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Dall’Italia armi ad Israele a guerra già iniziata

Torniamo indietro di qualche mese. La segretaria del Partito democratico Elly Schlein – eravamo all’inizio del conflitto in Medio oriente tra Israele e Hamas – chiese che l’Italia non si rendesse compartecipe del conflitto fornendo armi. I titoli dei giornali cosiddetti progressisti e centristi ironizzarono sulla richiesta di Schlein. “Noi non forniamo nessuna arma all’Italia”, dissero in coro. Da quelle parti funziona così: sono populisti tutti coloro che non sono d’accordo con loro. Eppure, ora si scopre che Elly Schlein aveva ragione.

Le carte sbugiardano il governo Meloni. L’export di armi verso Israele è proseguito anche dopo il 7 ottobre

Duccio Facchini, direttore di Altreconomia, ieri in un’inchiesta ha raccontato che “tra ottobre e novembre del 2023 l’Italia ha esportato “Armi e munizioni” verso Israele per un valore di 817.536 euro: in particolare 233.025 euro a ottobre e 584.511 a novembre”. A certificare l’export sono le statistiche del commercio estero periodicamente aggiornate dall’Istat, da ultimo a metà febbraio di quest’anno. Il punto è sostanziale: il governo guidato da Giorgia Meloni in più occasioni ha dichiarato di fronte agli elettori e alla stampa che il “governo non fornisce armi a Israele” ed era falso, falsissimo. “L’Italia ha interrotto dall’inizio della guerra di Gaza l’invio di qualsiasi tipo di armi a Israele. È tutto bloccato”, disse Tajani in un’intervista a Il Giorno lo scorso 20 gennaio.

“Da quando sono iniziate le ostilità abbiamo sospeso tutti gli invii di sistemi d’arma o materiale militare di qualsiasi tipo”, disse Tajani esibendo una certa sicumera. Tutto falso, falsissimo. Come racconta Altreconomia i dati dell’Istat sconfessano la prima affermazione del ministro sull’aver bloccato “qualsiasi tipo di armi a Israele”: materiale corrispondente alla categoria merceologica “Armi e munizioni” – ai sensi della classificazione Ateco 2007 – è stato invece esportato anche dopo il 7 ottobre. “Pure ipotizzando che i 230mila euro di ottobre siano partiti prima del giorno 7, i dati di novembre coprono un periodo in cui i bombardamenti sulla Striscia di Gaza erano già pesantemente iniziati”, scrive Facchini.

L’Istat informa che circa 7mila euro sono riferibili a “Fucili, carabine e pistole a molla, ad aria compressa o a gas, sfollagente ed altre armi simili” mentre 430mila per “Parti e accessori” di oggetti che vanno da “Armi da guerra, incluse pistole mitragliatrici” a “Rivoltelle e pistole”, da “Armi da fuoco e congegni simili che utilizzano la deflagrazione della polvere” a “carabine e pistole a molla, ad aria compressa o a gas, sfollagente”. Restano invece “oscurati” e perciò senza descrizione specifica 147.126 euro.

Dai fucili alle pistole agli sfollagenti. Un’inchiesta di Altreconomia smaschera l’ultima bugia di Stato

Giorgio Beretta, analista esperto dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere a Altreconomia osserva che “proprio questi 147.126 euro oscurati certificano che si tratta di armi e munizioni ad uso militare – spiega Beretta -: nei sottocapitoli l’Istat oscura infatti tutti e solo i dati che riguardano le armi ad uso militare. Non va dimenticato, inoltre, che qui si sono considerate solo le ‘Armi e munizioni’: ma che da ottobre potrebbero essere stati esportati a Israele anche altri materiali e strumenti per uso militare tra cui componenti per velivoli e mezzi terrestri, sistemi elettronici, laminati e miscelatori per prodotti chimici, etc. che è impossibile rintracciare nel database dell’Istat”.

Ora siamo sicuri che un governo che ha pubblicamente sostenuto una tesi falsa si assumerà le sue responsabilità. O no? No, no, purtroppo no.

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Salvini tramonta con i suoi idoli

Matteo Salvini è politicamente finito. Resta da capire tra quanto tempo il segretario della Lega e ministro alle Infrastrutture verrà esautorato all’interno del suo partito e nell’alleanza del governo ma la fine è già scritta in quell’impietoso 3,7% che affonda il partito. Lui, Matteo, ieri ha provato a difendersi. Sulla sua dipartita dal Consiglio dei ministri dell’altro ieri (i retroscena raccontano di un litigio con il ministro Fitto per la ripartizione del Pnrr) dice che aveva “due appuntamenti ieri alle 6. Mi occupo di ferrovie e quindi sono andato via perché avevo due appuntamenti in ufficio”.

Scene da fine impero per il leader della Lega Matteo Salvini. Inesorabilmente avviato verso il declino politico

Il ministro è fatto così, ritiene che qualche appuntamento amicale in ufficio al ministero sia un motivo valido per convincerci che ormai la sua funzione non si deteriora ogni ora di più. Il leader della Lega finge di non sapere che è un esautorato dal suo stesso partito. “C’e l’occasione di rivincere subito, il 10 marzo in Abruzzo, dove sono assolutamente ottimista sia come centrodestra sia come risultato della lista Lega”, dice ai giornalisti. È finita ma finge di non capirlo. Non gli basterà nemmeno provare a sbloccare il terzo mandato per il suo compagno di partito Luca Zaia in Veneto. Salvini è già finito.

Nel giorno in cui finge di restare in piedi risuonano le parole del suo caro amico Flavio Briatore. Nei giorni scorsi era rimbalzata la frase dell’imprenditore che aveva annunciato di non volere restare in Sardegna nel caso in cui la candidata Alessandra Todde fosse diventata presidente. Ieri la neoeletta presidente ha voluto rispondere direttamente, senza troppi giri di parole: “È un problema suo, noi riusciremo a campare anche senza”. Poco dopo il fulgente Briatore ha voluto precisare: “Leggo su parecchi siti di un mio presunto commento sul risultato delle elezioni in Sardegna. Non ho mai detto la frase che mi è stata attribuita. Mi congratulo con la signora Alessandra Todde per il risultato ottenuto e Le auguro buon lavoro”.

E dopo la disfatta in Sardegna pure l’amico Briatore scarica l’ex “capitano”

E qui dentro c’è tutta la mollezza di un impero che da segni di cedimento. Il Briatore che comandava sulla Sardegna forte dei suoi ombrelloni in società con la ministra Santanchè ora torna mogio sui suoi passi per augurare buon lavoro ai suoi eterni nemici. Flavio Briatore come termometro del disfacimento di Matteo Salvini: presuntuosi per diletto per piacere ai propri seguaci ora indossano le maschere dalle orecchie basse. A proposito di Salvini. Il ministro più manetta della storia recente della repubblica ha sempre voluto puntualizzare che i Verdini suoi quasi parenti sono “brave persone”.

Il leader della Lega che schianta un cittadino qualsiasi sui social per offrirlo alle fauci dei suoi elettori ha difeso la famiglia della sua compagna in ogni occasione. Il Verdini figlio (fratello della sua fidanzata) coinvolto nell’inchiesta sugli appalti Anas è “un bravo ragazzo” e il Verdini padre, quel Denis ispiratore di Salvini e amicone di Renzi, è un quasi suocero di tutto rispetto. Solo che Denis Verdini ieri è tornato in carcere perché il tribunale di sorveglianza di Firenze, dopo qualche chilo di articoli giornalistici, si è accorto che i suoi domiciliari avevano tutta l’aria di sembrare delle vacanze premio.

Verdini rispedito in carcere. Vannacci indagato e Briatore in fuga

L’istanza di revoca era stata presentata dalla Procura generale fiorentina per tre incontri serali avvenuti nella Capitale tra ottobre 2021 e gennaio 2022, alla presenza di politici, imprenditori e dirigenti pubblici. Verdini senior sta scontando una condanna definitiva a sei anni e sei mesi, arrivata al termine del processo per il crac dell’ex Credito Cooperativo Fiorentino. Detenzione iniziata il 3 novembre 2020 quando l’ex senatore si era costituito nel carcere di Rebibbia di Roma, subito dopo la sentenza della Cassazione. A gennaio dell’anno successivo, tuttavia, Verdini aveva ottenuto i domiciliari per motivi di salute legati a un focolaio Covid in carcere, regime detentivo poi confermato a luglio anche per questioni di età (aveva compiuto 70 anni) e di salute.

Solo che Verdini fingeva di andare a Roma dal dentista – secondo il tribunale di sorveglianza – per farsi i suoi porci comodi. Per il tribunale “non poteva incontrare persone diverse dai suoi familiari stretti” ma non è andata esattamente così. Per Matteo Salvini il Papeete nel 2024 ha la forma insulare della Sardegna. L’accelerazione della sua decadenza potrà durare al massimo fino alle prossime elezioni europee e nemmeno blindare Zaia gli potrà bastare. Salvini è politicamente morto. Gli resta qualche conato sui suoi social prima che diventino abituali e qualche ultima pretesa nei confronti di Giorgia Meloni.

Leggi anche: Vannacci sospeso dal servizio per 11 mesi. Lo ha deciso Crosetto al termine del procedimento disciplinare avviato nei confronti del generale per il suo libro

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Il “potere forte” è l’iniquità

Nei Paesi del G20, in media, per ogni dollaro di gettito fiscale, meno di 8 centesimi provengono oggi dalle imposte sul patrimonio, mentre più di 32 centesimi (oltre quattro volte tanto) arrivano dalle imposte su beni e servizi che gravano in modo sproporzionato sulle famiglie a basso reddito.

Lo scrive Oxfam, alla vigilia della prima riunione dei ministri delle finanze e dei governatori delle banche centrali del G20 a San Paolo, in Brasile. I dati mostrano come nel 2022 l’1% più ricco, in termini reddituali, nei Paesi del G20 ha percepito 18mila miliardi di dollari. Un ammontare superiore al Pil della Cina. Negli ultimi quattro decenni, la quota di reddito (al netto delle imposte) detenuta dall’1% dei più facoltosi nel G20 è aumentata in media del 45%, mentre nello stesso periodo l’aliquota massima dell’imposta sui redditi personali è diminuita di circa un terzo, passando da quasi il 60% nel 1980 al 40% nel 2022. 

La ridotta tassazione della ricchezza e un prelievo più blando sui redditi da capitale hanno esasperato ulteriormente l’iniquità dei sistemi fiscali. Oxfam osserva infatti che, considerando il complesso delle imposte dirette, indirette e dei contributi sociali nei Paesi del G20 – come Brasile, Francia, Italia, Regno Unito e Stati Uniti – chi guadagna di più, versi in proporzione al reddito, minori imposte di chi percepisce entrate inferiori. Nei Paesi del G20 risiedono inoltre quasi quattro su cinque dei miliardari globali.

Buon mercoledì. 

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Greenwashing sulla plastica. L’Ue alza bandiera bianca

Andremo al supermercato sotto casa e convinti di aiutare il pianeta acquisteremo una bottiglia con la dicitura “plastica riciclata al 100%” convinti che sia al 100% di plastica riciclata. In un documento della Commissione europea datato 13 febbraio l’esecutivo Ue spinto dalle industrie della chimica e della plastico si propone un approccio più lassista.

Andremo al supermercato sotto casa e convinti di aiutare il pianeta acquisteremo una bottiglia con la dicitura “plastica riciclata al 100%” convinti che sia al 100% di plastica riciclata

L’industria chimica ha spinto per un metodo di calcolo che consenta loro di spostare i cosiddetti crediti di contenuto riciclato da un prodotto all’altro (a parte il carburante) e trasferire tali crediti a prodotti in cui un’affermazione “riciclato al 100%” sarebbe commercialmente più preziosa. Per gli industriali il nuovo metodo permetterebbe di utilizzare meno rifiuti di plastica – che sono costosi da raccogliere e smistare – come materia prima. “Questo è, per me, un rischio davvero elevato di greenwashing”, ha detto Lauriane Veillard, responsabile della politica di Zero Waste Europe mentre la Environmental Coalition on Standards avvisa che con le nuove regole i protocolli di riciclaggio rischiano di diventare un “esercizio di contabilità senza significato”.

In una nota ottenuta da Politico l’anno scorso, la Commissione ha avvertito che se le nuove regole che disciplinano la tecnologia sono “troppo restrittive, i riciclatori chimici potrebbero astenersi dagli investimenti pianificati, il che potrebbe bloccare lo sviluppo del settore”. Se una bottiglia viene etichettata come fatta all’80% di plastica riciclata dovrebbe essere così. Solo così potremmo avere contezza di cosa stiano facendo le aziende per il pianeta. Ora il rischio è che sia solo fumo.

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Cariche di Stato a Pisa. Nel silenzio di Meloni arriva la Procura

Giorgia Meloni muta. La Procura di Pisa intanto nel pomeriggio di ieri ha aperto un’inchiesta per appurare chi ha preso le decisioni e chi ha dato l’ordine di caricare. Da venerdì, quando i poliziotti hanno manganellato degli studenti inermi a Pisa durante una manifestazione che chiedeva la pace in Palestina, la presidente del Consiglio non ha trovato un minuto per dire la sua. Hanno parlato i ministri del suo governo, i maggiorenti del suo partito, i parlamentari della sua maggioranza e il Quirinale ha scritto una nota ufficiale. Meloni muta. L’unica conversazione di cui si ha traccia è un colloquio privato con il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in cui il capo dello Stato ha invitato ad abbassare i toni per preservare la coesione sociale. In quel caso Meloni evidentemente non ha nemmeno ascoltato, o forse non ha capito.

Aperta un’inchiesta sulle cariche selvagge agli studenti di Pisa. Intanto la premier si nasconde dietro Piantedosi

Il silenzio non sembra comunque avere l’effetto sperato. Ieri il presidente dell’Associazione Nazionale Presidi (Anp), Antonello Giannelli, ha sottolineato come i ragazzi fossero “a viso scoperto, non disponevano di nessun oggetto in grado di offendere. Vedere dei poliziotti – ha continuato – che manganellano dei minorenni perlopiù inermi, che non causano offesa di nessun tipo, non è una bella cosa”. Il ministro Matteo Piantedosi ha incontrato ieri i sindacati che avevano richiesto un incontro urgente. Non è andata benissimo. All’uscita il segretario della Cgil Maurizio Landini ha sottolineato come la presidente del Consiglio sia “sempre molto attenta su tutto. È chiaro che questo silenzio, di per sé, ha parlato”. Il segretario generale della Uil, Pier Paolo Bombardieri ha spiegato che “non possiamo accettare che ci siano persone con le mani tese che non vengono identificate e ragazzi che protestano con le braccia alzate che vengono manganellate. Questo non è accettabile”.

La Cisl chiede che vengano “accertate le responsabilità e che chi ha sbagliato paghi”. Dall’opposizione per tutto il giorno piovono le richieste di prevedere i codici identificativi per le forze dell’ordine e che il ministro dell’Interno si presenti in Aula. “Lo attendiamo con ansia in Parlamento perché riferisca”, dice il deputato Marco Pellegrini, capogruppo del Movimento 5 Stelle in commissione Difesa a Montecitorio, che avanza anche il sospetto che i poliziotti “eseguissero direttive superiori”.

Il ministro dell’Interno chiamato a riferire in Parlamento dall’opposizione. Che chiede i codici identificativi per gli agenti

Riccardo Magi di +Europa sottolinea come i codici identificativi siano raccomandati anche dall’Onu e dall’Unione europea. L’ex ministro alla Giustizia dem Andrea Orlando sottolinea come “la presidenza del Consiglio non solo sembra ignorare l’allarme del Capo dello Stato, ma scavalca pure il Viminale non appena il ministro Piantedosi, toccato dalla nota del Quirinale, approva un riesame dei fatti con il Dipartimento di pubblica sicurezza”. Dal canto suo il ministro Piantedosi si ritrova in mezzo alla corrente. Mentre l’opposizione insiste nel chiedere le sue dimissioni si ritrova per tutta la giornata a gestire il vittimismo delle sigle sindacali di Polizia (come se le mele marce non siano proprio una questione di “onorabilità” del corpo) e i compagni di maggioranza che lamentano un doppio standard della sinistra. Così prima di sera è costretto a ribadire la stima per il presidente della Repubblica ma contemporaneamente a fare sponda con gli innocentisti più focosi. L’informativa è il passaggio obbligato per fingere di voler chiudere una vicenda che no, non si chiuderà così facilmente.

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Intesa vincente Conte-Schlein. La Sardegna è solo l’inizio

Ieri, mentre scrivevamo questo articolo, erano sedici ore che in Sardegna si contavano le schede in uno spoglio che pareva uno stillicidio. Nello staff di Alessandra Todde, futuribile presidente di Movimento 5 stelle, Partito democratico e Alleanza verdi e sinistra dalle prime ore del mattino è galleggiata la sensazione che la lentezza sia un effetto di macchinosità burocratica ma anche un effetto scenico per mimetizzare la sconfitta della destra. “Stanno cercando in tutti i modi di arrivare ai Tg della sera con il titolo sul testa a testa”, si dicono i parlamentari del Pd.

Elly Schlein piazza uno schiaffone ai terzopolisti del Pd. L’alleanza con il M5S di Conte e Avs è un modello per le altre regioni

Per come è andata a finire l’evento è epocale: il campo largo ma non slabbrato che tiene insieme i 5S e i dem con l’appoggia di verdi e sinistra contende una regione che fino a poche settimane fa era considerata un forno del centrodestra. Nei partiti della maggioranza di governo la sicumera aveva spinto i leader perfino a bisticciare sul candidato. Da questa parte la segretaria dem Elly Schlein ha silenziosamente lavorato per stringere e sperimentare l’alleanza a cui lavora per le altre elezioni regionali e, soprattutto, per costruire l’alternativa politica a una Giorgia Meloni che comincia a scalfirsi. Il deputato Pd Nicola Zingaretti non si trattiene e a conta ancora in corso scrive: “Ennesima conferma: uniti si può vincere, divisi si perde sicuro. Complimenti alla presidente Alessandra Todde e a tutto il centrosinistra sardo. Grazie Elly Schlein per aver tenuto la barra dritta: contenuti chiari e cultura unitaria!”.

Musi lunghi tra i guastatori riformisti del Pd che in segreto confidavano nel primo inciampo della loro segreteria che vorrebbero rosolare per usura. Non solo gli elettori hanno premiato la candidata 5 stelle, il Pd tallona Fratelli d’Italia nei voti di lista a dimostrazione che i cosiddetti riformisti sono molto rumorosi ma politicamente ben poco influenti. Le macerie del Terzo polo che la componente riformista dei dem vede come salvifica soluzione valgono un pugno di voti che non servono al Pd e soprattutto non interessano agli elettori. Lo dice senza troppi giri di parole la deputata e vicepresidente del Pd Chiara Gribaudo: “I nostri interlocutori devono essere i Cinque Stelle, ci sono divisioni, è evidente, ma detto questo io penso che sia iniziato un percorso. Quando ci sono candidature, anche generose, si può stare insieme”.

Qualcuno, come il senatore dem Dario Franceschini, ne approfitta per togliersi qualche sassolino dalla scarpa ricordando ai compagni di partito di Base riformista (Guerini, Alfieri e Bonaccini in testa) che la “Sardegna indica che la strada imboccata tra mille difficoltà nel settembre 2019 era quella giusta”. La minoranza Pd resta in silenzio e aspetta mercoledì per l’analisi. Intanto, più di qualcuno dell’area Schlein avverte: “Non hanno una ricetta alternativa, bisogna continuare a insistere anche su Piemonte e Basilicata”. Anche il sindaco di Firenze Dario Nardella – molto poco schleiniano e molto interessato alle prossime europee – annusa l’aria che tira e si lascia andare: “Da domani comincia una nuova strada per il centrosinistra”, scrive sui suoi account social.

Colpo ai renziani di Base riformista che tifavano per il flop in Sardegna. Ma sulle intese future i pentastellati non si sbilanciano

In casa 5 stelle le bocche sono cucite. A parlare è quell’aereo su cui il presidente del partito Giuseppe Conte è salito con Elly Schlein per volare a Cagliari. Conte non si sbilancia con i giornalisti, dice solo che “comunque vada” vuole abbracciare la sua candidata ma i due leader che negli ultimi mesi hanno vissuto momenti di frizione ora sono alleati. Non è solo la Sardegna. Nel 2024 ci sono le elezioni in Abruzzo, Basilicata, Piemonte e Umbria. Nel quartier generale dei pentastellati si sa bene che un contesto favorevole come quello sardo non sarà difficile da replicare. Pd e M5S possono comunque essere competitivi. Però, precisano dal Movimento 5 Stelle, i pesi all’interno della coalizione contano, eccome. I 5S, che hanno sempre chiesto “un rapporto alla pari” al Pd in vista delle alleanze ancora da stringere, tiene il punto.

“Dove c’è stato un confronto aperto e si è partiti dalle esigenze dei cittadini, come in Sardegna, – spiega chi è più vicino al presidente Conte – si è riusciti a trovare un’intesa e a raggiungere un risultato importante”. “La specificità della Sardegna, – dicono dallo staff di Conte – non si può applicare in fotocopia in Basilicata e Piemonte, ad esempio”. La linea resta quella della cautela: no a fusioni a freddo o cartelli elettorali, “si parta dai programmi e dai territori”. Ma la Sardegna è la partenza migliore che si potesse sperare.

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Processare le ceneri di chi si brucia per delle idee

Nell’epoca dell’utile sgomento il venticinquenne statunitense Aaron Bushnell è stato talmente maleducato da darsi fuoco di fronte all’ambasciata israeliana a Washington. Un aviatore dell’esercito americano che decide di urlare contro un genocidio usando il suo suicidio è un tilt per la stampa mansueta. Nelle riprese video Bushnell urla di non voler “essere più complice del genocidio” e dichiara di prepararsi “a un gesto estremo che non è nulla rispetto a ciò che vivono le persone a Gaza nelle mani dei colonizzatori”. 

I giornalisti pensosi si saranno domandati: come si scrive una storia così? Non scriverla o spuntarla fino ad arrotondarla deve essere sembrata la scelta migliore e così Aaron Bushnell l’indomani sul New York Times si merita un titolo che brilla per ciò che non dice: “un uomo muore dopo essersi dato fuoco davanti all’ambasciata israeliana a Washington, dice la polizia”. Un record di decontestualizzazione che è il contrario degli insegnamenti di ogni corso di giornalismo. E pensare che lo stesso giornale il 17 marzo del 1965 scriveva di “un’anziana vedova in condizioni critiche qui oggi dopo essersi data fuoco all’angolo di una strada la scorsa notte per protestare contro la politica estera degli Stati Uniti”. Smussarsi per sopravvivere. 

Dopo averlo taciuto qualcuno deve avere pensato che Bushnell anche da morto meritava di essere screditato. Così – come osserva l’editorialista Belén Fernández – il Time riesce a inserire la parola Gaza nel titolo ma ricorda nell’articolo che la “politica del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti stabilisce che i membri del servizio in servizio attivo non dovrebbero impegnarsi in attività politiche di parte”. Sono tempi così, dove protestare contro un genocidio è una posizione “di parte”. “Forse le ceneri di Bushnell potranno essere processate in un tribunale militare”, scrive Fernández. O forse siamo ancora al dito e alla luna, ancora peggio del 1965. 

Buon martedì. 

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Propaganda di guerra. La profezia di Anne Morelli

Anne Morelli è una storica belga che nel 2005 aveva pubblicato in Italia un libro dal titolo “Principi elementari della propaganda di guerra”. L’autrice dimostra come dei meccanismi elementari della propaganda di guerra, utilizzati per la prima volta in occasione del conflitto del 1914-1918, ci si sia serviti regolarmente in tutte le ostilità successive (comprese le più recenti).

Anne Morelli dimostra come dei meccanismi elementari della propaganda di guerra, utilizzati per la prima volta in occasione del conflitto del 1914-1918, ci si sia serviti regolarmente in tutte le ostilità successive (comprese le più recenti)

Il libro, per il suo carattere didattico, ha conosciuto un grande successo internazionale: tradotto in sette lingue (tra le quali il giapponese) e ripubblicato in varie edizioni, si è oggi trasformato in un «classico», utile soprattutto a comprendere come la propaganda ci spinga ad accettare guerre che al loro insorgere disapprovavamo. La propaganda di guerra è un dispositivo antico quanto la guerra stessa, codificato da Arthur Ponsonby, politico pacifista inglese, dopo la prima guerra mondiale.

I dieci punti principali si potrebbero riassumere così: 1. Non siamo noi a volere la guerra, ma siamo costretti a prepararla e a farla; 2. I nemici sono i soli responsabili della guerra; 3. Il nemico ha l’aspetto del male assoluto (salvo averci fatto affari fino a poco prima); 4. Noi difendiamo una causa nobile, non i nostri interessi; 5. Il nemico provoca volutamente delle atrocità, i nostri sono involontari effetti collaterali; 6. Il nemico usa armi illegali, noi rispettiamo le regole; 7. Le perdite del nemico sono imponenti, le nostre assai ridotte; 8. Gli intellettuali e la stampa sostengono la nostra causa; 9. La nostra causa ha un carattere sacro (letterale o metaforico); 10. Quelli che mettono in dubbio la propaganda sono traditori.

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Piantedosamente galleggia

Antropologia di un dei peggiori ministri dell’Interno dell’Italia repubblicana, sulla scia dei pessimi ministri dell’Interno che purtroppo abbiamo avuto in questi ultimi anni. Matteo Piantedosi, ex capo di gabinetto di quel Matteo Salvini relegato da Giorgia Meloni a giocare con i ponti pur di non combinare danni con i porti, ha visto le fascistissime immagini dei manganelli sugli studenti a Pisa e si è indignato. Il suo fastidio per l’operato della polizia lo condivide con il Quirinale quando viene informato che il presidente della Repubblica ha intenzione di intervenire con una nota.

Così un ministro dell’Interno difende irrazionalmente la Polizia più di quanto lo faccia il capo della Polizia

“L’autorevolezza delle Forze dell’Ordine non si misura sui manganelli ma sulla capacità di assicurare sicurezza”, recita il comunicato stampa di Mattarella, sostanzialmente condiviso da Piantedosi. Nel frattempo la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, appena tornata da Kiev, comanda ai suoi di menare le parole per difendere coloro che menano le mani e subito parte un’infornata di comunicati stampa – con il solito Donzelli nella solita parte del cocchiere di corte – per dire che al governo stanno “dalla parte della Polizia senza se e senza ma” e che “i violenti stanno a sinistra”.

Negare e rilanciare è perfino più grave e più fascista dei manganelli: rivittimizzare le vittime è un vigliacco abuso del potere. Che fa Piantedosi? Cambia idea. Abbandona le sue idee convenute con il Quirinale e si cimenta nella parte del cameriere per soddisfare le voglia della sua capa. Così un ministro dell’Interno difende irrazionalmente la Polizia più di quanto lo faccia il capo della Polizia. E anche questa volta il ministro piantedosamente galleggia.

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Steccato di Cutro un anno dopo. E la filoxenia

Un anno fa, il 26 febbraio del 2023, sulla spiaggia di Steccato di Cutro morivano almeno 94 persone. 35 erano bambini. Numeri certi, anche un anno dopo, non ce ne sono. Una ventina di dispersi sono stati inghiottiti dal mare. I corpi sono stati sputati sulla spiaggia per giorni, quattro o cinque al giorno. 

Un anno fa la prima reazione di questo governo a una tragedia che ha insozzato i salotti degli italiani – quindi inevitabile – consisteva nell’accusare i morti di essere partiti per morire. Poi la presidente del Consiglio Giorgia Meloni con tutti i membri del suo governo è andata in gita a Cutro per inscenare un Consiglio dei ministri in favore di stampa. Sono stati accolti da peluche buttati sulle auto delle scorte come maledizione per quei cadaveri bambini. Hanno licenziato un decreto mortifero a cui hanno dato il nome del lutto, come ferali influencer della politica. La presidente del Consiglio non ha visitato le salme e i famigliari per i “troppi impegni”. Poi abbiamo saputo che quella sera c’era un importante karaoke per il compleanno di Matteo Salvini dove stonare ridanciani la canzone su una migrante annegata di Fabrizio De André. 

Ai familiari dei sopravvissuti Meloni aveva promesso canali umanitari e lo status di rifugiati. Promessa mai mantenuta. Il “decreto Cutro” non ha rispettato i morti e ha aumentato il sabotaggio nei confronti dei vivi. 

In piazza del Popolo a Cutro c’è una scultura dell’artista Antonio Tropiano. È una mano che esce dall’onda e tiene il lembo di un’imbarcazione. Si chiama Symbolon che deriva dal verbo “symballo” che significa “unire”, ma anche soccorrere, aiutare. Filoxenia, ossia l’amore per lo straniero: è con questo termine che si definiva il valore sacro dell’ospitalità, quel principio etico fondamentale della cultura greca che distingueva l’uomo giusto dall’iniquo.

Buon lunedì. 

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