantire il rispetto del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani, come dimostrato in precedenza in altre crisi internazionali. Gli Stati devono ora intraprendere azioni urgenti per garantire l’attuazione immediata di un cessate il fuoco permanente ed esplorare tutte le opzioni disponibili per proteggere i civili, in linea con i loro obblighi ai sensi del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani. Ciò include l’interruzione immediata del trasferimento di armi, parti di ricambio e munizioni laddove vi sia il rischio che vengano utilizzate per commettere o agevolare gravi violazioni del diritto internazionale umanitario o dei diritti umani. Qualunque azione in meno non è semplicemente un fallimento. Qualunque azione in meno non rispetterà gli obblighi morali, umanitari e legali”, conclude la nota.

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Droni russi su Kharkiv, 5 morti e una decina di feriti

Le forze russe hanno attaccato la città di Kharkiv con droni, uccidendo almeno cinque persone e ferendone altre dieci. Lo riporta Ukrinform.In un post su Telegram, il sindaco di Kharkiv Ihor Terekhov ha dichiarato: “Informazioni confermate: tre soccorritori sono stati uccisi e un altro è rimasto ferito a seguito del ripetuto attacco sul luogo dell’incidente”. Oleh Syniehubov, capo dell’amministrazione militare regionale di Kharkiv, ha informato che è stato scoperto il corpo di una donna civile.

Droni russi su Kharkiv, almeno cinque morti

Tra le vittime ci sarebbero anche tre operatori dell’emergenza, intervenuti sul posto per soccorrere i civili. Tra i feriti a seguito di altri attacchi dei droni, 9 sono civili e un 49enne operatore del servizio di emergenza, in condizioni molto critiche. Nella città si sono udite altre esplosioni: danneggiati abitazioni ed edifici a più piani. Anche il sindaco della città di Kharkiv, Ihor Terekhov, ha dichiarato all’agenzia di stampa Suspiline che un residente è rimasto bloccato sotto le macerie di un edificio danneggiato, ma mostrava segni di vita. L’attacco è avvenuto utilizzando i droni Shahed di fabbricazione iraniana. Durante un incontro con il primo ministro ucraino Denys Shmyhal a Tallinn il 3 aprile, il presidente estone Alar Karis ha ribadito il sostegno agli attacchi dell’Ucraina contro obiettivi militari in Russia, affermando che era “perfettamente legittimo per le forze ucraine distruggere infrastrutture critiche per l’esercito russo”.

Alti ufficiali ucraini citati da Politico affermano che, tanto più di fronte ai 300mila soldati in più che Mosca mobiliterà dal primo giugno, “il quadro militare è cupo e c’è il grande rischio che le linee del fronte crollino ovunque i generali russi decidano di concentrare la loro offensiva”.

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Garantisti in… Azione: lite social sulla Santanchè

Il garantismo è un crinale spesso pericoloso. Maestra del garantismo alla bisogna con cui farsi scudo nonostante le molteplici richieste di dimissioni indirizzate agli avversari politici è la ministra Daniela Santanchè, accusata di reati che farebbero traballare qualsiasi altro lavoratore al di fuori di un Coniglio dei ministri. Proprio su Santanchè sono volati gli stracci tra gli autodefiniti “garantisti doc” di Azione, il partito guidato da Carlo Calenda. Il suo deputato Enrico Costa (feticcio dei garantisti di quest’epoca) non avrebbe voluto votare la sfiducia a Daniela Santanchè ma il suo segretario non era d’accordo. Ieri sull’ex Twitter ora X i due si sono mandati velenosi messaggi a distanza. 

“I garantisti. – ha scritto Costa in un messaggio velatamente indirizzato al suo segretario – Quando fa comodo sono esibiti come bandiere di una politica liberale. Quando si avvicinano le elezioni diventano imbarazzanti, soprattutto se sono garantisti con gli avversari: perché molti pensano che rinfacciare un’avviso di garanzia o un’inchiesta porti voti”. Risponde velenoso Calenda: “La follia per cui il garantismo vuol dire non poter esprimere un giudizio sui comportamenti di chi ricopre una carica pubblica, a prescindere dalla loro rilevanza penale e storia processuale, produce l’effetto opposto. Tutto è penale o non è. L’Etica – prosegue il leader di Azione – pubblica finisce per scomparire e così il giudizio di opportunità. E la nouvelle vague di una parte dei liberali nostrani che forse dovrebbero rileggere Einaudi o Cavour, invece di riempirsene la bocca senza conoscerne il pensiero”. Il bello dei garantisti è che ognuno ha il suo garantismo. 

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La Rai vuole tagliare le repliche di Report per “punire” Ranucci

Pur di punire Sigfrido Ranucci la Rai decide di cancellare le repliche estive della sua trasmissione Report, perdendo soldi e opportunità. Il consigliere d’amministrazione Davide Di Pietro ha chiesto “chiarimenti riguardo la ventilata cancellazione delle repliche di #Report nei palinsesti estivi” sottolineando che “la circostanza per altro si porrebbe in contrasto con i doveri inseriti nel recente contratto di servizio”. La decisione ufficiale ancora non c’è ma l’aria che tira nell’azienda indica una precisa scelta politica che non avrebbe nessuna giustificazione editoriale o aziendale.

Nonostante gli ottimi risultati le repliche estive di Report potrebbero essere cancellate

Il programma di Sigfrido Ranucci ora è in pausa ma riprenderà il 21 aprile per terminare la stagione il 23 giugno, per un totale di 28 puntate, la cui media di share finora è tra l’8-9%, con punte del 12 (2,5 milioni di spettatori). Successi ottenuti nonostante il cambio di serata deciso all’inizio della stagione dai vertici aziendali. Le repliche estive segnano uno share del 7% anche alla terza o quarta volta in cui vanno in onda. Le puntate da ritrasmettere vengono scelte come da mandato aziendale tra quelle che hanno fatto più ascolti. Sono a costo zero e guadagnano (bene) con i blocchi di pubblicità oltre a garantire all’azienda uno spazio informativo importante.  

I prodotti Report Cult sono stati premiati come migliori prodotti informativi della Rai perché “incarnano alla perfezione il senso del contratto del servizio pubblico” che è stato firmato dal ministro alle Imprese e al Made in Italy Adolfo Urso dopo la battaglia dell’ex consigliere Riccardo Laganà che volle mantenere il giornalismo d’inchiesta nel contratto di servizio. Report fa molto bene anche ai social. Anche quelli della Rai – che fanno capo a Rai digital – guadagnano (bene) dai blocchi pubblicitari inseriti nei video della trasmissione. 

Dal ministro Urso a La Russa, Gasparri, Santanchè e Giorgetti sono in molti ad attaccare la trasmissione condotta da Ranucci

Quindi a chi conviene cancellare le repliche estive di Report? Sicuramente la decisione favorisce i competitor, La7 in particolare ma non si intravedono né motivi manageriali né motivi editoriali per sospendere le repliche. La scelta di sospendere le repliche estive sarebbe di Stefano Coletta, responsabile della produzione e dei palinsesti ma qualcuno suggerisce che le impronte digitali siano del direttore generale Rossi e del responsabile delle risorse umane Angelo Mellone. 

Che Report non piaccia ai partiti di governo non è un mistero. Solo quest’anno Report ha preso tre annunci di querela dal ministro Urso, dai figli di La Russa, da Gasparri, da Sgarbi. Una citazione in sede civile è stata depositata dal ministro Giorgetti con la moglie e la cognata. Una causa è stata intentata anche dal presidente di Regione Lombardia Attilio Fontana e sua figlia. Tra le querele finora solo annunciate ci sono quella di Santanchè, della famiglia Berlusconi e dell’ex compagno della Santanchè.  

 

A completare il paradosso c’è il fatto che il “censore” Coletta sia lo stesso che ha “inventato” l’utilizzo delle repliche di Report qualche anno fa. Ora potrebbe essere sua la firma che le cancella. Rimane quindi il dubbio: c’è qualche suggeritore dietro a questa decisione? Proprio oggi il senatore di Forza Italia e membro della Vigilanza Rai Maurizio Gasparri si è fotografato sui social mentre firma sorridente l’ennesima denuncia contro la squadra di Ranucci. Questa è l’aria che tira. 

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Nato, 75 anni di pace ma a che costo?

Anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha voluto celebrare i 75 anni della Nato “che ha consentito ai suoi membri di prosperare nella concordia”. Ma alla ricorrenza della firma del Trattato dell’Atlantico del Nord di un gruppo di Paesi reduci – a vario titolo – dalla tragedia della Seconda Guerra mondiale le ombre delle guerre si addensano. 

Mattarella ha ricordato oggi il 75° anniversario della firma del Trattato dell’Atlantico del Nord

“Oggi, con il ritorno della guerra nel continente europeo, e di fronte a una diffusa instabilità nelle regioni a noi più prossime, si comprende appieno la lungimiranza di quella scelta. La recente adesione di Finlandia e Svezia alla Nato conferma che permane intatto l’anelito alla libertà, all’indipendenza, alla pace e alla sicurezza”, dice il presidente della Repubblica. “Per settantacinque anni l’Alleanza ha consentito ai suoi membri di prosperare e crescere nella concordia, consolidandosi quale pilastro essenziale dell’architettura di sicurezza europea. Essa si è dimostrata all’altezza delle sfide che ha dovuto affrontare; ha mostrato capacità di adattamento al mutare dei tempi e delle minacce; ha saputo ampliare il ventaglio delle collaborazioni con un numero crescente di Paesi e di Organizzazioni multilaterali; ha svolto un ruolo di stabilità nelle relazioni internazionali”, prosegue il capo dello Stato.

Il ruolo degli Usa nella Nato solleva molti dubbi

Il ruolo degli Usa all’interno del trattato atlantico ha però sollevato dei dubbi in questi anni. Dalla fine della Seconda guerra mondiale in tutto il mondo la guerra è interdetta. Esistono solo due eccezioni a tale divieto: il diritto all’autodifesa e la possibilità di condurre una guerra su esplicito mandato del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Il professore universitario svizzero Daniele Ganser nel suo libro Le guerre illegali della Nato (edito da Fazi) elenca e analizza una serie di conflitti avviati dalla Nato: la guerra illegale contro l’Iran (1953); la guerra illegale contro l’Egitto (1956); la guerra illegale contro Cuba (1961): dopo la rivoluzione nei Caraibi – scrive Ganser – “alcuni aerei statunitensi sganciarono su Cuba le prime bombe incendiarie che appiccarono il fuoco ai campi di canna da zucchero e alle fabbriche annesse. Si trattava di un’azione illegale, ma questo non importava alla Cia” (pp.128-129). Interessanti le pagine sull’operazione “Mangusta”, che sabota l’economia di Cuba (pp. 163-168), e quelle sull’embargo economico degli Usa che viene condannato dall’Onu. 

Vietnam, Cuba, Iraq, Libia: l’elenco delle guerre illegali è lungo

Tre anni dopo Cuba, ecco la guerra illegale contro il Vietnam (1964), con la menzogna sul golfo del Tonchino e la manipolazione dei media: “Chi leggeva The New York Times non aveva la minima idea che gli articoli avevano origine sulle scrivanie della Cia” (scrive Ganser p. 222). Già negli anni Sessanta si capì – dice l’autore – che “gli Stati Uniti avviavano guerre illegali per ampliare il predominio dell’impero americano”. Come ricorda il professore svizzero non avevano nessun avvallo dell’Onu anche la guerra illegale contro il Nicaragua (1981); la guerra illegale contro la Serbia (1999); la guerra illegale contro l’Iraq (2003): l’autore analizza la prima guerra del Golfo (1980) e la seconda (1990), fino all’aggressione di Bush e Blair del 2003 (di nuovo senza mandato dell’Onu), giustificata con la lotta alle armi di distruzione di massa (atomiche, chimiche, batteriologiche), che si rivelerà una menzogna (pp. 350-364); la guerra illegale contro la Libia (2011), guerra imperialista, col tragico bombardamento del 19 maggio e l’ipocrita dottrina della “responsabilità di proteggere”. 

75 anni di pace, sì, ma a che costo?

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I “ribelli” della Lega contro Salvini dicono quello che pensano tutti

La rivolta nella Lega contro Salvini continua. Gli ex parlamentari ribelli della Lega che inveiscono contro Matteo Salvini dicono quello che nella Lega pensano tutti anche se non hanno (per ora) il coraggio di ammetterlo pubblicamente. Ieri una ventina tra ex e attuali parlamentari, dirigenti e amministratori locali della Lega hanno scritto una lettera aperta al segretario del partito, il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Matteo Salvini, in cui hanno espresso una serie di critiche e preoccupazioni sulla linea da tenere in vista delle elezioni europee. 

Una lettera aperta di parlamentari, dirigenti e amministratori della Lega contesta la linea politica di Salvini

I firmatari contestano la collocazione europea della Lega nel gruppo Identità e Democrazia che riunisce i partiti sovranisti e xenofobi dell’Unione. “Ti chiediamo – scrivono i firmatari dell’appello –  inoltre dove sia finita, caro segretario, la tradizionale e giusta distanza che abbiamo sempre mantenuto da tutti gli opposti estremismi», si legge nella lettera. «La scelta per alcuni aspetti anche condivisibile, di non aderire ad una delle grandi famiglie politiche europee non può comunque portare la Lega a condividere un cammino con partiti e movimenti che NULLA HANNO A CHE FARE con la nostra storia culturale e politica. Ci e ti chiediamo: perché abbiamo smesso di dialogare con forze autonomiste e federaliste, per accordarci con chi non ha la nostra naturale repulsione nei confronti di fasci e svastiche?”  

I leghisti firmatari contestano la condivisione di posizioni di Salvini con “fasci e svastiche”

Tra le contestazioni anche le possibili candidature per la prossima tornata elettorale a Bruxelles. “Siamo convinti che, se le indiscrezioni sulla candidatura nelle nostre liste di personaggi con forte marcatura nazionalista, totalmente estranei al nostro movimento, fossero veritiere renderebbero ancor più difficile il perseguimento degli obiettivi storici del partito”, si legge nella lettera. Il riferimento nemmeno troppo velato è soprattutto all’ipotesi di candidatura del generale Roberto Vannacci, considerato all’interno della Lega come troppo estremista nelle sue posizioni sfacciatamente razziste e omofobe. 

Nel mirino della contestazione anche la possibile candidatura del generale Vannacci

Dal quartier generale della Lega minimizzano parlando di “qualche ex risentito”. Il ministro Salvini intervistato ieri da Francesca Fagnani nella trasmissione “Belve” ha preso le distanze da Vannacci dicendo di stimarlo “come persona”. “Ne condivido una buona parte di idee, non tutte”, ha detto il leader della Lega specificando di condividere “le sue battaglie sulla libertà di pensiero” ma di essere per la libertà di “essere omosessuale, eterosessuale, transessuale, bisessuale, polisessuale. L’ultima delle mie intenzioni è entrare nella vita privata di qualcuno”, ha spiegato. 

Salvini minimizza ma sa che le critiche sono condivise nel partito e nella base

L’insofferenza dei sottoscrittori dell’appello però è la stessa che affligge gran parte dei parlamentari leghisti, dei dirigenti e della base. Bollare la protesta come il gesto di una rumorosa minoranza può funzionare sul breve termine per sopire la polemica sui giornali ma non risolve l’insofferenza generale nei confronti del segretario. Salvini può tranquillamente appuntarsi le critiche e tenerle da parte: saranno le stesse che gli muoveranno quasi tutti all’interno del suo partito appena perderà la guida del carro del vincitore. 

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Sfiducia Salvini-Santanchè. Lega e FdI salveranno ognuno il ministro dell’altro

Le due mozioni di sfiducia che oggi si votano alla Camera nei confronti della ministra al Turismo Daniela Santanchè e del ministro alle Infrastrutture nonché vice presidente del Consiglio nonché leader della Lega Matteo Salvini dicono chiaramente una cosa: nessuno dei due si fida dell’altro. Stamattina a Montecitorio si inizia con la discussione generale sulla ministra di Fratelli d’Italia indagata per truffa allo stato per aver usufruito da imprenditrice, con la sua società Visibilia, della Cassa Covid.

La ministra Santanchè sotto accusa per avere i soldi della Cassa Covid nella sua società Visibilia

Lei continua a ostentare sfrontata sicumera, dopo avere trascorso le feste pasquali con un passaggio al Twiga (di cui formalmente non è più socia) con il fidato amico presidente del Senato Ignazio La Russa. Santanchè sa bene che non sarà certo il Parlamento a decidere le sue sorti politiche. L’amica Meloni le ha promesso protezione politica almeno fino alla decisione del gup. “Ma se le cose dovessero andare male?”, è la domanda che circola tra i parlamentari. La soluzione è già pronta: se le vicende giudiziarie dovessero peggiorare sarà la stessa Santanchè a fare un passo indietro “per senso di responsabilità” con la solita manfrina dei ministri indagati (se non addirittura condannati) che ci fanno il piacere di farsi da parte. Certo fa sorridere che la stessa Santanchè che negli ultimi anni ha chiesto le dimissioni di Lamorgese, Speranza, Conte, Morra, Tridico, Di Stefano, Bonafede, Terzi, Boschi, Provenzano, Di Maio, Azzolina, Borghetti, Pessina, Fioramonti, Fini ora invochi il garantismo. A proposito di garantismo: alla fine il partito di Calenda, Azione, potrebbe decidere di non votare la sfiducia contro la ministra su indicazione del proprio responsabile alla giustizia Costa che invita il suo leader a “distinguersi”. Ognuno del resto si fa notare come può. 

Il leader della Lega Matteo Salvini sotto pressione per i suoi rapporti con la Russia di Putin

Salvini è accusato dalle opposizioni (Calenda in testa, a proposito di garantismo a corrente alternata) di non aver ancora rescisso il cordone con Mosca – e di non aver formalmente disdetto la collaborazione con Russia unita, il partito di Putin – dopo le dichiarazioni del leader della Lega all’indomani della scontata rielezione del presidente russo. Ieri in una nota la Lega ha precisato che “come già ribadito, i propositi di collaborazione puramente politica del 2017 tra la Lega e Russia Unita non hanno più valore dopo l’invasione dell’Ucraina. Di più. Anche negli anni precedenti non c’erano state iniziative comuni” e che “la linea della Lega è confermata dai voti in Parlamento: dispiace che l’Aula debba perdere tempo per polemiche inutili e strumentali innescate dall’opposizione”.

L’esito della mozione appare scontato ma si è deciso di calendarizzarla nello stesso giorno di Santanchè per evitare sgambetti di qualsiasi tipo. I deputati precettati da Meloni per salvare la ministra si sommano ai deputati precettati per salvare il ministro. Fratelli d’Italia e Lega per diversi motivi avranno il controllo ferreo delle presenza in Aula e delle votazioni. In un momento in cui l’asse Salvini-Le Pen sta sabotando in tutti i modi Meloni-von der Leyen per le prossime elezioni europee mentre in Italia il leader della Lega viene svuotato ogni giorno dalla leadership della presidente del Consiglio. L’armistizio è fragile. In questi giorni nessuno si è sbilanciato sul ministro dell’altro. Fratelli d’Italia è imbarazzata dalla vicinanza di Salvini a Putin e la Lega fatica a tenere buoni i suoi elettori sulla vacanziera Santanchè che fallisce e mente al Parlamento. Per ora il disagio è considerato pari. Per ora. 

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