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Così gli Usa per 20 anni sono stati il bancomat del terrore in Iraq – Lettera43

Un sistema fraudolento ha permesso che miliardi di dollari finissero nelle tasche di Isis, regime di Assad e milizie sciite filo-iraniane. Le false fatture emesse da banche irachene e i trasferimenti sospetti avrebbero dovuto far scattare mille campanelli d’allarme. Ma con superficialità e cinismo le autorità americane hanno chiuso gli occhi e nutrito il mostro che stavano combattendo.

Così gli Usa per 20 anni sono stati il bancomat del terrore in Iraq

Un sistema fraudolento che per anni ha permesso di dirottare miliardi di dollari dalle casse della Federal Reserve di New York verso le tasche di gruppi terroristici e milizie anti-americane in Iraq. È quanto emerge da una dettagliata inchiesta del consorzio giornalistico Occrp, che getta una luce inquietante sui meccanismi finanziari che alimentano l’instabilità in Medio Oriente. Il meccanismo è tanto semplice quanto redditizio: banche irachene compiacenti presentano false fatture di importazione per ottenere dollari dalla Banca centrale del Paese, che a sua volta li preleva dal conto presso la Fed di New York dove confluiscono i proventi del petrolio iracheno. Soldi che invece di pagare merci inesistenti finiscono sui conti di società di facciata legate a organizzazioni come lo Stato Islamico o le milizie filo-iraniane.

Il bancomat del terrore ha funzionato per 20 anni sotto gli occhi distratti delle autorità Usa

Un vero e proprio bancomat del terrore, che ha funzionato indisturbato per quasi 20 anni sotto gli occhi distratti delle autorità americane. Nonostante già nel 2012 un rapporto al Congresso Usa denunciasse che l’80 per cento dei fondi ottenuti con questo sistema finiva in «transazioni illegali», Washington ha continuato imperterrita a riversare miliardi di dollari nelle casse di Baghdad. Solo nel gennaio scorso, dopo l’attacco di droni che ha ucciso tre soldati americani in Giordania, il Tesoro si è finalmente deciso a sanzionare la banca Al-Huda e il suo proprietario. Peccato che già nel 2015 una commissione parlamentare irachena avesse dettagliatamente documentato come Al-Huda avesse ottenuto fraudolentemente 6,5 miliardi di dollari in soli tre anni. Ma evidentemente per l’amministrazione Usa la stabilità del dinaro iracheno era più importante del finanziamento di gruppi terroristici. O forse, come ammette candidamente l’ex ambasciatore James Jeffrey, «il riciclaggio di denaro non era qualcosa a cui abbiamo prestato particolare attenzione».

Così gli Usa per 20 anni sono stati usati come bancomat del terrore in Iraq
Milizie sciite in Iraq (Getty Images).

Fatture false, trasferimenti sospetti, società di comodo avrebbero dovuto far scattare campanelli d’allarme

L’inchiesta dell’Occrp ricostruisce minuziosamente il funzionamento del sistema, analizzando migliaia di documenti relativi alle richieste di dollari presentate dalle banche irachene. Emerge un quadro sconcertante di frodi sistematiche, con fatture false, società di comodo e trasferimenti sospetti che avrebbero dovuto far scattare mille campanelli d’allarme. Prendiamo il caso della United Bank for Investment (Ubi): in un solo mese, l’aprile del 2012, ha ottenuto 315 milioni di dollari sulla base di richieste che per il 99 per cento mostravano chiari segni di frode. Fatture gonfiate, documenti doganali mancanti, società esportatrici inesistenti. E soprattutto, i soldi non finivano mai ai presunti fornitori, ma venivano dirottati su conti di cambiavalute in Giordania o di misteriose società offshore. Almeno 28 milioni di dollari sono finiti nelle casse di una società che secondo gli Usa gestiva i fondi di Sa’id Ahmad Muhammad al-Jamal, un finanziere iraniano sanzionato per aver fornito «decine di milioni di dollari agli Houthi» dello Yemen. Altri milioni sono andati direttamente nelle tasche del presidente di Uni e di suo fratello.

https://www.occrp.org/en/investigation/iraqs-dollar-auction-the-monster-funneling-billions-to-fraudsters-and-militants-through-the-us-federal-reserve
Dinari iracheni (Getty Images).

Il fiume di denaro ha alimentato gruppi come l’Isis, le milizie filo-iraniane, il regime di Assad

E non si tratta di casi isolati. L’inchiesta documenta lo stesso modus operandi per decine di banche irachene, che hanno drenato miliardi di dollari dal sistema con la complicità delle autorità di Baghdad. Un fiume di denaro che ha alimentato per anni gruppi come l’Isis, le milizie sciite filo-iraniane, il regime siriano di Assad. «Le milizie che ora gestiscono l’Iraq si sono costruite utilizzando i finanziamenti forniti dalle aste in dollari», sintetizza Michael Knights, esperto del Washington Institute. «Gli Stati Uniti sono stati molto lenti nell’agire». Ma perché Washington ha chiuso gli occhi così a lungo?

La priorità per gli Usa era mantenere stabile il dinaro iracheno 

Le spiegazioni fornite dagli ex funzionari Usa intervistati dall’Occrp sono un miscuglio di miopia strategica, superficialità e cinico realismo. C’è chi ammette candidamente che la priorità era mantenere stabile il dinaro iracheno, chi sostiene che l’attenzione era tutta concentrata sulla lotta all’Isis, chi dice che semplicemente non si erano resi conto della portata del problema. Il risultato è che per quasi 20 anni gli Usa hanno di fatto finanziato indirettamente i propri nemici, riversando miliardi di dollari in un sistema che sapevano essere corrotto fino al midollo. Solo ultimamente la Federal Reserve ha iniziato a escludere alcune banche dall’asta del dollaro, ma il meccanismo di base non è mai stato realmente riformato. D’altronde, conclude sarcasticamente Stuart Bowen, ex supervisore dei fondi Usa per la ricostruzione dell’Iraq, «abbiamo creato il mostro e poi abbiamo detto: non è il nostro mostro!». Peccato che quel mostro continui a mietere vittime, anche americane.

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Via della seta europea, le multinazionali ringraziano

L’Europa si veste da Babbo Natale ma i pacchi li consegna solo alle sue grandi aziende. È questa la fotografia che emerge dall’ultimo rapporto di Oxfam sul Global Gateway, la strategia dell’Ue per gli investimenti e lo sviluppo globale. Lanciata nel 2021 come alternativa “democratica e trasparente” alla Via della Seta cinese, il Global Gateway dovrebbe mobilitare fino a 300 miliardi di euro entro il 2027 per progetti di sviluppo nel Sud del mondo. Peccato che dietro la retorica dei “valori europei” si nasconda una realtà ben diversa.

Secondo l’analisi di Oxfam, oltre il 60% dei progetti finanziati dalla via della Seta europea andrà a beneficio di almeno un’azienda europea. Su 40 progetti esaminati, 25 sosterranno colossi del Vecchio Continente come Siemens, Moller Group o Suez. Solo il 16% degli investimenti riguarderà settori chiave per lo sviluppo come sanità, istruzione e ricerca.

Il volto nascosto del Global Gateway: “Profitti privati con fondi pubblici”

Ma non è tutto. Almeno sette aziende che fanno parte del Global Gateway Business Advisory Group – il gruppo di “esperti” istituito dalla Commissione europea – hanno già firmato contratti finanziati con i fondi del programma. Un bel conflitto di interessi, non c’è che dire.

Il quadro che emerge tradisce le regole europee, dato che la principale fonte di finanziamento del Global Gateway è il budget comunitario per gli aiuti allo sviluppo. Fondi che, sulla carta, dovrebbero essere impiegati per “ridurre ed eliminare la povertà nel lungo termine”. Certamente non per ingrassare i bilanci delle multinazionali europee.

“Esiste il rischio concreto che il bilancio degli aiuti dell’Ue venga destinato più alla difesa degli interessi geopolitici ed economici europei, che alla lotta alla povertà e alla promozione dello sviluppo sostenibile”, denuncia Francesco Petrelli di Oxfam Italia. Insomma, il Global Gateway rischia di “alimentare i profitti delle imprese con i soldi dei contribuenti europei”.

Ma non è solo una questione di soldi. Il rapporto evidenzia anche l’opacità della strategia, con una preoccupante mancanza di informazioni su progetti, finanziamenti e valutazioni d’impatto. Difficile stabilire in che misura il Global Gateway contribuisca davvero allo sviluppo sostenibile.

C’è poi il rischio che questa strategia accresca le disuguaglianze in molti Paesi fragili. In Perù, ad esempio, uno dei progetti individuati incoraggia le famiglie più povere a sottoscrivere mutui per l’acquisto di proprietà agricole, con il rischio di indebitarle ulteriormente e spingerle ancora più in povertà.

Non va meglio sul fronte del debito. L’Ue avvierà progetti del Global Gateway in 29 dei 37 Paesi poveri più indebitati del mondo, privilegiando i prestiti rispetto alle sovvenzioni. Una scelta che rischia di ridurre ulteriormente la capacità dei governi di soddisfare i bisogni della popolazione.

Via della seta europea, sviluppo sostenibile o nuova forma di sfruttamento?

Insomma, dietro la retorica dello “sviluppo sostenibile” si nasconde una strategia che sembra più orientata a creare nuovi mercati per le aziende europee che a combattere povertà e disuguaglianze. Una beffa per i contribuenti europei e soprattutto per le popolazioni dei Paesi destinatari degli “aiuti”.

Per questo Oxfam chiede una revisione radicale del Global Gateway, a partire da una maggiore trasparenza e da un vero coinvolgimento dei Paesi partner e della società civile. Serve un cambio di rotta, per trasformare questa strategia in un reale strumento di sviluppo e non in un’autostrada per i profitti delle multinazionali europee.

Ma siamo sicuri che Bruxelles ascolterà? O continuerà a nascondere dietro nobili intenti una politica di stampo neocoloniale? Ai posteri l’ardua sentenza. Nel frattempo, il Sud del mondo aspetta ancora quegli aiuti promessi. Quelli veri, però.

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La grande paralisi dell’Ue: così l’Europa si è autocongelata nel 2024

L’Unione europea è impantanata in una palude di inazione e attesa. Il 2024 si sta rivelando un anno di stagnazione politica, con Bruxelles che sembra aver dimenticato il significato della parola “urgenza”. Mentre il mondo corre e le crisi si moltiplicano, l’Ue si concede il lusso di fermarsi, paralizzata dalle sue stesse procedure e dal timore reverenziale verso le prossime elezioni tedesche.

La macchina burocratica in stallo: un’Ue in attesa

Le elezioni europee hanno consumato la prima metà dell’anno, con la macchina burocratica di Bruxelles che si è praticamente fermata. Ursula von der Leyen, rieletta presidente della Commissione europea, ha impiegato mesi per ottenere l’approvazione del Parlamento. Ora, con un ritardo imbarazzante, si attende che la sua squadra di 26 commissari prenda finalmente posto il 1° dicembre, giusto in tempo per le vacanze natalizie.

Un diplomatico europeo, celato dall’anonimato, a Politico non ha potuto fare a meno di lamentarsi: “Il minimo che avremmo potuto fare era avere una nuova Commissione europea in carica prima delle elezioni americane”. Intanto le sorti dell’Ucraina e il futuro degli aiuti statunitensi pendono dal filo delle elezioni presidenziali USA di novembre.

Mentre l’Ue si perde in bizantinismi il Cremlino annuncia un aumento del 25% della spesa per la difesa nel 2025, portandola a livelli mai visti dal crollo dell’Unione Sovietica. Kiev, nel frattempo, lotta per trovare uomini e munizioni, con una rete elettrica devastata che richiede una ricostruzione urgente prima dell’inverno.

L’ombra di Berlino: come la Germania tiene in scacco l’Ue

Ma il vero colpo di grazia all’efficienza europea potrebbe arrivare dalla Germania. La locomotiva economica del continente si trova politicamente paralizzata in vista delle elezioni del settembre 2025. Decisioni cruciali sul bilancio dell’Ue e su eventuali emissioni di debito comune sono rinviate sine die, in attesa che Berlino si decida.

La proposta per il prossimo bilancio settennale dell’Ue, che dovrebbe coprire il periodo dal 2028 in poi, rischia di essere posticipata fino a dopo le elezioni tedesche. Un ritardo che potrebbe avere ripercussioni su tutto, dall’agricoltura al sostegno all’Ucraina.

“Tutti sono in modalità di attesa e, proprio quando pensi che possiamo iniziare, l’attenzione si sposterà su Berlino”, dicono a Bruxelles. La Germania, con la sua ossessione per il rigore fiscale, tiene in ostaggio l’intera Unione, incapace di prendere decisioni su un bilancio europeo più ampio o sull’emissione di debito comune.

L’Europa paralizzata: c’è pure il nodo migratorio

Sul fronte migratorio, l’Ue continua a dibattersi tra posizioni contrastanti. Mentre la Spagna di Pedro Sánchez si batte per una politica migratoria più aperta, dichiarando che “noi spagnoli siamo figli della migrazione, non saremo i genitori della xenofobia”, il resto d’Europa sembra muoversi nella direzione opposta. I ministri dell’Interno dell’Ue discutono di una nuova direttiva rimpatri più restrittiva e di “hub di rimpatrio” in paesi terzi, una soluzione che la stessa Commissione europea aveva bocciato nel 2018 come giuridicamente impossibile e contraria al principio di non respingimento. Ma i tempi sono cambiati, e con essi le priorità politiche.

In questo scenario di immobilismo c’è chi si chiede cosa potrebbe mai scuotere l’Ue dall’inazione. Secondo Mujtaba Rahman del gruppo Eurasia, solo un’uscita degli Stati Uniti dalla Nato potrebbe galvanizzare l’Europa a cercare un finanziamento comune per la sicurezza e la difesa europee. “La crisi dovrebbe essere esistenziale”, ha affermato Rahman, sottolineando quanto sia alta la soglia per spingere l’Ue all’azione.

Mentre il mondo cambia a velocità vertiginosa l’Unione Europea sembra intrappolata in un limbo di indecisione e timori. Se l’Ue non troverà presto il coraggio di agire, rischia di diventare un attore irrilevante sulla scena mondiale, condannata a reagire tardivamente agli eventi invece di plasmarli.

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Illegittima difesa

È andata male a coloro che confidavano in una veloce immersione della notizia. Non hanno fatto in tempo a placarsi le polemiche e Israele l’ha fatto nuovo. Le basi italiane della missione Unifil nel sud del Libano sono state nuovamente prese di mira dall’esercito israeliano. Secondo qualificate fonti di sicurezza che seguono il dossier e sono in contatto con i vertici della missione dell’Onu, l’attacco è avvenuto alla base 1-31 – già colpita nei giorni scorsi – e sono stati abbattuti due muri di demarcazione della base. A questo si aggiungono due soldati Unifil feriti in due esplosioni. 

Ora che a rischiare la pelle ci sono i nostri soldati il ministro Crosetto e gli uomini di maggioranza hanno deciso di rinnamorarsi del diritto internazionale. L’esercito di Netanyahu fa quello che gi viene benissimo in tempo di guerra: mente. Nelle ultime 48 ore ha detto di avere colpito la base dei caschi blu perché da quelle parti si anniderebbero i terroristi. Poi ha spiegato alla comunità internazionale di avere compiuto un “errore”. Poi ha vivacemente consigliato all’Onu di lasciare il sud del Libano per avere mano libera. 

L’Idf, il braccio armato del premier israeliano Netanyahu, ritiene il diritto internazionale e la salvaguardia delle vite umane una fastidiosa burocrazia che rallenta la loro vendetta travestita da legittima difesa. Così mentre il Medio Oriente è in fiamme anche ai più sfegatati bellicisti viene il dubbio che la guerra sia pericolosa per quelli che la subiscono, più di quelli che la fanno. 

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L’inferno dei bambini nell’orrore di Gaza

Che vorrebbero che facessero? Scomparire. Non c’è altra spiegazione per l’ennesimo ordine di evacuazione nel nord di Gaza. Un ordine che suona come una condanna a morte per migliaia di civili, bambini, neonati, malati. Un ordine che non lascia scampo, che non offre alternative, che non contempla l’umanità. L’Unicef lancia l’ennesimo grido d’allarme ma ormai le parole sembrano aver perso di significato. Parlano di “conseguenze devastanti e inconcepibili”, ma cosa c’è di inconcepibile in una guerra che da mesi massacra l’innocenza

Parlano di “sofferenze, orrori e morte inimmaginabili”, ma cosa c’è di inimmaginabile in un conflitto che ha fatto dell’orrore la sua normalità? I numeri sono impietosi: tre grandi ospedali da evacuare, tra cui l’unico con un’unità pediatrica nel nord. Diciotto bambini in condizioni critiche da spostare. Ma spostare dove? In un sud già sovraffollato, inquinato, privo di risorse. In un luogo che di sicuro ha solo il nome, perché la morte non fa distinzioni geografiche a Gaza. E poi ci sono loro, i più vulnerabili tra i vulnerabili: i bambini con disabilità, quelli con condizioni mediche gravi. Per loro, l’ordine di evacuazione è una sentenza senza appello. Spostarsi significa rischiare la vita, rimanere significa condannarsi a morte certa.

Ma forse è proprio questo il punto. Forse l’obiettivo non è farli spostare ma farli sparire. Cancellare un’intera generazione, eliminare il problema alla radice. Perché un bambino che non c’è più non potrà crescere, non potrà rivendicare diritti, non potrà ricordare e chiedere giustizia. E mentre il mondo guarda, impotente o complice, l’Unicef implora un cessate il fuoco. Ma sono sempre parole che cadono nel vuoto, inascoltate. Perché in questa guerra l’umanità sembra essere diventata un optional, un lusso che nessuno può più permettersi.
Che vorrebbero che facessero? Scomparire.

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Dal sogno europeo all’incubo turco: il destino dei migranti nel limbo tra due continenti

L’Unione europea è complice delle migliaiadi respingimenti illegali di migranti dalla Turchia verso Siria e Afghanistan. È quanto emerge da un’inchiesta di Politico che getta una luce sinistra sul ruolo dell’Ue nel finanziare e sostenere il sistema turco di detenzione e deportazione dei richiedenti asilo.

La storia inizia nel 2016, quando l’Unione europea, in preda al panico per l’arrivo di un milione di richiedenti asilo l’anno precedente, stringe un patto faustiano con Ankara. In cambio di 11,5 miliardi di euro la Turchia avrebbe dovuto fare da “deposito di rifugiati” per l’Europa, trattenendo sul proprio territorio quasi 4 milioni di persone in fuga dalla guerra in Siria.

Ma il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. E così, mentre Bruxelles si compiaceva di aver “risolto” il problema migratorio la Turchia ha iniziato a utilizzare quelle stesse infrastrutture finanziate dall’Ue per deportare con la forza siriani e afghani nei loro paesi d’origine, dove rischiano persecuzioni e morte.

Il lato oscuro dell’accordo: centri di accoglienza diventati campi di deportazione

L’inchiesta di Politico dipinge un quadro agghiacciante. Centri di accoglienza trasformati in campi di deportazione. Detenuti torturati, picchiati, abbandonati senza cure mediche adeguate. Migranti costretti con la violenza a firmare moduli di “rimpatrio volontario”. E tutto questo con il marchio dell’Unione europea ben in vista: la bandiera blu con le stelle dorate campeggia ovunque, dai sacchetti di sapone ai materassi, quasi a voler ricordare ai detenuti chi sia il vero mandante della loro sofferenza.

La Commissione europea, custode dei trattati e garante dei valori fondamentali dell’Unione, sembra aver chiuso non uno, ma entrambi gli occhi di fronte a queste palesi violazioni dei diritti umani. Nonostante le ripetute segnalazioni di Ong, avvocati, diplomatici e persino del proprio personale, Bruxelles ha continuato a versare fiumi di denaro nelle casse di Ankara, arrivando a stanziare oltre 260 milioni di euro dal 2022 per “rafforzare” ulteriormente il sistema di controllo delle frontiere turco.

Il caso di Sami, un siriano di 26 anni, è emblematico. Arrestato in Turchia e detenuto per mesi in condizioni disumane in un centro finanziato dall’Ue, si è visto negare le cure mediche nonostante fosse gravemente malato. Deportato in Siria contro la sua volontà, è stato rispedito in Turchia per un breve ricovero, solo per essere nuovamente espulso dopo tre giorni. Oggi sopravvive a stento nel nord della Siria, senza i farmaci necessari per curarsi.

Ma Sami è solo uno dei tanti. L’inchiesta riporta decine di testimonianze simili: afghani costretti a firmare documenti di rimpatrio sotto minaccia, ex collaboratori delle forze Nato deportati in Afghanistan e poi uccisi dai talebani, famiglie separate e vite distrutte. E tutto questo con il benestare, se non la complicità attiva, dell’Unione europea.

Migranti, l’Europa di fronte allo specchio: complicità e negazione

La reazione di Bruxelles alle accuse è, come spesso accade, un capolavoro di ipocrisia burocratica. La Commissione si è trincerata dietro la frase “non abbiamo prove di abusi”, ignorando le montagne di evidenze raccolte da giornalisti e organizzazioni umanitarie. Ha parlato di “missioni di monitoraggio regolari”, senza spiegare come queste missioni non abbiano mai rilevato le palesi violazioni dei diritti umani denunciate dai detenuti.

Intanto, il commissario Olivér Várhelyi, responsabile degli affari di vicinato dell’Ue e stretto alleato del premier ungherese Viktor Orbán, sembra addirittura compiacersi dei “massicci ritorni forzati in Afghanistan” operati dalla Turchia. Un atteggiamento che, se confermato, getterebbe un’ombra ancora più inquietante sul ruolo dell’Unione europea in questa vicenda.

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Centri migranti in Albania, tra poco l’inaugurazione tra costi altissimi e ostacoli legali

Dopo mesi di rinvii e polemiche, i centri per migranti in Albania voluti dal governo Meloni sono finalmente pronti a entrare in funzione. La prossima settimana la premier e il ministro Piantedosi voleranno a Tirana per tagliare il nastro dell’hotspot di Shengjin e del centro di detenzione di Gjader, accolti dal primo gruppo di migranti trasportati da una nave militare italiana. Un’inaugurazione in pompa magna per celebrare quello che il governo considera un successo ma che potrebbe rivelarsi un clamoroso autogol.

Costi astronomici e ostacoli legali: il progetto in Albania vacilla

I costi dell’operazione sono astronomici: quasi un miliardo di euro in cinque anni per strutture che rischiano di rimanere vuote. Perché se è vero che i lavori di allestimento si sono conclusi, seppur con cinque mesi di ritardo, è altrettanto vero che una recente sentenza della Corte di Giustizia europea rischia di mandare all’aria l’intero progetto ancora prima che parta.

I giudici del Lussemburgo hanno infatti stabilito che, per essere considerato “sicuro”, un Paese deve esserlo in ogni sua parte e per qualsiasi categoria di persone, senza eccezioni. Un criterio che fa crollare come un castello di carte la lista di 22 Paesi stilata dalla Farnesina, su cui si basa l’intero meccanismo delle procedure accelerate di frontiera previste dal protocollo italo-albanese.

Scorrendo l’elenco praticamente nessuno dei Paesi da cui provengono i migranti che attraversano il Mediterraneo avrebbe più i requisiti per essere ritenuto sicuro: non la Tunisia, non l’Egitto, non il Bangladesh. Di fatto, solo chi arriva da Capo Verde (pochissimi) potrebbe essere soggetto a queste procedure. Un dettaglio non da poco, che rischia di trasformare i nuovi centri in cattedrali nel deserto ancor prima di aprire i battenti.

Procedure al limite della legalità: il rischio di un clamoroso fallimento

Ma il governo tira dritto, incurante dei rischi. Il Viminale ha già predisposto le regole operative: i migranti soccorsi in acque internazionali verranno portati su una nave della Marina che fungerà da hub al largo di Lampedusa. Qui avverrà una prima scrematura: donne, minori, famiglie e persone fragili verranno fatte sbarcare sull’isola, mentre gli uomini adulti ritenuti provenienti da Paesi “sicuri” saranno trattenuti e portati in Albania una volta raggiunto un numero congruo.

Peccato che, alla luce della sentenza europea questa procedura sia ora priva di fondamento giuridico. Se il governo insisterà, è facile prevedere che i nodi verranno presto al pettine: i primi migranti fermati e portati in Albania potrebbero essere rilasciati dopo 48 ore e riportati in Italia, visto che il protocollo firmato da Meloni e Rama prevede espressamente che nessun migrante possa rimanere libero in territorio albanese.

Uno scenario che, se si verificasse già con la prima nave, renderebbe i nuovi centri inutili ancor prima di entrare in funzione. Uno smacco politico per il governo che si propone come capofila in Europa della strategia di esternalizzazione delle richieste di asilo.

Eppure a Roma sembrano non preoccuparsi, procedendo spediti verso un’inaugurazione che ha tutta l’aria di essere l’ennesima operazione di facciata. Resta da capire quanto durerà la festa prima che la realtà bussi alla porta, presentando il conto di un’operazione tanto costosa e che rischia di rivelarsi inutile. Nel frattempo il contatore della spesa pubblica continua a girare, in attesa che qualcuno si decida a staccare la spina a questo carrozzone mediatico-politico travestito da soluzione ai problemi migratori.

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Da ‘legittima difesa’ a ‘crimine’: il doppio standard dell’opinione pubblica

L’attacco dell’esercito israeliano alle basi Unifil, la missione dell’Onu al sud del Libano, smaschera l’ipocrisia. 

Il fato che Israele abbia aperto il fuoco contro la base UNP 1-31 sulla collina di Labbune, nell’area di responsabilità dell’Italia che nel sud del Libano schiera oltre mille militari non è un’azione diversa dagli irresponsabili colpi che l’esercito di Netanyahu ha sparato in questo ultimo anno, trasformando una presunta legittima difesa in una vendetta utile a un disegno politico che ha radici antiche.

L’indignazione che leggiamo questa mattina sui giornali è figlia dell’empatia sovranista che in tempi di guerra infetta anche alcuni insospettabili: se a rischiare la vita sono soldati “nostri” allora ciò che prima era collaterale, bellicamente ragionevole e difensivo, diventa un crimine di guerra. 

Se a essere colpite sono della basi Onu – dopo gli ospedali, le scuole, le sedi giornalistiche, gli uffici umanitari – il diritto internazionale diventa improvvisamente un comandamento inderogabile. 

Ipocritamente anche la difesa del dissennato attacco è sempre la stessa: pure le basi Onu – come gli ospedali, le scuole, le sedi giornalistiche, gli uffici umanitari – diventano un “nascondiglio dei terroristi”. Quindi i soldati italiani sono il Libano a fiancheggiare i terroristi, secondo Israele. Chissà anche di questo che ne pensa il ministro Crosetto. 

Per molti invece quella di ieri è stata una giornata perfettamente in linea con l’agire dell’esercito israeliano.

Buon venerdì.

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Il Nobel per la pace? Non diamolo a nessuno

Il toto Nobel per la pace è partito. Qualcuno che si atteggia da bene informato sussurra che l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (UNRWA), la Corte internazionale di giustizia e il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres siano tra i favoriti per il premio Nobel per la pace 2024.

Per la sua attività in favore delle popolazioni colpite dai conflitti buone chance di vittoria sono attribuite all’UNRWA e al suo alto commissario Philippe Lazzarini. Un premio all’Unrwa riaccenderebbe evidentemente gli animi di chi osteggia le accuse di Israele contro l’agenzia, le stesse che avevano bloccato i finanziamenti di molti paesi, poi ripristinati dopo i risultati di inchieste indipendenti.

Un Nobel per l’Onu e al suo segretario Guterres aprirebbe la polemica sulla Corte internazionale di giustizia che ha condannato l’invasione su vasta scala dell’Ucraina da parte della Russia e ha chiesto a Israele di garantire che non venga commesso alcun genocidio a Gaza in un caso presentato dal Sudafrica, ancora in corso, che Israele ha ripetutamente respinto come infondato.

Qualcuno vorrebbe il presidente ucraino Zelensky, altri spingono per un Nobel postumo al dissidente russo Alexei Navalny, morto in una colonia penale artica a febbraio. Tra i papabili ci sarebbero anche l’Unesco e il Consiglio d’Europa.

Le guerre, i massacri, la vigliaccheria internazionale e i morti intanto continuano. Non c’è stata pace in questo 2024 che è l’anno dell’incitamento alla guerra. Anzi, per il Nobel della guerra verrebbero in mente facilmente alcuni nomi.

Allora fate una bella cosa, non assegnatelo il Nobel per la pace. È accaduto altre 19 volte (durante la Prima guerra mondiale, nel primo dopoguerra, durante la Seconda guerra mondiale, negli anni della Guerra fredda e della Guerra del Vietnam). Fatelo ancora.

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Una bambina su cinque vittima di violenze, allarme shock dell’Unicef

L’11 ottobre segna la Giornata mondiale delle bambine e delle ragazze e come accade quando si allarga lo sguardo i numeri messi insieme fanno impressione. I dati emersi dal rapporto InDifesa di Terre des Hommes e dalle stime dell’Unicef fotografano un quadro allarmante, evidenziando come la strada verso la parità di genere sia ancora lunga e impervia.

Secondo il dossier InDifesa 2024, oltre 3,1 miliardi di bambine e ragazze vivono in paesi dove i loro diritti umani non sono adeguatamente tutelati. Questo numero impressionante rappresenta più della metà della popolazione femminile mondiale e sottolinea l’urgenza di interventi mirati e sostanziali.

Le violazioni dei diritti delle bambine assumono forme diverse e spesso sovrapposte. Tra le più gravi emergono i matrimoni forzati, le gravidanze precoci, la violenza sessuale e le mutilazioni genitali femminili. Quest’ultima pratica, nonostante gli sforzi per eradicarla, continua a colpire circa 4 milioni di bambine e ragazze ogni anno. Complessivamente, sono oltre 230 milioni le donne sopravvissute a mutilazioni genitali che ne subiscono le conseguenze, con 144 milioni solo in Africa.

L’istruzione, fondamentale per l’emancipazione femminile, rimane un miraggio per troppe. Sono 122 milioni le bambine e le ragazze che non frequentano la scuola, con più della metà concentrate nell’Africa sub-sahariana. In Afghanistan, la situazione è particolarmente critica, con il divieto imposto alle ragazze di oltre 12 anni di accedere all’istruzione.

Il matrimonio precoce continua a essere una piaga diffusa. Circa 640 milioni di donne tra i 20 e i 24 anni si sono sposate da minorenni, con la metà di questi casi concentrati nell’Asia meridionale. Sebbene si registrino progressi in alcune aree, fattori come la pandemia e i cambiamenti climatici hanno esacerbato le condizioni di vulnerabilità in molti paesi.

La violenza sessuale emerge come una delle violazioni più devastanti. L’Unicef rivela che oltre 370 milioni di ragazze e donne in vita – una su otto – hanno subito stupri o violenze sessuali prima dei 18 anni. Includendo le forme di abuso “senza contatto”, come molestie online o verbali, il numero sale a 650 milioni, ovvero una su cinque.

L’Africa subsahariana risulta la regione più colpita, con 79 milioni di vittime, seguita dall’Asia orientale e sudorientale con 75 milioni. In contesti fragili, caratterizzati da istituzioni deboli o crisi politiche, il rischio per le bambine aumenta drammaticamente, con una su quattro che subisce violenze sessuali durante l’infanzia.

Il fenomeno non risparmia i maschi: si stima che tra 240 e 310 milioni di ragazzi e uomini abbiano subito abusi sessuali da bambini, un numero che sale a 410-530 milioni considerando anche le forme senza contatto fisico.

In Italia, la situazione, seppur migliore rispetto a molti paesi in via di sviluppo, presenta criticità significative. Nel 2023 sono stati registrati 6.952 reati ai danni di minori, con un aumento del 34% rispetto al 2013. Le bambine e le ragazze rappresentano il 61% delle vittime, percentuale che sale nei casi di violenza sessuale e reati correlati.

Preoccupa anche il crescente disagio psicologico tra i giovani, in particolare tra le ragazze. Il 52% delle adolescenti italiane ritiene che la pandemia abbia avuto un impatto negativo sulla propria salute mentale, contro il 31% dei coetanei maschi.

Sul fronte della parità di genere, l’Italia ha peggiorato la sua posizione nella classifica globale, scendendo all’87° posto. Persistono disparità significative nell’ambito lavorativo, con quasi una donna su due che non lavora, e nello sport, dove le ragazze partecipano meno dei coetanei maschi.

Le soluzioni? Le solite. Serve sfidare e cambiare le norme sociali e culturali che permettono il perpetuarsi di queste violazioni, fornire ai bambini gli strumenti per riconoscere e denunciare gli abusi, e garantire servizi di supporto adeguati per le vittime.

Inoltre, è fondamentale rafforzare le leggi a tutela dei minori e investire in sistemi di raccolta dati più efficienti per monitorare i progressi e assicurare una maggiore responsabilità.

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