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Il generale delle gaffe: Vannacci inciampa sulle leggi per la cittadinanza

Nel circo politico italiano, Roberto Vannacci ancora una volta si distingue per la sua capacità di elevare la gaffe a disinformazione. L’ultimo capolavoro del neo-europarlamentare leghista è andato in scena a Pontida, dove ha regalato al suo pubblico una lezione magistrale su come parlare di leggi sulla cittadinanza senza avere la minima idea di cosa stesse parlando. 

La lezione di geografia creativa di Vannacci

Vannacci, con la solita sicumera, ha dichiarato: “Chi è che vi dà la cittadinanza Il Marocco forse se la chiedete? La Libia Il Bangladesh? La Nigeria No, non ve la concedono, e quindi non c’è motivo affinché noi la regaliamo agli altri”. Un’affermazione che sarebbe stata brillante, se solo Carlo Canepa di Pagella Politica, evidentemente afflitto dalla malsana abitudine di verificare i fatti prima di parlare, non avesse avuto la pazienza di smontare la perla di saggezza vannacciana scoprendo che in tutti i paesi citati dal generale esistono leggi che prevedono la concessione della cittadinanza agli stranieri. Che sorpresa.

In Marocco, ad esempio, un bambino nato da genitori stranieri può ottenere la cittadinanza se i genitori sono nati nel paese. La legge marocchina offre anche una seconda possibilità: chiunque nasca in Marocco da un padre straniero a sua volta nato in Marocco può chiedere la cittadinanza marocchina se il padre proviene da un Paese in cui la maggioranza della popolazione parla l’arabo e in cui la religione più diffusa è l’Islam. Inoltre, uno straniero può ottenere la cittadinanza del Marocco per “naturalizzazione” dopo cinque anni di residenza regolare, dimostrando una sufficiente conoscenza della lingua araba e mezzi di sostentamento adeguati.

La Libia richiede dieci anni di residenza per la naturalizzazione. In Nigeria, la cittadinanza per naturalizzazione richiede 15 anni di residenza, ma questo periodo può ridursi a 12 mesi se nei vent’anni precedenti si è vissuto in Nigeria per un periodo complessivo non inferiore a 15 anni. Il Bangladesh chiede cinque anni di residenza, una buona conoscenza del bengalese e l’intenzione di rimanere nel paese dopo l’ottenimento della cittadinanza. 

I dati evidenziano non solo l’imprecisione delle affermazioni di Vannacci ma anche la complessità delle dinamiche migratorie e delle politiche di cittadinanza. Le leggi sulla naturalizzazione nei paesi citati, lungi dall’essere inesistenti come sostenuto da Vannacci, riflettono una varietà di approcci e requisiti.

L’analisi comparativa rivela anche che questi paesi, pur avendo leggi sulla cittadinanza meno liberali rispetto ad alcuni stati europei, non chiudono completamente le porte agli stranieri. Al contrario, offrono percorsi, seppur talvolta complessi, per l’integrazione legale degli immigrati di lungo periodo.

Numeri che parlano: la realtà contro la retorica

In Italia vivono 415 mila marocchini, 124 mila nigeriani e 174 mila bangladesi. Ma ci sono anche italiani che hanno fatto il viaggio al contrario. In Marocco sono 6.101, in Nigeria 840 e in Bangladesh 531.

Ma Vannacci non è solo in questa crociata contro la realtà. Il ministro Piantedosi, non molto tempo fa, ha dichiarato che nessun paese europeo applica lo ius scholae dimenticando paesi come Grecia, Portogallo, Lussemburgo e Slovenia abbiano forme di ius scholae nelle loro leggi sulla cittadinanza.

Ogni giorno il dibattito (bassissimo) sulla cittadinanza svela il lato peggiore della propaganda. 

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Meloni & C. nel mirino: accesso abusivo ai conti della premier, della sorella e di altri politici, magistrati e vip

Il quotidiano Domani ha svelato l’ennesimo caso di dossieraggio che coinvolge i vertici delle istituzioni italiane. Questa volta a finire sotto la lente d’ingrandimento sono i conti correnti della premier Giorgia Meloni, di sua sorella Arianna e di numerosi altri esponenti politici e istituzionali di primo piano.

Secondo quanto emerso, un dipendente di una banca avrebbe effettuato migliaia di accessi abusivi ai conti correnti di politici, magistrati, imprenditori e personaggi dello spettacolo. L’ex bancario, ora licenziato, è al centro di un’indagine della Procura di Bari che potrebbe avere sviluppi clamorosi.

Lo scandalo in numeri: migliaia di accessi abusivi ai conti dei potenti

I numeri forniti da Domani sono impressionanti: quasi 7.000 accessi non autorizzati realizzati tra il febbraio 2022 e l’aprile 2024, per un totale di oltre 3.500 clienti “spiati” in 679 filiali sparse su tutto il territorio nazionale. Un’attività sistematica e capillare, dunque, che solleva interrogativi sulle reali finalità di questa massiccia raccolta di informazioni riservate.

Tra i nomi eccellenti finiti nel mirino del funzionario infedele figurano, oltre alla premier Meloni e a sua sorella Arianna, il ministro della Difesa Guido Crosetto, la ministra del Turismo Daniela Santanchè, il presidente del Senato Ignazio La Russa e l’ex compagno della Meloni, Andrea Giambruno. Ma la lista comprende anche governatori regionali come Michele Emiliano e Luca Zaia, alti magistrati come il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo, oltre a imprenditori, sportivi e militari di cui non sono stati resi noti i nomi.

L’inchiesta è partita quasi casualmente grazie alla segnalazione di un correntista di Bitonto (Bari) che aveva notato anomalie negli accessi al proprio conto. Da lì sono scattati gli accertamenti interni di Intesa Sanpaolo, che hanno portato al licenziamento del dipendente l’8 agosto scorso e alla successiva denuncia alle autorità competenti.

Ora gli inquirenti baresi stanno cercando di far luce sui reali obiettivi di questa imponente attività di spionaggio finanziario. Al momento non è chiaro se il funzionario abbia agito per mera curiosità personale o se dietro ci siano finalità più complesse, come la ricerca di informazioni sensibili da utilizzare per scopi non ancora identificati.

La vicenda solleva nuovamente l’attenzione sulla sicurezza dei dati sensibili dei cittadini, dopo i recenti casi di accessi abusivi alle banche dati delle forze dell’ordine e della magistratura. Un problema che sembra assumere dimensioni sempre più ampie, mettendo in evidenza potenziali vulnerabilità nei sistemi di protezione delle informazioni riservate.

Reazioni e indagini: la risposta delle istituzioni e della banca

La reazione della premier Meloni non si è fatta attendere. Con un post sui social ha commentato: “Dacci oggi il nostro dossieraggio quotidiano”, a sottolineare come episodi del genere stiano diventando sempre più frequenti. Una battuta che evidenzia la preoccupazione per un fenomeno che sembra aver preso di mira in modo particolare gli esponenti dell’attuale governo.

Dal canto suo, l’istituto bancario ha precisato in una nota di aver “tempestivamente adottato le opportune iniziative disciplinari” nei confronti del dipendente, sottolineando come il comportamento anomalo sia stato individuato grazie ai sistemi di controllo interni della banca. Ed ha inoltre assicurato il proprio impegno a “evolvere i sistemi nell’ottica di garantire la massima protezione dei dati della clientela”.

Il caso si inserisce in un contesto già caratterizzato dalle polemiche sui presunti dossieraggi ai danni di politici ed imprenditori, oggetto di diverse inchieste giudiziarie. Tra queste, spicca l’indagine in corso a Perugia per accesso abusivo alle banche dati, legata a operazioni sospette della Uif (Unità di Informazione Finanziaria). Una vicenda complessa che ha visto recentemente l’audizione del ministro Crosetto al Copasir, dopo la sua denuncia sulla pubblicazione di notizie coperte da segreto a suo carico.

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85, bastano per tornare a discuterne?

Forse il giornalismo – quello che si promette di raccontare il suo tempo – oltre a sfrucugliare nel sacchetto dell’umido per darci in pasto i particolari macabri dalla bocca di Filippo Turetta potrebbe dirci dello squarcio nei figli di Eleonora Toci. Loro ieri hanno dovuto mostrare alla zia il cadavere della madre strangolata dal padre, con il telefono in mano. 

Oppure potrebbero concentrarsi sullo strazio di Maria Arcangela Turturo, 60 anni, che quattro giorni fa ha usato gli ultimi respiri per raccontare a sua figlia di essere stata bruciata e poi soffocata dal marito Giuseppe Lacarpia, 65 anni lì belli in mostra a smentire il testosterone come movente. 

Cinque giorni fa è stata ammazzata Letizia Girolami, 72 anni, trovata morta in un casolare spettrale. È stata uccisa dall’ex compagno della figlia, un altro uomo incapace di fare i conti con la fine di una relazione. 

Il 26 settembre il corpo senza vita di Maria Campai, 42 anni, è stato trovato a Viadana, un comune della provincia di Mantova.‍ Il ragazzo che l’ha uccisa si è lamentato per una prestazione sessuale che non valeva i soldi pattuiti. Quello stesso giorno a Tarzo, nei pressi di Treviso, è stata ammazzata Cesira Bianchet. 

Due ammazzate anche il giorno prima, il 25 settembre, Giusi e Martina Massetti erano madre e figlia. Roberto Gleboni, 52 anni, ha sparato a tutti i membri della sua famiglia prima di uccidersi. Morto anche il figlio Francesco e un vicino di casa. 

Tra il 22 e il 24 settembre ne sono state ammazzate tre: Loretta Levrini, Antonella Lopez e Rosa Nabi. Sono 85 donne uccise dall’inizio dell’anno, secondo il Viminale 65 sono femminicidi. Bastano per tornare a discuterne?

Buon giovedì. 

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Tagli al lavoro in carcere, altro che rieducazione

Da quando è diventato ministro della giustizia Carlo Nordio ha ripetuto che il lavoro in carcere è fondamentale per il reinserimento sociale delle persone detenute e per abbassare il tasso di recidiva. Essendo ministro ci si aspetterebbe quindi che nel corso del suo mandato abbia agito alla stregua delle sue parole. Dovrebbe accadere così: chi governa illustra le sue priorità e poi agisce di conseguenza. Dovrebbe essere semplice, lineare. E invece no. In una nota del Provveditorato Regionale del Piemonte, Liguria e Valle D’Aosta si legge infatti come il fabbisogno rilevato per mantenere i tassi di occupazione fosse di 2 milioni di euro, mentre dal Ministero della Giustizia è stato erogato meno del 50% di questo fabbisogno. Per questo, il Prap, ha invitato le direzioni degli istituti a tagliare il numero di persone lavoranti o comunque di ridurre le ore di lavoro che le stesse svolgono.

Questi tagli potranno colpire peraltro categorie specifiche di lavoratori: quelli che prestano assistenza ad altri detenuti disabili o non pienamente autosufficienti, o quelli a supporto dell’area pedagogica (bibliotecari e scrivani). A lavorare in carcere è solo circa il 30% delle persone detenute e la maggior parte di esse lavora alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, peraltro in molti casi già per pochi giorni o poche ore alla settimana. Il guadagno che si ottiene serve a garantire un ritorno in libertà dove si abbiano a disposizione un minimo di risorse per far fronte alle spese, comprese quelle del mantenimento che ogni persona detenuta deve versare allo Stato a fine pena. Quelli dell’associazione Antigone si chiedono come il ministro possa smentirsi facendo tutto da solo. È una buona domanda.

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Generazione in crisi: il crollo della salute mentale dei giovani italiani

Il 10 ottobre ricorre la Giornata mondiale della salute mentale, un’occasione per esaminare i dati sul benessere psicologico delle nuove generazioni. L’analisi di Openpolis offre un quadro dettagliato della situazione in Italia.

L’indice di salute mentale tra gli adolescenti italiani (14-19 anni) è sceso a 71 nel 2023, rispetto al 72,6 dell’anno precedente. Questo calo evidenzia come i livelli pre-Covid non siano ancora stati recuperati. Il dato è particolarmente significativo se confrontato con la media della popolazione: il divario emerso durante la pandemia non sembra colmarsi.

Il divario di genere: una ferita aperta nella salute mentale giovanile

Il report mette in luce un marcato divario di genere: tra le adolescenti l’indice di salute mentale si attesta a 67,4, circa 7 punti in meno rispetto ai coetanei maschi (74,3). Questa differenza, sebbene presente in tutte le fasce d’età, risulta particolarmente accentuata tra i più giovani.

Il contesto familiare gioca un ruolo cruciale. Openpolis riporta che solo il 42% delle ragazze in Veneto ed Emilia-Romagna dichiara di ricevere un elevato supporto familiare, una percentuale ben al di sotto della media nazionale. Al contrario, oltre due terzi degli studenti maschi della provincia autonoma di Bolzano (71,7%), della Valle d’Aosta (66,5%) e della Puglia (66,2%) dichiarano di sentirsi fortemente supportati dalla famiglia.

Scuola e social media: i nuovi fronti della crisi

La scuola rappresenta un altro fattore chiave. Circa il 60% degli studenti intervistati dichiara di sentirsi molto o abbastanza stressato dall’ambiente scolastico, una percentuale in aumento rispetto alla rilevazione del 2017/18. Il picco si raggiunge tra le ragazze 15enni: quasi l’80% riporta livelli elevati di stress legato alla scuola.

L’uso dei social media emerge come un altro aspetto critico. Il 13,5% degli adolescenti mostra un uso problematico di queste piattaforme, con punte del 20,5% tra le ragazze di 13 anni e del 18,5% tra quelle di 15. La Campania guida questa classifica, con il 16% degli adolescenti che fa un uso problematico dei social, seguita da Calabria e Puglia con quote poco inferiori al 15%.

Openpolis sottolinea l’importanza di una rete sociale e di servizi su cui fare affidamento. Durante la pandemia, la presenza di reti sociali, sanitarie ed educative capaci di collaborare in modo sinergico ha rappresentato un fattore protettivo per il benessere dei ragazzi.

Tuttavia, il sistema attuale mostra diverse criticità. I centri di assistenza di neuropsichiatria infantile e adolescenziale non sono presenti in tutte le regioni. Nel 2022, questi centri erano articolati in 58 strutture residenziali e 53 semiresidenziali. Inoltre, a fronte di un fabbisogno stimato di 700 posti letto nei reparti di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza, attualmente ne sono disponibili solo circa 400.

Il fenomeno dei giovani neet (Not in Education, Employment or Training) è un altro indicatore significativo. Nel 2020, l’Italia ha registrato il 23,3% di neet nella fascia 15-29 anni, il dato più alto nell’Unione Europea. Questo fenomeno è particolarmente accentuato nelle regioni del mezzogiorno: Sicilia (37,5%), Calabria (34,6%) e Campania (34,5%) mostrano le percentuali più elevate.

L’indagine sui comportamenti collegati alla salute in ragazzi di età scolare (HBSC), promossa dall’OMS e condotta in Italia dall’Istituto Superiore di Sanità, fornisce ulteriori dati. Nel 2022, sono state campionate oltre 6.000 classi in tutte le regioni italiane, offrendo una panoramica dettagliata su vari aspetti della salute e del benessere dei giovani.

I dati mostrano che al crescere dell’età, diminuisce la facilità con cui ragazze e ragazzi riescono ad aprirsi con i genitori. Tra i 15enni, solo il 51,8% delle ragazze dichiara di ricevere un elevato supporto familiare, contro il 60,7% dei coetanei maschi.

Per quanto riguarda la scuola, il 61,8% dei 15enni si sente accettato dagli insegnanti, ma solo il 35,4% percepisce un interesse da parte dei docenti. Due su tre (66,6%) si sentono accettati per come sono dai compagni di classe.

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Dazi sul brandy, cosa c’è dietro la nuova guerra fredda economica tra Ue e Cina

Nell’escalation di tensioni commerciali che sta assumendo i contorni di una vera e propria guerra economica, la Cina ha sferrato un colpo diretto al cuore dell’industria europea del lusso. Il ministero del Commercio cinese ha annunciato che dall’11 ottobre imporrà dazi anti-dumping sulle importazioni di brandy dall’Unione europea, in quella che appare come una chiara ritorsione dopo la decisione di Bruxelles di imporre tariffe sui veicoli elettrici made in China.

Le bottiglie di Martell, Remy Martin, Hennessy e Nonino si troveranno improvvisamente gravate da un’aliquota che oscilla tra il 30,6% e il 39% al loro ingresso nel mercato cinese. Un colpo basso che mira dritto al portafoglio dei produttori europei ma soprattutto un messaggio inequivocabile: la Cina non ha intenzione di subire passivamente le politiche protezionistiche dell’Ue.

La Cina alza i calici: una mossa strategica oltre l’alcol

Il cambio di azione di Pechino, che solo poche settimane fa aveva rassicurato sul fatto che non avrebbe imposto dazi sul brandy europeo, segna un punto di non ritorno nelle relazioni commerciali sino-europee. Ma c’è di più: il dragone non sembra intenzionato a fermarsi qui. Il Ministero del Commercio ha già fatto sapere che, per “proteggere i legittimi diritti delle industrie e delle aziende cinesi” potrebbe estendere la sua rappresaglia ad altri settori chiave dell’export europeo, come l’automotive, la carne suina e i prodotti lattiero-caseari.

Dieci paesi dell’Ue hanno votato a favore dei dazi sulle auto cinesi, tra cui Paesi Bassi, Italia e Polonia, e ora rischiano di essere più esposti alle ritorsioni della Cina. Germania e Ungheria, d’altra parte, erano tra i cinque paesi che hanno votato contro l’iniziativa europea. 

Bruxelles in hangover: la risposta tiepida dell’Ue

Di fronte a questa escalation la reazione di Bruxelles appare sorprendentemente tiepida. Il commissario agli Affari economici, Paolo Gentiloni, ha dichiarato con nonchalance: “Non siamo mai preoccupati”. Una frase che suona più come un wishful thinking che come una reale valutazione della situazione. Gentiloni ha poi aggiunto: “Abbiamo preso decisioni appropriate e molto proporzionate. Non penso che ci sia alcuna ragione di reagire a questa decisione proporzionata con una ritorsione”. Parole che sembrano ignorare la portata della sfida lanciata da Pechino.

La Commissione europea ha annunciato che ricorrerà all’Organizzazione Mondiale del Commercio contro i dazi cinesi su brandy e cognac, dichiarando di essere “determinata a difendere l’industria dell’Ue contro l’abuso degli strumenti di difesa commerciale”. Una mossa che, seppur necessaria, rischia di apparire come un mero esercizio burocratico di fronte alla rapidità e all’incisività dell’azione cinese.

La guerra dei dazi sul cognac non è solo una questione di alcolici di lusso. È il sintomo di un conflitto più profondo che vede contrapposte due visioni del commercio internazionale: da un lato, l’approccio pragmatico e aggressivo della Cina, dall’altro, l’ideale europeo di un mercato globale regolato e “fair”. Il rischio è che, mentre l’Ue si attarda in discussioni su regole e procedure, la Cina continui a guadagnare terreno, imponendo di fatto le proprie condizioni.

In questo contesto, l’Unione europea si trova di fronte a un bivio: continuare sulla strada di un approccio conciliante, rischiando di vedere erosa la propria competitività, o sviluppare una strategia geoeconomica più assertiva, capace di tutelare gli interessi europei in un mondo sempre meno incline al compromesso.

La guerra dei dazi potrebbe essere solo l’inizio di una sfida molto più ampia che richiederà all’Ue una profonda riflessione sul suo ruolo nel mondo e sugli strumenti necessari per affermare i propri interessi. E non basterà rinchiudersi nel sovranismo economico. 

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600 gigatonnellate di ghiaccio svanite nel nulla: il 2023 anno nero per l’acqua

Il 2023 per le risorse idriche globali è stato il peggiore degli ultimi tre decenni per le risorse idriche globali. Il rapporto “State of Global Water Resources 2023” dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale (OMM) fotografa uno scenario allarmante, caratterizzato da fiumi in secca, ghiacciai in rapido scioglimento e una siccità senza precedenti che ha colpito vaste aree del pianeta.

I dati presentati dall’OMM sono inequivocabili: oltre il 50% dei bacini fluviali monitorati ha registrato portate inferiori alla media storica. Emblematici i casi del Mississippi e dell’Amazzonia, che hanno toccato i livelli più bassi mai osservati. Il 26 ottobre 2023, il livello dell’acqua nel bacino amazzonico presso il porto di Manaus ha raggiunto il minimo storico di 12,70 metri, il più basso registrato dal 1902. In Europa, bacini come quello del Danubio hanno mostrato condizioni di sofferenza idrica.

Fiumi in secca e ghiacciai in fuga: il volto della crisi dell’acqua globale

Il rapporto evidenzia come le condizioni di siccità abbiano interessato vaste regioni del globo. In Nord America, l’intero territorio ad eccezione dell’Alaska ha sperimentato condizioni di portata fluviale da inferiori a molto inferiori alla norma. La situazione è stata particolarmente grave in America Centrale e Meridionale, con il Messico che ha registrato l’anno più secco di sempre, con precipitazioni del 21% inferiori alla media.

Ma è sui ghiacciai che si registra il dato più allarmante. Nel 2023 hanno perso oltre 600 gigatonnellate di massa, il valore più alto degli ultimi 50 anni. Questo fenomeno ha contribuito per 1,7 millimetri all’innalzamento del livello del mare, segnando una accelerazione preoccupante del processo. Il rapporto sottolinea come sia il secondo anno consecutivo in cui tutte le regioni glaciali del mondo hanno registrato una perdita di ghiaccio.

La causa principale di questa crisi idrica globale è stata identificata nel caldo record che ha caratterizzato il 2023, l’anno più torrido mai registrato con temperature medie 1,45°C sopra i livelli preindustriali. Le temperature estreme hanno provocato siccità prolungate in molte regioni, dalla California al Corno d’Africa.

Dall’economia all’ambiente: gli impatti multidimensionali della crisi idrica

Le conseguenze non sono solo ambientali ma anche economiche e sociali. In Argentina, la prolungata siccità ha causato una perdita del 3% del PIL. In Libia, le inondazioni seguite a un periodo di grave aridità hanno provocato oltre 4.700 vittime e 8.000 dispersi, colpendo il 22% della popolazione del paese.

Il rapporto dell’OMM sottolinea anche l’importanza cruciale del monitoraggio delle risorse idriche. Nonostante i progressi registrati nell’ultimo anno, con un aumento significativo delle stazioni di misurazione della portata fluviale (da 273 in 14 paesi nel 2022 a 713 in 33 paesi nel 2023), ampie aree del pianeta rimangono prive di sistemi di osservazione adeguati, soprattutto in Africa e Sud America.

Il documento evidenzia anche come le anomalie nella disponibilità idrica non si limitino alle acque superficiali. L’analisi dei livelli delle acque sotterranee, basata su dati provenienti da oltre 35.000 pozzi in 40 paesi, ha rivelato situazioni critiche in diverse regioni. In particolare, vaste aree del Nord America, del Cile centrale e meridionale, dell’Europa meridionale e dell’Australia occidentale e meridionale hanno registrato livelli di falda inferiori o molto inferiori alla norma.

L’analisi delle aree sotto diverse condizioni di portata fluviale dal 1991 al 2023 mostra una tendenza crescente verso condizioni di siccità nel tempo, con il 2023 che risulta l’anno più secco degli ultimi 33 anni, seguito dal 2021 e dal 2015.

Il “State of Global Water Resources 2023” dell’OMM sottolinea l’importanza di migliorare i sistemi di monitoraggio, condividere i dati e sviluppare strategie di adattamento per affrontare le sfide poste dai cambiamenti climatici sul ciclo idrologico globale. Magari iniziando a non negare l’innegabile. 

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Von der Leyen contro Orbán: “Non protegge l’Europa, scarica i problemi sui vicini”

In Europa ci si abitua presto alla retorica del “troppo poco, troppo tardi”. Eppure, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha deciso di scuotersi e rispondere a Viktor Orbán. Finalmente, verrebbe da dire. Lo scontro si consuma in plenaria del Parlamento europeo a Strasburgo, e fotografa la Commissione e il premier ungherese su posizioni inconciliabili.

Se Orbán ha usato il suo intervento all’Eurocamera sulle priorità della presidenza ungherese dell’Ue per difendere il suo operato e presentare l’Ungheria come l’alfiere di un’Europa che deve cambiare, von der Leyen ha finalmente smesso di usare guanti di velluto. E, anche se l’assalto verbale arriva con anni di ritardo, il messaggio è chiaro: basta tollerare un’Unione Europea che tradisce sé stessa.

Ursula contro Viktor: lo scontro a Strasburgo

Dalla presidente della Commissione non ci si aspetta un linguaggio che morde ma questa volta ha rinunciato all’aplomb. “Per la guerra in Ucraina c’è ancora qualcuno che dà la colpa non all’invasore ma all’invaso. Mi domando: qualcuno ha mai incolpato gli ungheresi per l’invasione sovietica del 1956?”, ha incalzato von der Leyen, sferzante. Un colpo diretto al premier ungherese che, dopo mesi di ambiguità e strizzatine d’occhio verso Mosca.

Le parole della presidente sono risuonate come un atto d’accusa verso il tradimento dell’Europa da parte di Orbán. Un leader che gioca al sovranismo sul filo della provocazione ma che è ancora aggrappato ai vantaggi economici e politici dell’Unione. Un Orbán che, come von der Leyen ha sottolineato, fa a pezzi il Mercato Unico, imponendo barriere alle imprese europee e sovvenzionando le proprie.

Von der Leyen contro Orbán: inizia la resa dei conti

È chiaro: il dibattito di oggi non è stato solo uno scambio acceso. È stato l’inizio di una resa dei conti. Orbán ha sfidato Bruxelles ripetendo la sua solita litania anti-migranti, dipingendo un’Europa che rischia il collasso a causa della crisi migratoria e sottolineando la necessità di chiudere le frontiere. Le sue soluzioni? Costruire hotspot esterni all’Unione e ripristinare un “vero” sistema Schengen, esclusivo e selettivo.

La realtà però è ben diversa: lo stesso governo ungherese ha liberato trafficanti di esseri umani prima che scontassero la loro pena. Non ha esitato a lasciarli andare, gettando benzina sul fuoco della crisi migratoria. Von der Leyen ha colto al volo l’occasione, pungendo senza remore: “Questo non significa proteggere l’Unione, significa buttare i problemi verso i vicini”.

Lo scontro si infiamma: von der Leyen abbandona la diplomazia

Le tensioni si sono elevate ancora quando la presidente della Commissione ha ricordato che l’Ungheria, sotto la guida di Orbán, si sta allontanando dal Mercato Unico. “Come può un governo attrarre investimenti europei se impone restrizioni e colpisce arbitrariamente le imprese?”, ha domandato von der Leyen, lasciando Orbán senza replica. E non è finita qui: la presidente ha rimarcato come il Pil pro capite dell’Ungheria sia stato superato da quello dei suoi vicini dell’Europa centrale. Un chiaro affondo sul fallimento economico di un regime che si è presentato come il salvatore della nazione e del continente.

La reazione di Orbán e il cambio di equilibri nell’Ue

Ma se l’affondo di von der Leyen è stato la scossa, la reazione di Orbán non si è fatta attendere. Forte del sostegno (quasi incondizionato) del suo gruppo, ha ribadito che la presidenza ungherese del Consiglio Ue sarà il catalizzatore del cambiamento. Un cambiamento che, a suo dire, deve coinvolgere tutti i membri e riportare l’Unione a un passato (forse mai esistito) di sovranità nazionale e di rigida chiusura contro l’immigrazione.

In questo gioco delle parti, c’è stato un elemento che ha cambiato l’equilibrio. Manfred Weber, leader del Ppe, si è presentato al fianco di Peter Magyar, leader dell’opposizione ungherese, definendolo “la vera voce dell’Ungheria”. “Orbán è il passato, Magyar lo batterà”, ha dichiarato Weber, segnando un punto di rottura tra il Ppe e il Fidesz. E quando un leader come Weber arriva a fare un passo così netto, qualcosa sta davvero cambiando.

Ungheria nel mirino: finito il tempo del “laisser faire”

Sarà sufficiente? Difficile dirlo. L’Unione europea, in tutte le sue ramificazioni, ha tollerato troppo e troppo a lungo. Orbán non si è fatto scrupoli a proseguire sulla sua linea, consapevole che i richiami della Commissione spesso si traducono in poco più che dichiarazioni di principio.

Ma se la presidente della Commissione ha scelto questo momento per alzare il tiro è perché ha intuito che il tempo del “laisser-faire” è scaduto. Anche se le parole di oggi rischiano di rimanere un fuoco di paglia in questa partita Bruxelles non può permettersi di tornare indietro.

Tridico (M5S): “Da Orbán, propaganda e zero soluzioni”

Il capo delegazione a Bruxelles del M5s Pasquale Tridico spiega che “la propaganda di Orban è ormai un disco rotto”. L’eurodeputato sottolinea come Orbàn “nel suo intervento al Parlamento europeo non ha avanzato proposte, soluzioni o ricette per portare fuori l’Unione europea dal pantano in cui attualmente galleggia, incapace di imporre la pace in Ucraina e Medio Oriente, sottomessa ai giganti USA e Cina e ai loro potentati economici, miope davanti all’esigenza impellente di nuovi strumenti per combattere la stagnazione, le diseguaglianze, i tagli a sanità e istruzione”. Sulla stessa linea Nicola Zingaretti, capo delegazione eurodeputati Pd, secondo cui “Orban a Bruxelles conferma una cosa: il populismo ha slogan non soluzioni. Non ha una idea di Europa, la vuole solo distruggere”.

Insomma, è l’inizio di una guerra dialettica e politica in cui l’Unione, per una volta, sembra aver deciso di non fare più sconti a chi la tradisce dall’interno. Ma la domanda che resta è: Bruxelles avrà davvero il coraggio di spingersi fino in fondo?

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Il ministro tutto patina e distintivo

«Con la quarta rivoluzione epocale della storia delineante un’ontologia intonata alla rivoluzione permanente dell’infosfera globale, il rischio che si corre è duplice e speculare». E poi: «l’entusiasmo passivo, che rimuove i pericoli della iper-tecnologizzazione e per converso l’apocalittismo difensivo che rimpiange un’immagine del mondo trascorsa, impugnando un’ideologia della crisi che si percepisce come processo alla tecnica e al futuro intese come una minaccia». 

C’è da sperare che il testo con cui si è presentato il neo ministro alla Cultura Alessandro Giuli sia stato scritto da un suo fidato e scarso collaboratore. Avremmo almeno una spiegazione sul suo incespicare in un discorso che avrebbe voluto essere un manifesto culturale e invece si incaglia nel genere delle supercazzole. Il ministro avrebbe potuto, almeno, ripeterlo un paio di volte davanti a uno specchio nella sua camerata. Si sarebbe accorto dell’effetto tragico che fa l’ampollosità quando viene sfoderata per fingere di sapere. Si sarebbe accorto, forse, anche della citazione sbagliata su Hegel. 

Al di là del niente mischiato con il niente però Giuli ci fa sapere di essere perfettamente in linea con la premier nel neocolonialismo del cosiddetto Piano Mattei («mettere a disposizione dei Paesi africani le nostre capacità») e nel panpenalismo del Decreto Caivano («interessarsi delle periferie senza considerarle tali», dice). 

Il ministro tutto patina e distintivo è pronto per iniziare.

Buon mercoledì. 

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Il massacro dimenticato, a Gaza uccisi 167 cronisti

Eccoci qua, primo anniversario del 7 ottobre. Tutti a commemorare, piangere, gridare. Ma c’è un massacro di cui nessuno parla. Un massacro che continua, giorno dopo giorno. Silenzioso, metodico, spietato. Il “giornalisticidio” palestinese. Dietro alla parola ci sono 167 cadaveri. Giornalisti. Ammazzati come mosche da chi evidentemente ha qualcosa da nascondere. E non parliamo di “effetti collaterali della guerra”. No, qui si tratta di esecuzioni mirate. Articolo 21 ce lo racconta nero su bianco: 167 cronisti uccisi, 62 arrestati, 88 uffici distrutti. La più grande mattanza di giornalisti della storia. Sono palestinesi che cercavano di fare il loro lavoro. Li ammazzano a tavola, nel letto. Insieme alle loro famiglie. Perché evidentemente un giornalista è pericoloso pure quando dorme. E il giubbotto con su scritto “Press”? Un bersaglio, ecco cos’è diventato.

L’Occidente tace. I paladini della libertà di stampa si sono presi una vacanza. E intanto a Gaza si continua a morire. Di bombe, di fame, di sete. Ma guai a raccontarlo. Chi prova a farlo finisce sei piedi sotto terra o in galera. Perché la verità, si sa, è la prima vittima della guerra. Il Sindacato dei giornalisti palestinesi grida al mondo: “Fermate questo massacro!”. Ma il mondo ha le cuffie alle orecchie. Non sente, non vede, non parla. Così, mentre celebravamo il 7 ottobre, c’è chi festeggiava un anno di censura perfetta. Un anno di bugie non smentite, di crimini non documentati. Un anno di “giornalisticidio”. Ecco, la prossima volta che sentite parlare di libertà di stampa, ricordatevi di loro. Di quei 167 colleghi ammazzati per aver fatto il loro mestiere. Di quei 62 che marciscono in galera. Degli 88 uffici rasi al suolo.

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