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Modena Today su “A casa loro”

Venerdì 29 novembre alle 21 al Teatro Troisi di Nonantola è in programma “A casa loro”, monologo teatrale sull’immigrazione che fa parte del del Festival della Migrazione 2024 Europa-Africa andata e ritorno. Partendo da inchieste, interviste e documentazione delle ONG Internazionali, Giulio Cavalli e Nello Scavo, reporter internazionale di “Avvenire”, raccontano la tratta degli esseri umani che ogni giorno si consuma attraverso l’Africa e il Mediterraneo, fino alle nostre coste. 

“Siamo lieti – commenta l’Assessora Ileana Borsari – di ospitare a Nonantola la IX Edizione del Festival della Migrazione 2024 Europa-Africa  andata e ritorno: le storie e i cammini che rigenerano l’Italia. Il Festival si pone l’obiettivo ambizioso di trasformare la narrazione della migrazione, in  particolare mette in luce il contributo delle comunità migranti all’economia, alla cultura e alla società italiana.  Il Festival non è solo un’occasione di riflessione accademica e istituzionale, ma offre anche appuntamenti di grande impatto. Venerdì 29 novembre  – conclude l’Assessora con deleghe a Servizi sociali, Associazionismo, Pace ed intercultura –  è in programma il primo evento. Attraverso inchieste, interviste e documentazioni raccolte da ONG internazionali, il monologo teatrale “A casa loro” racconta le stori di chi affronta la tratta degli esseri umani, attraverso l’Africa e il Mediterraneo”. 

Un’opera scritta e interpretata da Giulio Cavalli, insieme a Nello Scavo, reporter internazionale di “Avvenire” che ci invita a riflettere sulla migrazione da una prospettiva umana e diretta. Un evento realizzato grazie al contributo della rete di Associazioni presente e impegnata a Nonantola nell’accoglienza e nella promozione dei diritti e della cittadinanza dei migranti.

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Al Teatro Troisi di Nonantola il monologo sull’immigrazione “A casa loro”
https://www.modenatoday.it/eventi/a-casa-loro-troisi-nonantola-29-novembre-2024.html
© ModenaToday

Andrii Chufus, uno straniero morto sul lavoro che non fa rumore – Lettera43

Aveva 32 anni ed era arrivato dall’Ucraina con la madre, in fuga dalle bombe. È stato schiacciato da un mezzo in una cava di Battipaglia. Un nome che si perde nella cronaca locale, derubricato a fatalità. Ma è invece simbolo di un’altra guerra, fatta di sfruttamento, precarietà e vite che valgono poco. Sognava l’Italia, il Paese che alla fine lo ha tradito.

Andrii Chufus, uno straniero morto sul lavoro che non fa rumore

Andrii Chufus non aveva mai visto l’Italia sulle cartoline. Non aveva mai immaginato quei borghi, le strade che si arrampicano tra i vigneti e le piazze. Lui, l’Italia, l’aveva raggiunta come si raggiunge un rifugio di fortuna durante una tempesta: con il cuore in gola e gli occhi bassi, portando con sé solo ciò che poteva contenere uno zaino e i ricordi di un mondo che stava andando in pezzi. E sua madre. Andrii aveva 32 anni e veniva da Nadvirna, una piccola città nell’Ucraina occidentale, una di quelle che raramente finiscono nei notiziari. Non era stata bombardata, ma non servivano le bombe a distruggere la vita che conosceva. Era fuggito dalla guerra come si fugge da un incendio, cercando di lasciarsi alle spalle il fuoco e l’incertezza. La guerra non ha bisogno di colpire direttamente: basta che avveleni l’aria. E Nadvirna, come il resto dell’Ucraina, respira quell’aria da troppo tempo.

Il posto in cava non era certo il sogno di una vita

In Italia Andrii aveva trovato una nuova casa a Eboli, un nome che suona quasi poetico ma che, per lui, era solo un’altra tappa di un viaggio che doveva portarlo lontano dall’inferno. Viveva in un quartiere chiamato Mulinello, assieme a sua madre. Di lei parlava spesso con i colleghi della cava, quelli che lo ricordano come un ragazzo silenzioso, sempre pronto ad aiutare. Era arrivato qui con la speranza di costruire un futuro, non solo per sé, ma anche per chi era rimasto. Il lavoro in cava non era certo il sogno di una vita, ma Andrii lo affrontava con la determinazione di chi sa che ogni fatica è un passo verso qualcosa di meglio. O almeno così credeva.

Andrii Chufus, uno straniero morto sul lavoro che non fa rumore
L’incidente mortale è avvenuto in una cava di Battipaglia (Ansa).

Il referto medico parlava di “schiacciamento del bacino”

Lunedì 25 novembre il suo viaggio si è interrotto brutalmente. Era nel piazzale dell’area prefabbricati vicino alla cava dell’Inca, dove lavorava. Un carrello elevatore semovente, un modello Merlo, si stava muovendo. Andrii era vicino al mezzo, forse troppo vicino. Un attimo, una scivolata, e la ruota del carrello lo ha travolto. L’autista, un uomo di 55 anni, ha provato a fermarsi, ma era troppo tardi. Andrii è stato portato d’urgenza all’ospedale “Santa Maria della Speranza“, ma il suo cuore ha smesso di battere poco dopo il ricovero. Il referto medico parlava di “schiacciamento del bacino”. La realtà, però, era molto più cruda: Andrii era morto di lavoro dopo essere scappato dalle bombe.

Le norme di sicurezza sono state rispettate?

La cava ha ripreso subito il suo ronzio meccanico. La polvere si è alzata di nuovo, coprendo il sangue che aveva segnato il piazzale. Due persone sono state indagate per omicidio colposo: la titolare dell’azienda e l’autista del mezzo. Saranno i tribunali a decidere se ci sono state colpe, se le norme di sicurezza sono state rispettate, se tutto questo poteva essere evitato. Ma Andrii non tornerà. La sua storia, come le altre, rischia di finire dimenticata in qualche faldone, tra perizie e accertamenti tecnici. Perché Andrii era uno di quelli che non fanno rumore.

Andrii Chufus, uno straniero morto sul lavoro che non fa rumore
Andrii Chufus.

Un morto straniero fa ancora meno notizia

Era un migrante, uno di quelli che si alzano prima dell’alba per un lavoro che nessuno vuole, che sorridono quando li chiamano “bravi ragazzi” perché è il massimo che possono aspettarsi. Non era uno di noi. Non ancora, almeno. I morti di lavoro diventano una fatalità, un episodio che si perde nella cronaca locale, tra le pagine che nessuno legge davvero. Un morto di lavoro straniero è ancora più sottovoce. Ma la storia di Andrii è più di una tragedia individuale. È il simbolo di un sistema che consuma vite con la stessa indifferenza con cui un carrello elevatore scarica merce. Andrii era venuto qui per vivere, per costruire qualcosa, e invece è stato schiacciato – letteralmente e simbolicamente – da un meccanismo che non si ferma mai. Non lo sapeva che la cava, come la guerra, non aspetta nessuno.

Fino ad agosto 2024 l’Italia ha registrato 680 decessi sul lavoro

In Ucraina le bombe continuano a cadere. Nadvirna, forse, resterà ancora intatta, ma non è questo il punto. Il punto è che non c’è un luogo sicuro per chi fugge. Le persone come Andrii lasciano una guerra per finire in un’altra: una guerra silenziosa, fatta di sfruttamento, di precarietà, di vite che valgono poco, pochissimo. Andrii non vedrà mai un’Italia che non fosse polvere e fatica. Non saprà mai che il suo sogno era troppo grande per un Paese che, alla fine, lo ha tradito. Fino ad agosto 2024, l’Italia ha registrato 680 decessi sul lavoro, inclusi 173 avvenuti in itinere, segnando un incremento di 23 casi rispetto allo stesso periodo del 2023. Nei primi sette mesi del 2024, le denunce di infortunio sul lavoro con esito mortale presentate all’Inail sono state 577, un aumento del 3,2 per cento rispetto alle 559 registrate nel 2023. Gli stranieri morti sul lavoro quest’anno – sotto i 60 anni – sono il 35 per cento.

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Intercettazioni, il limite di 45 giorni che uccide la verità: ecco perché la riforma taglia le gambe alle indagini

Il 20 novembre 2024, la Commissione Giustizia della Camera ha dato il via alle audizioni sulla proposta di legge che introduce un limite massimo di 45 giorni per le intercettazioni. Un provvedimento che, già approvato al Senato, ha scatenato le critiche di magistrati e operatori del diritto. Il coro è unanime: la norma rischia di agevolare la criminalità e di compromettere indagini complesse e delicate.

Nuovo limite alle intercettazioni, la preoccupazione della magistratura

Giuseppe Santalucia, presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati (Anm), ha espresso forti perplessità: “Un’indagine non è un cronometro. L’efficacia delle intercettazioni si misura non solo sui risultati diretti, ma anche sull’assenza di riscontri, che può orientare l’investigazione”. La limitazione temporale, sostiene Santalucia, potrebbe trasformare uno strumento essenziale in un meccanismo paralizzato dai vincoli burocratici.

Raffaele Cantone, procuratore di Perugia, ha rincarato la dose, definendo la norma “metodologicamente inadeguata”. Secondo lui, le indagini richiedono elasticità e tempi variabili, non scadenze rigide che rischiano di tagliare fuori elementi chiave scoperti a ridosso del limite.

Dello stesso avviso è Vincenza Maccora, presidente aggiunto dei Gip di Milano, che ha denunciato i rischi di lasciare irrisolti reati gravi, come omicidi e violenze sessuali non legati alla criminalità organizzata. “Le intercettazioni non sono solo uno strumento, sono un percorso investigativo indispensabile. Ridurlo a un limite temporale fisso è come spegnere una luce in una stanza ancora da esplorare”. Per questo Maccora ritiene che si “rischia di creare un arretramento nel contrasto all’illegalità e nell’accertamento dei reati, anche per quelli di forte allarme sociale”. Basti pensare a particolari reati come “gli omicidi non legati alla criminalità organizzata, oppure i casi di violenza sessuale: reati che richiedono un accertamento in sede di ricerca della prova, in cui lo strumento dell’intercettazione si rivela molto importante”.

Le eccezioni e i nodi della norma

Il disegno di legge prevede deroghe per reati di mafia e terrorismo, lasciando il limite dei 45 giorni per altre tipologie di reati. Tuttavia, le proroghe saranno possibili solo dimostrando l’assoluta indispensabilità delle operazioni, con motivazioni dettagliate e concrete. Per molti magistrati, questa stretta burocratica equivale a rendere inutilizzabili strumenti decisivi per reati come corruzione, stragi e criminalità economica.

Alfredo Bazoli, senatore del Partito Democratico, ha definito la norma “un atto politico mascherato da riforma”. Secondo Bazoli, imporre un limite temporale così drastico, senza un’analisi approfondita, è un errore che avrà ricadute gravi sull’efficacia delle indagini.

Le difese della maggioranza sulle intercettazioni

La maggioranza respinge le critiche. Pierantonio Zanettin, relatore del disegno di legge, ha spiegato che il limite di 45 giorni nasce per contrastare le proroghe automatiche, imponendo una maggiore responsabilizzazione nell’uso dello strumento. “Non è una norma contro le indagini, ma una norma di buon senso, pensata per garantire trasparenza ed equilibrio”, ha dichiarato.

Eppure, per molti osservatori, questa riforma si inserisce in una strategia più ampia di ridimensionamento degli strumenti investigativi. Roberto Scarpinato, ex procuratore generale di Palermo e ora senatore del Movimento 5 Stelle, ha denunciato il provvedimento come “un attacco alla lotta alla criminalità organizzata, mascherato da riforma tecnica”. Secondo lui, la norma è un favore alle grandi reti di corruzione, che si muovono con tempi e dinamiche incompatibili con i limiti imposti.

Le implicazioni future

Mentre la Camera si prepara a votare, i magistrati lanciano un ultimo allarme. Il rischio, sottolineano, è che questa norma diventi il cavallo di Troia per una revisione complessiva degli strumenti investigativi, rendendo le intercettazioni sempre più inefficaci. “Non è solo una questione tecnica, ma una battaglia culturale. Decidere quanto tempo può avere la verità per emergere è un atto politico che incide sulla giustizia e sulla democrazia”, ha concluso Cantone.

Il destino della riforma è ancora incerto, ma il dibattito ha già mostrato le sue implicazioni più profonde. In un Paese dove la criminalità organizzata è spesso più rapida dello Stato, i magistrati chiedono di essere messi nelle condizioni di correre, non di inciampare. La giustizia, dicono, non può essere un conto alla rovescia.

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Georgia in ostaggio: il governo blocca l’Europa e spalanca le porte a Mosca

La Georgia è diventata, negli ultimi giorni, l’epicentro di una battaglia politica che riflette tensioni ben più ampie: da una parte il sogno europeo, dall’altra un governo che sembra voler avvicinare il paese a Mosca. Il 20 novembre 2024, il governo georgiano ha annunciato la sospensione dei negoziati per l’adesione all’Unione europea fino al 2028, una mossa che ha scatenato proteste di massa a Tbilisi e un’ondata di critiche sia interne che internazionali.

In Georgia un governo che si chiude

Il primo ministro Irakli Kobakhidze, espressione del partito al governo Georgian Dream, ha giustificato la decisione accusando Bruxelles di “ricatti e manipolazioni”. La mossa, tuttavia, appare come una scelta strategica che isola ulteriormente la Georgia dai suoi alleati occidentali. A risentirne non è solo l’immagine internazionale del paese, ma anche la sua stessa stabilità politica. “È un colpo di stato contro la volontà popolare”, ha dichiarato il presidente Salome Zourabichvili, in aperto dissenso con il governo.

Le reazioni non si sono fatte attendere. Migliaia di cittadini sono scesi in piazza a Tbilisi, esprimendo il loro malcontento. La richiesta è chiara: rientrare nei binari dell’integrazione europea. Gli scontri con la polizia hanno portato a decine di arresti e feriti, mostrando un clima di tensione crescente.

Elezioni contestate e l’ombra di Mosca

Il terreno era già fertile per le polemiche. Le recenti elezioni parlamentari sono state segnate da accuse di brogli e interferenze russe. Una combinazione letale per un paese che ha già subito l’occupazione di parte del proprio territorio da parte di Mosca. Il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione che condanna le irregolarità, chiedendo nuove elezioni sotto supervisione internazionale, ma il governo georgiano ha respinto ogni accusa.

Dietro questa chiusura, secondo molti analisti, c’è il peso crescente della Russia. Le leggi approvate negli ultimi mesi, che limitano la libertà di stampa e l’attività delle ONG, sembrano una copia delle normative russe. La nomina di Mikheil Kavelashvili, ex calciatore e figura apertamente anti-occidentale, come prossimo presidente della Georgia non fa che confermare questa direzione.

La frattura interna

Il contrasto tra governo e popolazione si allarga. Secondo i sondaggi, oltre il 75% dei georgiani sostiene l’adesione all’Unione europea, vedendola come una via d’uscita dalle pressioni russe e una garanzia per lo sviluppo democratico del paese. Tuttavia, il governo sembra aver scelto una traiettoria diversa, alimentando le tensioni interne.

Le proteste, guidate da movimenti civici e partiti d’opposizione, chiedono trasparenza e nuove elezioni. Ma Georgian Dream, forte del controllo istituzionale, non sembra intenzionato a cedere. “Il popolo georgiano non può essere ignorato per sempre”, ha dichiarato un leader dell’opposizione durante le manifestazioni a Tbilisi.

Uno scontro che va oltre la Georgia

Questa crisi non riguarda solo il destino del paese. Per l’Unione europea, il caso georgiano rappresenta una sfida più ampia: come mantenere la credibilità nel sostenere le aspirazioni democratiche dei paesi ai confini dell’Europa Bruxelles, già criticata per la gestione dell’allargamento ai Balcani, rischia di perdere un altro tassello strategico. Intanto, la Russia osserva e sfrutta il caos. Le tensioni interne e l’isolamento internazionale della Georgia giocano a favore del Cremlino, che da anni cerca di riportare il paese sotto la propria sfera d’influenza.

Il bivio della Georgia

Il futuro della Georgia è incerto. Da una parte, un popolo che guarda a ovest, chiedendo trasparenza e diritti. Dall’altra, un governo che sembra sordo a queste richieste e sempre più vicino a Mosca. La questione non è solo geopolitica: è una lotta per l’anima democratica del paese. Mentre le proteste continuano, una cosa è chiara: la Georgia è al bivio. La sua scelta definirà non solo il suo destino, ma anche quello di una regione dove democrazia e autoritarismo si scontrano senza esclusione di colpi.

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Da rivolta sociale a politica

Le piazze ieri erano piene, non solo di lavoratori e lavoratrici, ma di una rabbia che ha smesso di essere sussurro. Lo sciopero generale non è una giornata qualsiasi: è la dimostrazione che il popolo non è disposto ad accettare in silenzio tagli alla sanità, precarietà strutturale e salari indegni. Il governo Meloni, arroccato nella sua fortezza, risponde con il solito repertorio di propaganda e precettazioni, incapace di ascoltare il grido del Paese reale.  

Landini parla di rivoltare il Paese come un guanto, e ha ragione. Ma non basta. La rivolta sociale deve diventare politica, perché se non coagula in azione rischia di restare solo sfogo. Ieri le opposizioni c’erano, è vero, e fanno bene a schierarsi al fianco delle piazze: il sostegno al diritto di sciopero è un atto necessario per difendere la Costituzione stessa. Ma è il momento di andare oltre.

La protesta non può restare confinata nelle strade. Deve farsi progetto, deve diventare una visione alternativa che rimetta al centro il lavoro, la giustizia sociale, la dignità di un futuro. Il governo scommette sulla stanchezza, sulla frammentazione, sulla rassegnazione. Non dargliela vinta.  

Le piazze di ieri ci dicono che c’è un Paese pronto a cambiare. Sta alla politica il compito di trasformare questa energia in una nuova stagione di diritti e conquiste. Altrimenti, il guanto resterà vuoto. E alla politica non resterà che presidiare le urne sempre più vuote. 

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Concorso annullato in corsa, un pasticcio firmato Lollobrigida

Alla Fiera di Roma migliaia di candidati si presentano per le prove del concorso indetto dal Ministero dell’Agricoltura. È l’occasione per 347 posti pubblici tanto sbandierati dal ministro Francesco Lollobrigida. Studiano, viaggiano, spendono, poi si siedono davanti a un computer per dimostrare di essere i migliori. Ma mentre i tasti ticchettano, fuori arriva la sentenza del Consiglio di Stato: il concorso è annullato (insieme ad uno simile alla Difesa). Tutto da rifare.

Il motivo è semplice e imbarazzante: quando il Masaf ha pubblicato il bando, le graduatorie di un concorso del 2020 erano ancora valide. La legge dice che prima di indire nuove selezioni bisogna esaurire quelle esistenti o spiegare perché non lo si fa. Il Masaf ha preferito ignorare entrambe le opzioni. Così, in una vicenda che sembra uscita da una commedia grottesca, un concorso viene fermato a metà strada, lasciando sul terreno solo delusione e sprechi.

E qui non si tratta solo di un errore procedurale, ma di una questione morale. Organizzare un concorso significa chiedere ai cittadini di fidarsi di un sistema che rispetta le regole e il merito. Qui, invece, l’unica certezza è che qualcuno non ha fatto il proprio dovere. E come sempre, a pagare saranno gli altri: risarcimenti per i candidati, spese pubbliche buttate, credibilità persa.

Mentre il ministro continua a parlare di sovranità alimentare, si dimentica la sovranità della competenza. E allora la domanda resta: quanto vale il tempo, lo studio, la speranza di migliaia di cittadini quando dall’altra parte c’è un governo che inciampa anche sui fondamentali? E soprattutto: quanta pazienza sarà concessa ancora all’ex cognato d’Italia

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I 35 milioni di sfollati africani che l’Europa ignora

In Africa, l’esodo cresce silenziosamente. Sono 35 milioni le persone sfollate all’interno del continente, una cifra che in quindici anni si è triplicata. Secondo l’Internal Displacement Monitoring Centre (IDMC), quasi metà di loro sono state costrette ad abbandonare la propria casa a causa dei disastri climatici, mentre l’altra metà fugge da conflitti sempre più violenti. Dietro ogni cifra, vite sospese, raccolti perduti, villaggi ridotti a macerie.

Disastri climatici e conflitti: le radici della crisi africana

Il Burkina Faso è un caso emblematico: una nazione assediata da jihadisti, mercenari, conflitti interetnici e un regime militare che alterna propaganda e repressione. In soli sei anni, il numero degli sfollati interni è passato da 50.000 a oltre 2 milioni. Un boom esplosivo che rende il paese l’epicentro della crisi di sfollamento più ignorata al mondo. Le immagini dei campi profughi vicino a Ouagadougou ritraggono bambini malnutriti e donne anziane accovacciate accanto a ciò che resta della loro vita. Non c’è spazio per retorica: solo disperazione.

Ma non è tutto. Inondazioni e siccità, amplificate dai cambiamenti climatici, stanno riscrivendo la geografia umana del continente. Il lago Ciad, che nutre milioni di persone, si è ridotto del 90% in pochi decenni. La desertificazione avanza, rosicchiando ettari di terra coltivabile ogni anno. Il rapporto IDMC parla chiaro: nel solo 2023, 4,2 milioni di nuovi sfollati in Africa sono stati causati da eventi climatici estremi. La crisi climatica non è una minaccia futura: qui è il presente, brutale e inarrestabile.

I numeri, per quanto agghiaccianti, non raccontano tutto. I governi africani, spesso alle prese con economie fragili e conflitti interni, faticano a fornire assistenza. L’aiuto internazionale, quando arriva, è tardivo e insufficiente. Nel Burkina Faso, ad esempio, l’UNHCR denuncia una grave carenza di fondi: meno del 30% delle risorse necessarie è stato garantito nel 2024. La mancanza di attenzione mediatica amplifica il problema. In una crisi in cui l’Africa è sia vittima che simbolo globale, l’indifferenza è la ferita più profonda.

Il paradosso si consuma nei salotti occidentali. Gli stessi che alzano muri contro le persone migranti e invocano politiche di chiusura, spesso negano l’esistenza della crisi climatica. La stessa crisi che, dati alla mano, è uno dei motori principali degli spostamenti forzati. Alexandra Bilak, direttrice dell’IDMC, l’ha detto chiaramente: “Queste emergenze sono un campanello d’allarme per il mondo. Eppure, sembrano cadere nel vuoto”.

Non c’è spazio per negazionismi quando il clima si fa violento e gli uomini lo seguono. Non si può ignorare che i 35 milioni di sfollati interni africani siano un prodotto di un sistema globale incapace di affrontare le sue responsabilità. Gli stessi muri eretti in Europa e altrove sono il simbolo di un fallimento globale: bloccare le persone in fuga non risolve il problema, lo trasforma in una catastrofe silenziosa.

Indifferenza globale e muri: il fallimento di fronte all’esodo

La domanda non è se, ma quando l’Africa presenterà il conto. Un conto che sarà salato per chi ha scelto di ignorare le radici del problema, fingendo che basti tenere lontani gli effetti per sottrarsi alle cause. I numeri continuano a crescere, e con loro la vergogna di un mondo che preferisce voltarsi dall’altra parte.

Non servono fantomatici Piani Mattei se non ci si rende conto che il continente è schiacciato dalle pressioni della fame, delle guerre e del cambiamento climatico. Non verrà mai nulla di buono da un visione distorta della crisi climatica e del diritto delle persone di portarsi in salvo. Le migrazioni interne in Africa sono l’antipasto delle persone che per sfuggire al collo dell’imbuto si imbarcheranno verso l’Europa. 

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L’ennesima storia dal Mediterraneo

Le onde del Mediterraneo non smettono mai di restituire storie di orrore. Questa volta, a testimoniare l’inaccettabile è stata la Geo Barents, la nave di ricerca e soccorso di Medici senza frontiere. È successo tutto troppo velocemente: un gommone in difficoltà, uomini armati su una barca veloce, colpi sparati in aria. Risultato? Oltre 70 persone in acqua, 29 donne e bambini portati via con la forza, e 83 uomini e minori non accompagnati lasciati soli, a galleggiare sull’ennesimo crinale tra la vita e la morte.  

Oggi restano gli 83 superstiti, caricati sulla Geo Barents e avvolti dalla disperazione di chi è stato strappato dai propri familiari. Restano, come sempre, i racconti agghiaccianti: minacce con le armi, l’acqua che inghiotte vite, i bambini che spariscono. Resta, soprattutto, l’ipocrisia di un’Unione europea che si proclama custode dei diritti umani mentre sigilla accordi con una Libia trasformata in guardiana armata del nostro egoismo.  

La Geo Barents naviga ora verso Brindisi, ma le famiglie spezzate non arriveranno mai a terra. Loro, quelle donne e quei bambini, sono già finiti nella rete di un sistema che chiamiamo “gestione delle migrazioni”, ma che somiglia sempre più a una guerra condotta senza divise, senza proclami, ma con tutto il cinismo possibile.  

Noi intanto continuiamo a guardare altrove, finché il mare non ce lo sbatte in faccia. Perché, alla fine, è sempre il Mediterraneo che ci restituisce il conto.

Buon venerdì. 

Nella foto: frame video salvataggio Geo Barents

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Un governo in posa permanente

Quindi ora sappiamo che Giorgia Meloni e Sergio Mattarella, mercoledì, hanno pranzato al Quirinale. Il Presidente della Repubblica e la presidente del Consiglio, secondo fonti ufficiali, avrebbero avuto un incontro che viene definito “di routine” per discutere di legge di Bilancio, di Pnrr e del profilo del successore di Raffaele Fitto, nel frattempo volato a Bruxelles. Un pranzo tranquillo, dicono. Sarà.

Mentre i due pranzavano, in Senato Forza Italia votava contro (sul taglio del canone Rai) la maggioranza di cui fa parte, arrivando a una frizione mai vista finora nella compagine di governo. Di sicuro, nonostante le smentite di Palazzo Chigi, il Presidente Mattarella ha avuto nelle ultime settimane il suo bel da fare nel far rimettere nel cassetto emendamenti alla manovra ritenuti inaccettabili (tipo il blitz sul 2 per mille ai partiti). Meloni non ha gradito, perché la nostra presidente del Consiglio ha un’idea tutta sua del governare, un concetto che si avvicina molto al comandare.

Di sicuro ieri il portavoce nazionale di Forza Italia, Raffaele Nevi – non proprio un parvenu – ha definito il suo alleato Matteo Salvini “un paraculetto”. Poi ha provato a smorzare. Sebbene fraintendere il significato dell’aggettivo “paraculetto” sia a dir poco arduo. L’immagine di Meloni che rassicura Mattarella di fronte a una tavola elegantemente apparecchiata, mentre i suoi si tirano i capelli giù in cortile, è la foto del governo: una messa in posa permanente per gli elettori.

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Nuovo corso a Sanremo col sovranismo musicale

Carlo Conti, prossimo direttore artistico di Sanremo ha tirato un sospiro di sollievo. Intervenuto nel podcast Pezzi di Luca Dondoni, Andrea Laffranchi e Paolo Giordano, il presentatore ha detto: “Quello che mi piace, e che è arrivato musicalmente soprattutto dai cantautori, non è più un macro mondo, cioè non vanno a parlare dell’immigrazione o della guerra, ma si ritorna un po’ a parlare del micromondo, della famiglia, dei rapporti personali”. Niente guerra e niente migranti, quindi.

Viva il “micromondo” che tratta delle beghe di cortile e che se ne frega di quello che succede là fuori, dove il “macromondo” confusionario ci costringe a prendere posizioni che rischiano di far piangere il Re. Nel suo intervento Conti ha anche spiegato che nella prossima edizione del festival ci sarà meno impegno sociale ma sarà più “umano”. Cosa ci sia di inumano nell’occuparsi della disperazione e dei conflitti non ci è dato saperlo, forse Conti ce lo potrà spiegare in una delle future conferenze stampa. Non saremo così sospettosi da notare l’incredibile coincidenza di una nuova musica senza temi divisivi proprio nel mentre di un governo che ritiene gli artisti buoni e bravi solo se si fermano al limite dell’avanspettacolo impolitico.

Possiamo però fare notare a Carlo Conti che la musica (come l’arte) che decide di stringere gli orizzonti da raccontare assomigli moltissimo a una nuova era di sovranismo musicale. Abbiamo già la sigla pronta: “E sempre allegri bisogna stare che il nostro piangere fa male al re fa male al ricco e al cardinale diventan tristi se noi piangiam, e sempre allegri bisogna stare che il nostro piangere fa male al re fa male al ricco e al cardinale diventan tristi se noi piangiam!”.

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