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Vannacci tentenna e al raduno di sabato a Roma la Lega rischia il flop

Matteo Salvini sperava di salvare la settimana con l’ufficializzazione della candidatura del generale (sospeso) Roberto Vannacci in occasione del raduno del 23 marzo del gruppo europeo Identità e democrazia a Roma. C’è solo un piccolo ma insormontabile problema: il generale non ha ancora sciolto la riserva. Così potrebbe saltare l’annuncio in pompa magna che il segretario della Lega aveva immaginato per rivitalizzare la spenta riunione dei sovranisti europei è rimandato.

Salvini sperava di salvare la settimana con l’ufficializzazione della candidatura di Roberto Vannacci, ma il generale non ha ancora sciolto la riserva

“Se non addirittura cancellato – ci dice un parlamentare della Lega che preferisce rimanere anonimo in questi tempi di burrasca – perché il generale sa bene che qui da noi non lo vuole praticamente nessuno al di là di Matteo e la sua cerchia di fedelissimi”. Il partito in caduta libera e lo stallo con gli altri partiti della maggioranza, in primis Giorgia Meloni, non sono esattamente lo scenario che Vannacci immaginava per il suo battesimo dell’impegno politico. Nei prossimi giorni il segretario leghista proverà a convincere definitivamente il generalone ma l’esito è tutt’altro che scontato.

La Le Pen manderà a Roma il presidente del Rassemblement National Jordan Bardella

Chi mancherà sicuramente al raduno organizzato dal vice presidente del Consiglio è Marine Le Pen che manderà come sostituto il presidente del Rassemblement National Jordan Bardella. Troppo poco per scaldare i cuori. “L’unica cosa certa è che ci saranno parecchi defezioni”, spiega il parlamentare leghista. Nella truppa parlamentare hanno confermato la propria partecipazione una sparuta decina di deputati sui 66 totali. Chiunque sembra avere un impegno improrogabile proprio il 23 marzo. C’è chi ha una riunione nel proprio collegio elettorale che “è programmata da tempo”, chi si duole ma deve per forza dedicarsi a un urgente impegno famigliare, chi ha problemi di salute. Come in una classe di studenti svogliati a Salvini è toccato il ruolo del preside severo che ad uno ad uno ha provato a richiamarli all’ordine.

L’effetto sortito è già che deludente se perfino l’organizzatore della kermesse, il senatore Claudio Durigon, ha fatto sapere di non poter proprio mancare a un appuntamento alla scuola politica della Lega. Non formidabile è anche la partecipazione (fisica e ideologica) dei presidenti di Regione. Dalla Lombardia Attilio Fontana fa sapere di avere “impegni istituzionali”, Luca Zaia e Massimiliano Fedriga hanno ben altro per la testa che mostrarsi al fianco del loro segretario nel momento del crollo e anche i cinque ministri dati per confermati nella nota ufficiale del partito alla fine potrebbero essere almeno quattro visto che il titolare del Mef Giancarlo Giorgetti è tra i più disturbati dalle spericolate uscite di Salvini sulle elezioni russe.

Salvini si mette al sicuro depositando il simbolo di un nuovo partito

L’appoggio a Vladimir Putin del resto è una linea rossa che attraversa tutti i partiti dell’eurogruppo. Nei giorni scorsi Tino Chrupalla, uno dei leader dei tedeschi di Afd, ci ha tenuto a dire che trova “insopportabile” l’accusa a Putin di avere ucciso l’oppositore Navalny. Chrupalla è tra i pochi confermati che sabato sarà sul palco al fianco di Salvini.
“Se verrà giù tutto – ci dice – il parlamentare leghista, Matteo ha pronta l’opzione di emergenza: un suo partito personale in cui portare suoi fedelissimi mentre lascia la Lega alla deriva”. Si discute molto di un simbolo già depositato da un notaio, scovato da Il Foglio. Dopo avere messo “Salvini” nel simbolo ora l’ex capitano decide di virare sull’antico feticcio della sicurezza. Ma alla fine quello che prova a mettersi sempre al sicuro è solo lui.

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Conflitto di interessi sul binario morto. Fratelli d’Italia… Viva blocca tutto

Per ora tutto quello che sono riusciti a fare è partorire un rinvio. La legge del Movimento 5 Stelle sul conflitto di interessi, dove è prevista anche la norma anti-Renzi ieri si è incagliata, di nuovo. Rinviata la prevista riunione della commissione Affari Costituzionali della Camera sulla proposta di legge sul conflitto di interessi del M5s che si sarebbe dovuta tenere dopo l’Aula. La commissione è stata rinviata a oggi e – secondo quanto si apprende – la maggioranza starebbe lavorando su un possibile emendamento del relatore per delegare il governo a legiferare in materia. Cadono nel vuoto per ora le parole del leghista Igor Iezzi che aveva assicurato di non voler “demolire la legge Conte” perché per la Lega non si tratta di “battaglie ecologiche” ma di “modifiche di buon senso”.

La proposta di legge M5S sul conflitto di interessi verso la delega al governo. Obiettivo: allungare i tempi e trascinarla nel dimenticatoio

Il cammino è stato complicato fin dall’inizio. Dopo essere arrivata in commissione Affari istituzionali la maggioranza aveva rinviato tutto ai primi di marzo per dare il tempo di depositare gli emendamenti. Italia Viva per mano di Maria Elena Boschi si era preoccupata di salvare Matteo Renzi, chiedendo che la legge non fosse retroattiva. In commissione sono stati presentati 17 emendamenti unitari firmati da tutti i partiti di maggioranza, 36 proposte di modifica di Italia viva, 15 di Azione, 11 di Alleanza Verdi e Sinistra, 2 della Lega e 1 del Partito democratico. Settimana scorsa però il capogruppo in Senato di Fratelli d’Italia aveva definito la legge “inemendabile”. La maggioranza ritiene inaccettabili gli articoli che riguardano le incompatibilità tra la carica di amministratori e ruoli nel mondo privato.

“Così più nessun imprenditore si avvicinerà alla politica”, ripetono da giorni. La settimana scorsa la maggioranza aveva chiesto di rinviare tutto a fine aprile trovando il muro dei 5S. Conte e i suoi avevano dato comunque ampia disponibilità a trattare per trovare un punto di incontro. Al presidente del M5S interessava che la legge non fosse semplicemente una bandierina ma potesse essere votata in Aula. Niente da fare. Giorgia Meloni è stata chiara: da qui alle elezioni europee qualsiasi possibilità di dialogo con pezzi dell’opposizione è fermamente esclusa. La presidente del Consiglio non vuole concedere vantaggi ai partiti della minoranza e una legge sul conflitto di interessi capace di superare la legge Frattini del 2004 potrebbe essere un trofeo troppo goloso per Conte.

Con la proposta di Conte circa cento parlamentari compreso Renzi sarebbero incompatibili

Pesano anche i 100 tra deputati e senatori, alcuni anche ministri, viceministri e sottosegretari, che hanno partecipazioni o ruoli in imprese e società: “Portatori di interesse” li ha definiti Trasparency Italia, alcuni dei quali in potenziale conflitto di interesse considerando che il nostro Paese non ha alcuna norma in materia. La strategia è chiara. Si delegherà il governo per legiferare in materia annacquando il tempo e lasciando svanire nel nulla la proposta, esattamente come accaduto con il salario minimo. Non sarà difficile per il governo fingere che ci sia sempre qualcosa di più urgente e importante trascinando la questione nel dimenticatoio.

Agli atti rimarranno le eclatanti promesse: quelle di Matteo Renzi che baldanzoso si diceva pronto a votarla sapendo che non sarebbe mai andata al voto; quelle della Lega che prometteva una sanzione ancora più pesante per fugare il dubbio di avere rapporti con la Russia; quelle di Forza Italia che fingeva di appoggiare la proposta a patto che non si trasformasse in una battaglia contro il berlusconismo post mortem. Dopo le promesse immancabile è arrivato lo stop. Il sospiro di sollievo è arrivato fin qui.

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Sabotata dagli ex renziani. Così è stata affossata l’intesa M5S-Pd in Piemonte

Ci sono storie dietro le storie ufficiali che meritano di essere raccontate. La Basilicata, ad esempio, nelle stanze della segreteria del Pd è tutta roba che attiene all’ex ministro Roberto Speranza. La segreteria del Partito democratico non perdona a Speranza di non averci messo la faccia sciogliendo immediatamente l’ingarbuglio provocato dalla candidatura non condivisa con il M5S di Chiorazzo, poi la candidatura lampo di Lacerenza e infine la convergenza su Marrese.

L’accordo tra il Pd e il M5S appare impossibile. Ma il vero nodo da sciogliere resta tutto interno ai dem

Per la segretaria l’ex ministro alla Salute è responsabile non solo del suo mancato coraggio che ha lasciato il fianco scoperto ai dem ma anche, e soprattutto, è colpevole di avere legittimato la protesta di dirigenti locali che hanno simbolicamente malmenato i due ambasciatori della segreteria scelti per costruire il cosiddetto campo largo con Giuseppe Conte, Igor Taruffi e Davide Baruffi, in tutte le regioni. La missione, manco a dirlo, è miseramente fallita. La prova regina più della Basilicata – ormai data per persa – è il Piemonte dove da mesi la coppia Taruffi-Baruffi (altresì detti “gli uffi” nelle chat interne del partito) ha tentato di risollevare i rapporti con il Movimento 5 stelle ai minimi termini, complice un pessimo rapporto tra l’ex sindaca M5S di Torino, Chiara Appendino, con i dirigenti dem piemontesi.

I sospetti sui riformisti di Bonaccini. Ma Elly insiste per trattare con Conte

Elly Schlein fin dal primo momento ha spinto per riuscire a coltivare il campo largo sotto l’ombrello di Chiara Gribaudo, deputata vice presidente del partito molto vicina alla segretaria, confidando nell’azione dei suoi due emissari. Anche in questo caso la missione è miseramente fallita. Taruffi e Baruffi incarnano infatti le due anime del Pd: da una parte un fedelissimo di Schlein della prima ora che proviene dalla sinistra parlamentare dall’altra un fedelissimo di Stefano Bonaccini che si porta sulle spalle il peso dell’opposizione interna di Base riformista, corrente minoritaria ma maggiormente furba del Pd.

I cosiddetti riformisti della mozione Bonaccini hanno il facile compito di logorare la segretaria simulando collaborazione e in un partito mangia-segretari con il Pd la missione è molto più facile di quello che potrebbe sembrare. Schlein aveva deciso di rinunciare alla candidatura di Gribaudo – e poi del consigliere regionale Daniele Valle – convinta che l’assessora Gianna Pentenero avrebbe permesso la convergenza con i 5S. Essere accusata di avere compiuto “una fuga in avanti” da Conte per Schlein è stata la prova che la trattativa si è svolta in maniera ben diversa da come le era stata raccontata. Dal Nazareno qualcuno spiega che il dubbio di un sabotaggio dolce dei bonacciniani (di cui Baruffi è espressione) sia molto più consistente di quel che pubblicamente si dice.

In Piemonte il Movimento 5 stelle intanto sta cominciando a lavorare a una sua candidatura

Il Movimento 5 stelle sta cominciando a lavorare a una sua candidatura, con il consigliere regionale uscente Ivano Martinetti e l’ex senatrice, già presidente della commissione Lavoro, Susy Matrisciano. Ma il pensiero di Schlein sta nelle parole di Igor Taruffi: “Finché non saranno depositate le liste c’è tempo. Diceva Boskov: rigore è quando arbitro fischia. Siamo al lavoro ovunque per costruire le condizioni più ampie possibili”. La partita per Schlein è tutt’altro che chiusa. La segretaria vuole provare a trattare direttamente con Conte per imbastire un’alleanza che appare quasi impossibile. A sinistra intanto Alleanza verdi e sinistra lamenta di avere appreso della candidatura di Pentenero dai giornali. Solo che alla fine, come spesso accade, la partita sembra prima di tutto interna al Partito democratico.

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Cosa succede a Bari?

A Bari il ministro Piantedosi ha deciso di avviare l’iter di scioglimento del Comune guidato dal sindaco dem Antonio Decaro per infiltrazioni mafiose. La mossa ha tempistiche elettoralmente perfette, cade esattamente nell’accelerazione per la campagna elettorale delle elezioni europee e colpisce uno tra i primi cittadini più noti tra i partiti dell’opposizione. 

Come nasce l’azione del Viminale? L’impulso è stato dato da un gruppo di parlamentari pugliesi di centrodestra, tra cui due vice ministri di governo, e fa riferimento alla recente operazione antimafia che ha portato all’arresto dell’avvocato Giacomo Olivieri e la moglie Maria Carmen Lorusso nonché il padre di quest’ultima, l’oncologo Vito Lorusso. 

Su alcuni furbeschi giornali di oggi leggerete che Maria Carmen Lorusso sta nella maggioranza di Decaro. Non è un’informazione sbagliata ma è incompleta. La consigliera comunale è stata eletta nel 2019 tra le liste che sostenevano il candidato sindaco del centrodestra, Di Rella, ed è poi transitata nel movimento Sud al centro, partito coordinato da Sandro Cataldo, marito di Anita Maurodinoia, assessora regionale ai Trasporti, che in comune sostiene Decaro. 

Secondo gli investigatori la consigliera comunale avrebbe sfruttato rapporti con il clan Parisi-Palermiti per farsi eleggere nel 2019.

Quindi, ricapitolando, un ministro di centrodestra su impulso di parlamentari del centrodestra ha decapitato un sindaco di centrosinistra per una consigliera comunale di centrodestra che avrebbe stretto patti con i boss. Non male. 

Buon mercoledì. 

 

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Democrazia minacciata. Libertà e diritti nel mirino. Nel 2023 peggiorate le condizioni in 52 Paesi

A proposito di democrazie, di elezioni e di libertà vale la pena segnalare che il rapporto Freedom in the World 2024 rileva che la libertà globale è diminuita per il 18° anno consecutivo nel 2023. L’ampiezza e la profondità del deterioramento sono state estese: i diritti politici e le libertà civili sono diminuiti in 52 paesi e sono migliorati solo in 21.

Il rapporto Freedom in the World 2024 rileva che la libertà globale è diminuita per il 18° anno consecutivo nel 2023

Della questione russa e del conflitto in Medio Oriente ne leggiamo tutti i giorni ma problemi diffusi in tempo di elezioni, tra cui la violenza e la manipolazione, hanno portato a un netto deterioramento dei diritti e delle libertà nel mondo. L’Ecuador è stato declassato dallo status di libero a parzialmente libero perché le sue elezioni sono state interrotte da organizzazioni criminali violente, che hanno ucciso diversi funzionari statali e candidati politici. In Cambogia, Guatemala, Polonia, Turchia e Zimbabwe, i governanti storici hanno cercato di controllare la concorrenza elettorale, di ostacolare i loro avversari politici o di impedire loro di prendere il potere dopo il giorno delle elezioni.

I colpi di stato hanno continuato a cancellare le istituzioni democratiche e a togliere il diritto delle persone di scegliere i loro leader. A luglio, il Niger è diventato il sesto paese della regione africana del Sahel, dopo Burkina Faso, Ciad, Guinea, Mali e Sudan, a subire un colpo di stato dal 2020. Le libertà hanno continuato a deteriorarsi anche in Burkina Faso, che ha subito due colpi di stato nel 2022. Nel rapporto si sottolinea anche che Regno Unito e Ue hanno firmato accordi con due autocrati il presidente tunisino Kaïs Saïed e il presidente ruandese Paul Kagame. Il tema della mancanza di democrazia è molto più vasto di quel che sembra.

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I 33 italiani morti in Ucraina di cui nessuno parla

C’è un dato sulla guerra in Ucraina che non merita una sola parola dal ministro alla Difesa Guido Crosetto e dai media nazionali: le forze russe hanno ucciso 5.962 “mercenari” stranieri sui 13.287 arrivati in Ucraina, inclusi 147 dei 356 francesi e 33 dei 90 italiani secondo i dati diffusi su Telegram da Mosca.

Trentatré italiani morti in Ucraina non sono considerati degni di una notizia o di un comunicato ufficiale di rammarico

Il bilancio aggiornato, ripreso dall’agenzia Tass riferisce che le Forze Armate della Federazione Russa hanno ucciso anche 1.497 polacchi su 2.960, il contingente più numeroso di combattenti stranieri. Seguono i georgiani con 561 caduti su 1.042, 491 statunitensi su 1.113 mercenari, 422 dei 1.005 combattenti canadesi e 360 degli 822 britannici. Dalla Romania sono arrivati in Ucraina 784 “mercenari” di cui 349 sono stati uccisi, dalla Croazia 335 arrivati e 152 uccisi, dalla Germania 88 caduti su 235, dalla Colombia 217 morti su 430 volontari mentre dal Brasile sono giunti 268 combattenti di cui 136 caduti.

Come scrive il sito Analisi difesa è “superfluo sottolineare che tali numeri non sono verificabili da fonti neutrali e quasi nessuna nazione occidentale ha fornito informazioni circa i propri “volontari” recatisi a combattere in Ucraina (ne hanno riferito sporadicamente fonti in Polonia e Repubblica Ceca) così come nessun dato ufficiale è mai emerso in Occidente circa i caduti tra le file dei volontari”. Nessuna fonte ufficiale del governo italiano ha mai commentato le indiscrezioni giornalistiche e le rare interviste ad alcuni volontari sul campo.

Il conto dei caduti europei a Kiev è di quasi 6mila mercenari su oltre 13mila

Numerosi sono anche i mercenari arruolati nelle file dell’esercito russo, anche se non risultano disponibili dati precisi e complessivi. Ci sono riscontri sull’arruolamento di volontari siriani, cubani, di diverse repubbliche ex sovietiche, africani (qualcuno catturato dagli ucraini) e asiatici. Tra questi anche molti nepalesi. l Nepal vieta ai propri cittadini l’arruolamento in forze armate straniere, salvo quelle britanniche e indiane con cui ci sono accordi in tal senso, ma in migliaia hanno raggiunto la Russia per arruolarsi nonostante le pressioni del governo nepalese su Mosca per evitarlo.

Tra le notizie ufficiali nelle ultime settimane si trova solo un lancio dell’agenzia di stampa Reuters che parla di “combattenti stranieri” reclutati nell’esercito ucraino uccisi da un attacco russo a Kharkiv, la seconda città più grande dell’Ucraina in cui sono state uccise sessanta persone per lo più mercenari francesi. Anche in quel caso l’agenzia non ha avuto modo di verificare la notizia. I mercenari non esistono nei comunicati stampa e nelle preoccupazioni dei governi.

Di fatto molti Stati europei sono già coinvolti direttamente nella guerra contro la Russia

Trentatré italiani caduti in Ucraina non sono considerati degni di una notizia o di un comunicato ufficiale di rammarico. Mentre si parla della possibilità di inviare soldati Nato in sostegno di Kiev non hanno fatto notizia nemmeno le parole del ministro degli Esteri polacco Radosław Tomasz Sikorski che in un’intervista a Sky News ha testualmente detto: “In Ucraina sono già presenti militari della Nato. Vorrei ringraziare gli ambasciatori di quei Paesi che hanno corso questo rischio. Questi Paesi sanno chi sono, ma non posso rivelarli. Contrariamente ad altri politici, non li elencherò”.

È passato sotto traccia anche l’audio intercettato in Germania in cui citano la presenza di soldati britannici, statunitensi e francesi in Ucraina – ufficialmente negata da Londra, Washington e Parigi – per supportare le forze di Kiev nell’utilizzo dei sistemi d’arma occidentali.

 

Leggi anche: Meloni chiude alle trattative con Putin: “Non ha mai rispettato gli accordi”. E si allinea alla deriva bellicistica di Usa e Ue. “Navalny non sarà dimenticato”

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Salvini come Lukashenko. Destre a pezzi sugli elogi a Putin

Eccolo qui Matteo Salvini, vice presidente del Consiglio e ministro dei Trasporti nonché leader di una Lega in declino. Eccolo mentre arranca in cerca di qualche voto per rallentare il dissanguamento elettorale, disposto anche a mettere in crisi gli equilibri della maggioranza di cui fa parte. “Quando un popolo vota ha sempre sempre ragione”, ha detto Salvini in merito alle elezioni farsa che si sono svolte in Russia, dove Vladimir Putin ha messo in scena elezioni né libere né democratiche con un controllo totale sulle urne. Ci sarebbe da tenere in considerazione anche che gli oppositori del regime russo – per ultimo Navalny – sono stati ammazzati o si ritrovano reclusi.

“Quando un popolo vota ha sempre sempre ragione”, ha detto Salvini in merito alle elezioni farsa che si sono svolte in Russia

Ma a Salvini tutto questo non basta e il leader della Lega non riesce a trattenere un moto sotterraneo di giubilo. Così il ministro del governo italiano si accoda a Lukashenko, Xi Jinping e Raisi, presidenti di Bielorussia e Cina e Iran, nella legittimazione di Putin. A parlare per il governo sobbalzato dalla sedia dopo le parole del ministro leghista ci ha pensato il ministro agli Esteri Antonio Tajani: “Le elezioni sono state caratterizzate da pressioni forti e anche violente – ha detto il ministro degli Esteri – Navalny è stato escluso da queste elezioni con un omicidio, abbiamo visto le immagini dei soldati nelle urne, non mi sembra che sia un’elezione che rispetta i criteri che rispettiamo noi”, ha detto Tajani visibilmente contrariato per l’improvvida uscita dell’alleato sempre più scomodo.

Il vice premier: “Il popolo che vota ha sempre ragione”. Tajani furibondo corre a mettere una pezza

Le fibrillazioni però sono arrivate fino a Palazzo Chigi e poco dopo la Lega scrive una nota ufficiale per correggere il tiro: “In Russia hanno votato, – scrive il Carroccio – non diamo un giudizio positivo o negativo del risultato, ne prendiamo atto e lavoriamo (spero tutti insieme) per la fine della guerra ed il ritorno alla pace. Con una guerra in corso non c’è niente da festeggiare”. Dall’opposizione Giuseppe Provenzano (Pd) esprime ironicamente “solidarietà al vicepresidente e ministro Antonio Tajani”. “Non dev’essere facile – scrive Provenzano su X – avere un omologo vicepresidente Salvini che non condanna i crimini di Putin e vede in queste elezioni russe una grande affermazione del popolo. Ma con queste posizioni il Governo può mai essere credibile? E Meloni tace…”.

Carlo Calenda attacca: “Salvini, ti suggerisco di ripassare le basi. Quando un popolo vota nel contesto di una democrazia liberale – libertà di espressione, associazione, stampa e magistratura indipendente – il risultato va riconosciuto. La democrazia senza stato di diritto non esiste. La Russia è una dittatura e le elezioni sono una farsa. Punto”. Il capogruppo dei senatori dem Francesco Boccia chiede al leghista se “va bene quindi votare con le urne trasparenti e i militari che controllano il voto nei seggi? Sono curioso di conoscere la sua risposta e di sapere se i suoi alleati di governo la pensano alla stessa maniera”.

Critico anche Maurizio Lupi, leader di Noi moderati: “Noi un giudizio lo esprimiamo e affermiamo che una democrazia senza un’opposizione reale non esiste, che il plebiscito a favore di Putin è stato espresso sotto la minaccia delle armi, in un clima di repressione e arresti”, spiega. Una ricerca realizzata per Adnkronos da Vis Factor, società leader a livello nazionale nel posizionamento strategico, segnala che sui social network si registra un sentiment negativo dell’84% da parte degli italiani in merito alle dichiarazioni di Matteo Salvini sul voto in Russia. Le emozioni più associate alle dichiarazioni del leader della Lega sono rabbia al 52%, indignazione 20% e tristezza 10% con un picco del 32% di commenti offensivi sui profili del ministro. Un successo, insomma.

Lo scontro nel Centrodestra congela pure la corsa alle nomine. FdI punta a fare l’asso pigliatutto

Si allarga così sempre di più il solco tra il leader della Lega e gli altri partiti della maggioranza. Differenze che rischiano di allargarsi ogni giorno di più con l’avvicinarsi delle Europee che vedranno Salvini e la presidente del Consiglio Giorgia Meloni su fronti contrapposti difficilmente coincidenti. Il gruppo europeo Identità e Democrazia di cui fa parte la Lega preme sull’antieuropeismo sfrenato con la francese Marine Le Pen nel ruolo di ariete. I Conservatori europei, di cui è presidente Meloni, continuano la loro marcia di avvicinamento a Ursula von der Leyen appoggiandone per ora la riconferma.

Ma i problemi a Bruxelles per Meloni non riguardano solo l’alleato scomodo in patria. A elezioni politiche appena vinte l’ideologo del melonismo Giovanbattista Fazzolari sognava di fare dell’Italia l’avamposto atlantico dell’Europa occidentale, la Polonia del quadrante Ovest del Continente. Le cose non stanno andando proprio così. Nel ruolo della Polonia sembra esserci ben salda la Polonia di Donald Tusk e il triangolo Varsavia-Parigi-Berlino sembra più saldo che mai con l’Italia esclusa. “Continuare in un momento così difficile a suddividere le coalizioni che hanno aiutato l’Ucraina in tanti pezzetti mi pare poco pratico”, ha detto tre giorni fa in un’intervista a Repubblica il ministro Crosetto. Il triangolo di Weimar rischia per Meloni di diventare un problema ben più serio del filoputinismo della suo alleato Salvini.

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Pezzo dopo pezzo se ne va la propaganda del Piano Mattei

Mentre Giorgia Meloni faceva la chierichetta a Ursula von der Leyen che in pompa magna staccava l’assegno al presidente egiziano al-Sisi per fare ancora di più e meglio il lavoro sporco da tappo dei migranti, il Tribunale de L’Aquila scriveva nero su bianco che la Tunisia non è un Paese sicuro riconoscendo la protezione speciale a un richiedente asilo. 

Il tribunale certifica che a Tunisi vi siano situazioni oggettivamente registrate: deterioramento del tasso di democraticità; violazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali; magistratura non indipendente; arresti di massa; assenza di tutele per migranti, richiedenti asilo e rifugiati; seria crisi economica in atto; emergenza climatica ed ambientale in atto. 

“In primo luogo il ricorrente, – scrivono i giudici – in disparte il profilo della documentazione lavorativa prodotta (…), proviene dalla Tunisia, Paese che solo formalmente è inserito nella lista del Paesi c.d. di origine sicura. Invero nel recente periodo, si sono verificati in Tunisia eventi che hanno deteriorato il tasso di democraticità del Paese e una palese violazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali”. 

I grandi accordi del governo italiano e di quello europeo si smontano pezzo dopo pezzo. Nel frattempo Italia e Ue firmavano accordi con al-Sisi, uno che da oltre 10 anni detiene il potere vincendo elezioni farsa con oltre il 90 per cento dei voti, arrestando, torturando, incidentalmente ammazzando migliaia di oppositori. Vale la pena di ricordare che al-Sisi è l’artefice del colpo di stato del 2013, fece arrestare almeno 40mila persone, condannare a morte centinaia di oppositori compreso l’ex presidente eletto Morsi e prese il potere grazie a elezioni farsa nel 2014 col 96% dei voti.

Buon martedì. 

Nella foto: la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il presidente egiziano al-Sisi, Il Cairo, 17 marzo 2024 (governo.it)

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Fascisti, comunisti, populisti. Calenda alleato con tutti

In Sardegna il partito Azione guidato da Carlo Calenda era alleato con Progetto Sardegna, +Europa, Rifondazione Comunista, Unione Popolare Cristiana, Indipendenza Repubblica Sardegna, ProgRes, Liberu. In Abruzzo nelle ultime elezioni era alleato con PD, Movimento 5 Stelle, Italia Viva, Sinistra Italiana, Europa Verde, +Europa, DemoS, Psi. Per le prossime elezioni in Basilicata sarà alleato con Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia, Italia Viva, Noi Moderati, UdC, Dc (di Rotondi).

Nel giro di qualche mese il partito di Calenda si è attaccato ai pantaloni di partiti che giudica comunisti, fascisti, populisti

Nel giro di qualche mese il partito di Calenda che si propone come antipopulista, anticomunista, antifascista e che fin dalla nascita vuole testimoniare l’inderogabile urgenza di avere uno spazio politico al centro indipendente si è attaccato ai pantaloni di partiti che giudica comunisti, fascisti, populisti. Anche all’osservatore più superficiale appare chiaro che per ora la missione di aprire uno spazio nuovo al centro si riduce ad attaccarsi allo spazio utile per incassare un piccolo spazio di trattativa. Non è niente di nuovo.

Dopo la Democrazia cristiana i tanti centri che si sono succeduti sono stati cespugli furbi impegnati nella politica dei due forni, balzando talvolta di qua e talvolta di là in base alle convenienze elettorali, raramente in base a questioni politiche nel senso nobile del termine. Calenda legittimamente deciderà come muovere il proprio partito, se spostarsi più a destra, se spostarsi più a sinistra, se davvero e sul serio essere un terzo polo. La domanda sarebbe da porre piuttosto a certi commentatori e politici del cosiddetto campo largo: come si può definire imprescindibile un partito così?

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Campo largo, non così

Il primo risultato delle elezioni regionali non ancora svolte in Basilicata consiste nella dispersione di quel precedente mucchietto di speranza. Non era molto, certo, ma dopo le elezioni vinte in Sardegna e perfino dopo le elezioni perse in Abruzzo quel barlume di possibile futuro era l’unico capitale iniziale di una bozza di alleanza credibile. Questione di aritmetica, almeno. 

Il comunicato serale in cui Pd, M5s, Si, Ev, Psi, +Europa annunciano di avere estratto dal cilindro il nome di Piero Marrese, sindaco dem di Montalbano Jonico e presidente della Provincia di Matera, non basterà a risollevare l’elettorato locale sfibrato dal susseguirsi incerto e nevrotico di nomi, dal re delle cooperativa bianche Angelo Chiorazzo impallinato dal M5s, al chirurgo Domenico Lacerenza con il triste record di essere stato candidato nel giro di 72 ore fino alla ridda di veti, subbugli locali e rivendicazioni nazionali. 

Il campo largo (o giusto o stretto o come diavolo si voglia chiamare) non può essere uno stiracchiato incastro di veti con l’aria ogni volta di avere avuto fortuna. Il campo largo (o giusto o stretto o come diavolo si voglia chiamare) non può apparire agli elettori un affannarsi alla ricerca di un nome a poche ore dalla presentazione delle liste. Il campo largo (o giusto o stretto o come diavolo si voglia chiamare) non può essere un balletto orribile con i centristi che pregano la cenere per poterci ballare sopra. 

L’alleanza è necessaria ma lo stare insieme deve essere la maturazione di ragioni limpide. Il caso della Basilicata è un ingarbugliato bugiardino leggibile solo dalle segreterie, roba da caminetto. Veramente troppo poco per spingere fuori casa i possibili elettori. 

Buon lunedì. 

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