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Nel Pd divampa la guerra sulle candidature Ue

Il guastatore silenzioso è l’ex ministro Lorenzo Guerini, uomo di punta della corrente interna che non ama e non è amata dalla segretaria del Pd Elly Schlein. Base riformista ha già messo nel mirino i candidati che la segretaria dem vuole presentare alle prossime elezioni europee tra meno di due mesi. “Sono deboli sulla questione Ucraina e Medio Oriente”, riflettono quelli dell’opposizione interna.

Base riformista ha già messo nel mirino i candidati che la segretaria del Pd vuole presentare alle prossime europee

Il passo successivo è facilmente immaginabile: per indebolire le persone scelte da Schlein basterà chiedere loro come vedono l’invio di armi a Kiev e cosa ne pensano dei fatti di Gaza. I “pacifisti” sono obiettivi fin troppo facili di questi tempi e che l’ex direttore di Avvenire Marco Tarquinio sia contrario all’invio di armi è risaputo, così come è intuibile che Cecilia Strada, figlia del fondatore di Emergency, sia contraria a ogni forma di conflitto bellico. Per questo i bonacciniani hanno intenzione di presentarsi di fronte a Schlein e chiedere senza mezzi termini come si possa pensare di mettere dei capilista per le Europee che non rispecchiano le posizioni del partito in campo nazionale e internazionale.

Eppure nello scacchiere pensato dalla segreteria dem dovrebbero essere proprio Tarquinio e Strada, insieme alla scrittrice Chiara Valerio e alla giornalista Lucia Annunziata, che non hanno ancora sciolto la riserva, i simboli dell’apertura del partito che Schlein ha promesso fin dalla vittoria per la segreteria su Stefano Bonaccini. Anche il presidente dell’Emilia-Romagna è una casella da sistemare senza provocare troppe rotture: sarà candidato nel collegio del nord est ma lì la capolista dovrebbe essere l’ingegnera e ecologista Annalisa Corrado. Se davvero Schlein – che ieri ha annunciato la candidatura del sindaco di Bari, Antonio Decaro – deciderà di candidarsi in seconda posizione in tutti i collegi elettorali, Bonaccini scivolerebbe addirittura in terza posizione. “È rispettoso retrocedere nelle liste il presidente del partito?”, riflettono i dirigenti dem.

La segretaria dem ha lanciato pure la corsa Ue del sindaco Decaro ma non ha deciso cosa farà lei

Ma Schlein si candida La domanda è sempre più insistente negli ultimi giorni. La segretaria sa bene che il traino del proprio cognome sulle liste è un capitale elettorale che non si può permettere di non usare. Al Nazareno si attende di capire anche cosa farà la presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Una sfida con la presidente del Consiglio sarebbe vista di buon occhio dalla segretaria che avrebbe occasione di riproporre il dualismo di questi ultimi mesi, apparendo sempre di più l’avversaria diretta della leader di Fratelli d’Italia. Se la Meloni candidata dovesse essere invece Arianna il quadro cambierebbe: perdere contro la sorella minore sarebbe uno smacco difficile da assorbire, ancora di più con il quasi alleato Giuseppe Conte che sta alla finestra aspettando il momento giusto per allargare la sfida tra le due donne a una sfida almeno a tre, inserendosi nella lunga corsa per la leadership delle prossime elezioni politiche. Sugli altri nomi le trattative fremono.

Per il Nord i dem potrebbero schierare Maran, Fiano e Pizzul

Per il nord il Pd potrebbe schierare oltre agli uscenti anche l’assessore comunale Pierfrancesco Maran, l’ex parlamentare Emanuele Fiano e l’ex capogruppo al Consiglio regionale della Lombardia Fabio Pizzul. Lunedì sera nella direzione regionale del partito in Valle d’Aosta è stato votata la candidatura di Fulvio Centoz, ex sindaco di Aosta. Su Torino si spinge per Salizzoni, ex direttore del centro trapianti di fegato dell’ospedale Molinette e consigliere regionale uscente del Pd. Ha detto no l’ex ministro Andrea Orlando. Al collegio centro c’è un intasamento da sciogliere, tra Tarquinio, Zingaretti, forse Annunziata, il deputato Alessandro Zan, l’europarlamentare uscente Pietro Bartolo e chi non vuole rischiare di essere impallinato al sud dalla coppia De Luca-Emiliano. Il rischio è sempre o stesso, che i nomi scelti da Schlein finiscano per essere testimonianza in un partito sempre troppo uguale a se stesso.

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Antisemitismo come se piovesse: il caso Zuckermann

Sul magazine tedesco Overton si racconta l’aria che tira intorno a Moshe Zuckermann, professore emerito di storia e filosofia dell’università di Tel Aviv, firmatario della Dichiarazione di Gerusalemme sull’antisemitismo nata in risposta alla definizione adottata nel 2016 dall’Ihra che include undici «esempi» di antisemitismo, sette dei quali incentrati sullo Stato di Israele, generando – secondo i firmatari della dichiarazione – confusione e controversie e indebolendo perciò la stessa lotta contro l’antisemitismo.

Zuckermann, che è uno dei maggiori studiosi di ebraismo e Shoah al mondo, è stato invitato dal Consiglio per la pace di Heilbronn a un evento che avrebbe dovuto svolgersi martedì 12 marzo. Era prevista una conferenza seguita da una discussione, che avrebbe dovuto includere una spiegazione della situazione attuale in Israele/Palestina, un’analisi della storia del conflitto e una discussione sulle prospettive future e sulle possibili soluzioni. L’iniziativa avrebbe dovuto tenersi presso la sede della locale Università popolare. 

La Deutsch-Israelische Gesellschaft (Dig) ha condannato l’iniziativa affermando che l’oratore sarebbe un sostenitore del movimento Bds (Boicottaggio disinvestimento e sanzioni). Poi, l’Università popolare come «misura precauzionale» ha ritirato la compartecipazione e ritenuto addirittura necessario rivolgersi al ministero degli Interni. Inevitabile scatta la risposta con l’accusa bisbigliata del consigliere personale del Commissario del governo federale per la vita ebraica in Germania e la Lotta all’antisemitismo: «Zuckermann è effettivamente molto controverso a causa delle sue posizioni su Israele». 

La risposta di Zuckermann è da leggere con attenzione: “Quindi ora posso vantarmi di essere stato ufficialmente dichiarato antisemita dal governo federale tedesco. – scrive il professore – Si potrebbe semplicemente respingere questa affermazione: cosa capisce il governo federale tedesco, compreso il suo “commissario per l’antisemitismo”, riguardo all’antisemitismo? Ma poi il verdetto resta sospeso: l’istituzione dominante tedesca ha ritenuto l’ebreo Moshe Zuckermann un antisemita. Non che io possa farci qualcosa, ma penso comunque che alcune cose da chiarire o chiarire siano opportune. Quindi ecco alcune note sulla farsa”. Zuckermann scrive: “sono le mie posizioni su Israele , non sugli ebrei o sull’ebraismo, a rendermi controverso tra gli amici di Israele. Ora sono cittadino israeliano e, come ogni cittadino responsabile, ho non solo il diritto ma anche il dovere civico di prendere posizione nei confronti dello Stato in cui vivo. Se necessario, ciò include posizioni critiche che potrebbero non essere accettabili per il Dig o il commissario per l’antisemitismo”. 

Infine: “Di conseguenza, – scrive il professore emerito – ne consegue che l’antisemitismo, l’antisionismo e la critica a Israele devono essere tenuti separati. Ricorda che non tutti gli ebrei sono sionisti, non tutti i sionisti sono israeliani e non tutti gli israeliani sono ebrei. Ma coloro che usano tale diffamazione polemica (come fa Leonard Kaminski) evidentemente non pensano nemmeno che si possa essere antisionisti senza antisemitismo e critici nei confronti di Israele senza antisionismo; sì, si può anche essere sostenitori di Israele e del sionismo, ma allo stesso tempo essere antisemiti. Diventa particolarmente grave – secondo Zuckermann – quando, in questo contesto, i non ebrei accusano gli ebrei di antisemitismo, e alcuni ebrei non hanno altra scelta che ricorrere alla perfidia di accusare gli ebrei critici nei confronti di Israele (anche gli ebrei israeliani) di “odio ebraico verso se stessi”. .” A proposito, questa è una tattica ben nota dell’Hasbara israeliano”. 

Buon mercoledì. 

 

Fra i libri di Zuckermann Faith no more, Living the secular life

Qui una conferenza di Zuckermann sul’etica senza religione

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Draghi per von der Leyen. Altra capriola di Giorgia

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha perso la pazienza nei confronti del suo ministro e vice premier Matteo Salvini. Fonti ben informate dicono che di pazienza con i suoi alleati ne abbia avuto poca fin dall’inizio, iconico il suo “non sono ricattabile” nei confronti di Silvio Berlusconi, ma le elezioni europee alle porte hanno alzato la temperatura del conflitto.

Meloni sta meditando l’abbandono di Ursula von der Leyen come candidata presidente di Commissione per virare su Mario Draghi

La situazione è quella degli ultimi mesi. Salvini annaspa in cerca di voti richiudendosi nella destra sovranista europea a braccetto con Le Pen e il resto della squinternata combriccola. Meloni non vuole e soprattutto non può poiché la versione che ci è arrivata a casa dopo la nomina a Palazzo Chigi è molto diversa da quella pubblicizzata in campagna elettorale: la presidente del Consiglio ha bisogno di smussare le idee per questioni di credibilità come capita a coloro che non credono alle idee incredibili che sciorinano in campagna elettorale.

Peccato che in questo momento storico nell’Occidente non essere complottisti in certi ambienti significhi essere comunisti e così a Meloni non resta che rivendicare di “non avere mai governato con la sinistra” a differenza del leader della Lega che si accomodò nel governo Draghi. Qui viene il bello.

Per fare fuori Salvini Giorgia Meloni sta considerando un rimpasto per rimpicciolire il peso della Lega nel governo e soprattutto l’abbandono di Ursula von der Leyen come candidata presidente di Commissione per virare su Mario Draghi, sostenuto in primis da Macron. Potrebbe accadere quindi che per prendere le distanze dall’alleato Salvini la premier pratichi le stesse alleanze che imputa al segretario della Lega. A proposito di coerenza.

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Snaporaz su i Mangiafemmine

Nell’immaginario paese di DF, l’onda dei femminicidi si sta alzando a livelli di guardia. Le polemiche rischiano di travolgere il candidato al governo Valerio Corti, politico di estrema destra indifferente alla questione, mascherato da padre di famiglia centrista e guidato dal “buon senso. Di comune accordo col suo spin doctor Marco Fumagalli decide di ritirare la candidatura: al suo posto, una donna-parafulmine, Marzia Rizzo. Dopo aver vinto le elezioni sarà lei, manovrata dal partito di Corti, ad affrontare il problema con una modesta proposta di legge “per la regolamentazione temporanea dell’attività venatoria speciale/straordinaria del femminicidio”: in base al decreto, l’uccisione delle donne viene regolata secondo precise norme igienico-sanitarie e con obiettivi di riequilibrio numerico e sostenibilità. Fra qualche mugugno di un’opposizione spompata e la protesta di un paio di voci della stampa, la caccia, nel rispetto di tutti, può avere inizio.

I mangiafemmine di Giulio Cavalli (uscito per Fandango nel 2023) appartiene a una tradizione premoderna e quasi completamente perduta: la satira letteraria 

I mangiafemmine di Giulio Cavalli (uscito per Fandango nel 2023) appartiene a una tradizione premoderna e quasi completamente perduta: la satira letteraria. A quel genere riporta anzitutto un principio di trasparenza, che non maschera nomi, luoghi e fatti per renderli universali, ma insegue l’attacco frontale: Valerio Corti, con eleganza, buon senso e un dichiarato sorriso, occhieggia platealmente a Matteo Salvini (si provi a leggere con la sua voce questo stralcio di messaggio di Corti alle associazioni femministe: «A quelle donne non dico niente perché non ho niente da dire. Gli posso solo inviare il mio augurio, con il sorriso, di trovare cose più interessanti in cui affaccendarsi. Altri motivi per cui sudare»); lo spin doctor Marco Fumagalli, sessualmente irrisolto, ostaggio di una madre iperprotettiva e ricattatoria e quindi, per reazione, artefice di una campagna d’immagine ultra-aggressiva, corrisponde all’ormai eclissato Luca Morisi; e basta fare mente locale per capire a chi Cavalli alluda raccontando l’ascesa eterodiretta di una donna “moderata” al governo, per spazzare via sospetti di maschilismo con una mano e con l’altra offrire una politica ancora più repressiva e indifferente alle questioni di genere. 

Pacifista e complottista. Autogol di Santoro sulla candidatura di Nicolai Lilin

L’attentato a Mosca Per lo scrittore Nicolai Lilin si trattava di “un’operazione d’assalto urgente, non preparata e non pianificata, per cui loro hanno deciso di entrare subito perché non c’era tempo da perdere”. Lo scrittore riconosce che “le ambasciate statunitense e britannica l’otto marzo hanno condiviso un avvertimento ai loro cittadini che si trovavano in Russia, dicendo di non frequentare luoghi pubblici per probabile pericolo di terrorismo” quindi per lui c’è di mezzo un “probabile coinvolgimento della Cia, di oligarchia anglosassone e per questo attentato terroristico si dice che è molto probabile che dietro ci siano le solite forze che cercano di mettere in difficoltà la Russia”.

Lo scrittore italo-russo Nicolai Lilin la spara grossa sull’attentato a Mosca. Sente puzza della Cia nella strage di Mosca

In un’epoca difficile in cui la propaganda sostituisce la verità sia da un parte che dall’altra dopo l’attentato alla Crocus City Hall nella periferia di Mosca il 22 marzo anche in Italia si fanno largo coloro che posseggono la risposta prima ancora che siano chiare le domande. C’è Amedeo Avondet, 23 anni, leader del movimento politico Italia Unita e considerato tra le principali voci della propaganda russa in Italia che nel giro di pochi minuti ci fa sapere che “tutte le piste portano a Kiev”. Prove? Nessuna. Così bellicisti e pro Putin si sfidano a colpi di propaganda, come se la guerra sulla pelle delle persone fosse solo un palcoscenico in cui ritagliarsi la propria tifoseria.

Nicolai Lili, russo naturalizzato italiano, pubblica sul suo canale Telegram un video manipolato nel quale il segretario del Consiglio di sicurezza e difesa nazionale dell’Ucraina ammette il coinvolgimento di Kiev nell’attacco terroristico al Crocus City Hall. Solo che il video, diffuso inizialmente via Telegram dal programma russo 60 Minut e dalla conduttrice Olga Skabeeva, risulta essere stato creato ad arte grazie ad alcune clip messe insieme e a un deepfake generato con l’Intelligenza Artificiale.

Oleksiy Danilov, il segretario del Consiglio di sicurezza e difesa nazionale dell’Ucraina, non ha infatti mai rilasciato una intervista o dichiarazione parlando del coinvolgimento del suo Paese nella sparatoria del 22 marzo. È sempre Lilin a rilanciare la bufala russa secondo cui uno dei terroristi sarebbe Rustam Azhiyev, cittadino ucraino che ha combattuto nelle Forze Armate dell’Ucraina. Peccato che i sospettati, di nazionalità tagika – Dalerdzhon Mirzoyev, Saidakrami Murodali Rachabalizoda, Shamsidin Fariduni e Muhammadsobir Fayzov, li abbiamo potuti vedere in viso in tribunale. Falso anche questo.

Di errori Lilin ne ha collezionato parecchi

Di errori Nicolai Lilin ne ha collezionato parecchi. Nel 2014 aveva pubblicato un lungo articolo che partiva dalla fotografia di una bandiera ucraina con a fianco una bandiera nazista. In breve tempo si scoprì che quell’immagine era un frame di un film. Sempre nel 2014 lo scrittore era convinto di avere trovato una confessione eccezionale: un pilota ucraino avrebbe dichiarato di avere sparato sul Boeing della Malaysia Airlines abbattuto sull’Ucraina. Solo che la fonte di Lilin era un articolo di un giornale satirico. Nelle ultime settimane Lilin ha scritto molto anche sulla vedova dell’oppositore di Putin, Navalny, lasciando intendere una vedovanza “allegra” sulla linea della propaganda di Putin.

Lo scrittore è candidato alle Europee 2024 nella lista Pace Terra Dignità di Michele Santoro

Lilin però non è solo uno scrittore. Nicolai Lilin, infatti, è candidato alle Europee 2024 nella lista Pace Terra Dignità di Michele Santoro. Forse questo è il danno più grave: prestare il fianco con falsità a chi da tempo si sforza di tratteggiare come macchiettistici coloro che credono nella pace come obiettivo politico. Così Lilin alla fine riesce a essere il migliore alleato di coloro che Santoro vorrebbe (politicamente) combattere.

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La prima mezza verità sull’omicidio di Marielle Franco

Dopo sei anni e dieci giorni sono stati arrestati in Brasile i tre presunti mandanti dell’omicidio di Marielle Franco. Sono Domingos Brazão, consigliere della Corte dei conti dello stato di Rio de Janeiro; suo fratello Chiquinho Brazão, eletto al parlamento federale; e Rivaldo Barbosa, all’epoca capo della Polizia civile di Rio de Janeiro. 

Le vedove di Marielle Franco, Monica Benicio, e di Anderson Gomes, Agatha Arnaus in una nota parla di “un grande giorno dopo 2.202 giorni di attesa”, dicendosi sorprese del coinvolgimento del capo della Polizia Barbosa che poco dopo l’omicidio le aveva ricevute per assicurare giustizia. 

È lo stesso Barbosa che, preoccupato di vedersi sfilare il caso dalla Polizia federale nel caso in cui si fosse intravisto un movente politico, aveva suggerito ai suoi complici di “stare alla larga” durante le indagini. 

La chiave della svolta nelle indagini è stato l’ex poliziotto poliziotto Ronnie Lessa, in carcere dal 2019 come esecutore dell’omicidio, che aveva raccontato ai magistrati dell’avversione dei fratelli Brazão fin dal 2017 nei confronti di Marielle Franco, vissuta come ostacolo alle loro mire immobiliari su San Paolo. 

Esulta, per ora, il figlio dell’ex presidente Bolsonaro, che secondo diverse testimonianze sarebbe stato in collegamento con gli uomini del clan. «Bolsonaro non ha alcuna relazione con il crimine», ha detto ai giornalisti. Le relazioni pericolose però sono scritte nero su bianco e corroborate dalla testimonianza – poi ritirata – del portiere di un condominio. 

Marielle Franco, all’epoca consigliera comunale di Rio de Janeiro, era stata nominata relatrice di una commissione speciale, creata dal consiglio comunale, per monitorare la progressiva militarizzazione della sicurezza e l’impiego di forze di sicurezza federali nella città. 

Buon martedì.  

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Lo Stato non bussa alla porta. Specie a quella dei boss

Che l’ispezione voluta dal ministro all’Interno Matteo Piantedosi al Comune di Bari sia infondata dal punto di vista giuridico e sia utilissima per sferrare un attacco politico per le prossime elezioni europee è cristallino. Dalle parti del governo le mafie sono un tema anche politico solo se possono essere usate come roncole.

Emiliano ha raccontato una scena da prefetto di ferro, con lui che bussa alla porta della famiglia del boss per alzare la voce

Del resto è scomparso il dibattito sulle protezioni di Matteo Messina Denaro, è raro trovare sui giornali le evidenze che escono dalle indagini in corso a Firenze sulle stragi del ‘93 e perfino i bonifici di Silvio Berlusconi a Marcello Dell’Utri vengono derubricati come buon cuore dell’ex presidente di Forza Italia nei confronti di un vecchio amico. La vicinanza e la solidarietà nei confronti del sindaco di Bari Antonio Decaro erano fino a qualche giorno fa un boomerang contro la guerriglia politica del governo. All’opposizione sarebbe bastato sottolineare ciò che dice la legge sugli scioglimenti per mafia smentendo Piantedosi e sottolineare come gli elementi indichino che i mafiosi baresi interloquivano con personaggi della stessa destra di governo.

A rovinare tutto ci ha pensato invece Michele Emiliano, presidente della Regione Puglia nonché ex magistrato incline alla posa da sceriffo. Emiliano ha raccontato una scena da prefetto di ferro, con lui che bussa alla porta della famiglia del boss (che aveva fatto arrestare da pm) per alzare la voce. Vera o no la storiella evidenzia l’idea di un carisma buono contro un carisma cattivo, lì invece dove dovrebbe vigere e vincere la legge. Lo Stato non bussa ai mafiosi. Altrimenti accade che le pulci che difendono coloro che ci hanno trattato improvvisamente abbiano la tosse.

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Puntare all’abitudine all’orrore

Il capo dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (Unrwa) Philippe Lazzarini scrive su X che Israele ha informato le Nazioni Unite che non approverà più i convogli alimentari dell’Unrwa verso il nord di Gaza. “Nonostante la tragedia che si sta consumando sotto i nostri occhi, le autorità israeliane hanno comunicato all’Onu che non approveranno più alcun convoglio alimentari Unrwa verso il nord. Questo è oltraggioso e rende intenzionale ostacolare l’assistenza salvavita durante una carestia provocata dall’uomo“.

Per avere un’idea delle proporzioni del disastro occorre ricordare che sabato il portavoce dell’Unicef James Elder ha affermato che “Mai prima d’ora così tanti bambini di Gaza avevano avuto bisogno di cure mediche. Nel nord della Striscia un bambino su tre sotto i due anni soffre di malnutrizione acuta”. Come spesso si sente ripetere “un cessate il fuoco umanitario immediato offre la migliore possibilità di salvare vite umane, porre fine alla sofferenza e consentire la consegna urgente di aiuti salvavita”, spiega Elder. 

Il direttore generale dell’Organizzazione mondiale per la Sanità Tedros Adhanom Ghebreyesus spiega che “bloccare la consegna del cibo significa negare alle persone la possibilità di sopravvivere. Questa decisione deve essere urgentemente revocata. I livelli di fame sono acuti. Tutti gli sforzi per consegnare il cibo non solo dovrebbero essere consentiti, ma ci dovrebbe essere un’immediata accelerazione”.

Il governo di Israele si è limitato ad accusare di antisemitismo l’Onu perché il segretario Gutierrez ha sottolineato la drammatica situazione dei civili a Gaza. Sembrano ogni giorno le stesse notizia e invece è lo sviluppo di una tragedia che si accumula mentre all’orizzonte si addensa la possibilità di abituarsi all’orrore. Forse il governo israeliano punta proprio a questo poiché ha sempre funzionato negli ultimi decenni. 

Buon lunedì. 

foto:Di Palestinian News & Information Agency (Wafa) in contract with APAimages, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=141020707

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I fascisti che Meloni non riesce a pronunciare

È accaduto ancora. Ottant’anni fa, il 24 marzo del 1944, le truppe nazifasciste hanno ucciso 335 uomini buttando i loro corpi nelle cave di tufo lungo via Ardeatina, come rappresaglia per l’azione del giorno precedente condotta dai partigiani in via Rasella.

La premier Giorgia Meloni non riesce a pronunciare il nome dei responsabili dell’eccidio delle Fosse Ardeatine: i fascisti

Giorgia Meloni in qualità di presidente del Consiglio non può esimersi dal partecipare alla commemorazione ma come è accaduto l’anno scorso proprio non riesce a pronunciare il nome dei responsabili dell’eccidio: i fascisti. Per l’Associazione nazionale partigiani italiani la premier “ancora una volta […] omette e confonde”, dice il presidente dell’Anpi Gianfranco Pagliarulo, perché “non parla della responsabilità dei fascisti italiani, a cominciare dal questore Caruso che fu condannato a morte per aver approntato la lista di 50 persone da sopprimere alle Ardeatine”.

Pagliarulo sottolinea inoltre che Meloni “non dice che le vittime furono in grande maggioranza antifascisti ed ebrei”, definendola “la solita rilettura capziosa della storia che tende sempre a coprire le responsabilità dei fascisti e a negare il valore dell’antifascismo”. Il presidente dell’Anpi la considera “un’altra occasione perduta”. Ora accadrà ancora una volta che qualcuno dirà che no, non sono queste le cose importanti. Finché un giorno ci si accorgerà che le parole generano realtà, così come le omissioni.

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Dilaga il disagio giovanile ma il Bonus psicologo copre un richiedente su 11

Una ragazza accoltella una coetanea all’uscita da scuola a Salò e ricomincia la ridda di analisi, di paternalismi e di dibattiti sul bullismo e sulla violenza. Molto meno spazio nei salotti televisivi trova invece quel 40% di giovani studenti (lo dice uno studio condotto dall’Agenzia Regionale di Sanità della Toscana) che ha manifestato sintomi di disagio psicologico e che ha moltiplicato gli ingressi al pronto soccorso psichiatrico.

Nel frattempo si scopre che su 175 mila domande del Bonus ne saranno soddisfatte solo 20 mila. “È sorprendente come l’opinione pubblica abbia finalmente riconosciuto l’importanza della Psicologia solo dopo l’assalto al “Bonus psicologico”. Con ben 175 mila domande in pochissimi giorni, e solo 20 mila che potrebbero ricevere una risposta, a causa delle limitate risorse finanziarie, siamo di fronte a una situazione critica”.

Bonus psicologo, allarme rosso

L’allarme è stato lanciato ieri da Ivan Iacob, segretario generale nazionale dell’Aupi, il sindacato degli Psicologi italiani che spiega come professionisti sanitari, psicologi, associazioni e neuropsichiatri siano tutti d’accordo: il bisogno di supporto psicologico è diventato cruciale dopo la pandemia.

Per Iacob è evidente che la società soffre, e il bisogno di aiuto è molto più diffuso di quanto inizialmente stimato. Si ipotizzava che potesse superare il 30%, ma le evidenze e proiezioni attuali ci forniscono una crescita ben più significativa. “Sapevamo – dice Iacob – che l’effetto a lungo termine della pandemia sarebbe stato massiccio, generando un aumento delle richieste di assistenza”.

Per il sindacato il “Bonus psicologico” è sicuramente un passo nella giusta direzione ma, come previsto, “ciò che potrebbero sembrare piccoli disagi oggi rischiano di evolversi in veri e propri disturbi senza una risposta sistemica del Sistema Sanitario Nazionale”. Per questo gli psicologi ritengono urgente attivare interventi di prima risposta, come lo psicologo di base, per identificare e trattare le fragilità prima che si trasformino in patologie più serie.

“I servizi psicologici all’interno del Servizio Sanitario sono essenziali per garantire una risposta efficace alle crescenti esigenze della nostra società – ha proseguito il segretario generale Aupi -. Tuttavia, la loro organizzazione attuale potrebbe essere migliorata, costituendo le Strutture di Psicologia, per massimizzare l’utilizzo delle risorse disponibili”.

Per Iacob le strutture di Psicologia all’interno del Servizio Sanitario potrebbero essere riorganizzate per consentire una distribuzione più efficiente delle risorse già presenti che vengono “deturpate da attività non strettamente legate alla Psicologia”, come i contenziosi per divorzi e affidi, che il sistema giudiziario invia al sistema sanitario. Per il sindacato è preoccupante constatare che quasi l’intera attività dei consultori psicologici è sia oberata da queste problematiche, rappresentando oltre il 60% delle attività complessive”.

Prima la prevenzione

“È necessario liberare le risorse dei consultori da queste incombenze – l’auspicio di Iacob – per poterle dedicare alla prevenzione primaria del malessere psicologico, che emerge chiaramente come una priorità dalla grande richiesta di “Bonus psicologico”.Investire oggi nella prevenzione del malessere psicologico garantirà risparmi significativi per il Sistema sanitario in futuro. È un approccio che non solo migliorerà il benessere individuale e sociale, ma contribuirà anche a ottimizzare le risorse pubbliche a lungo termine. “Scegliere la prevenzione è una scelta saggia e responsabile che possiamo fare per il bene di tutti”, dice il segretario Aupi. Ma di questo difficilmente si parlerà nelle prossime ore.

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