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È Cassazione: la politica con la Libia è feccia

Dice la Corte di Cassazione che consegnare i migranti alle motovedette della cosiddetta Guardia costiera libica è un reato di “abbandono in stato di pericolo di persone minori o incapaci e di sbarco e abbandono arbitrario di persone”. La Corte ribadisce quello che chiunque mastichi un po’ di diritto internazionale (no, non è questione di buonismo) sa da tempo: la Libia non è un porto sicuro. 

La sentenza si riferisce alla condanna ora definitiva del comandante del rimorchiatore Asso 28 che a luglio del 2018 accalappiò 101 migranti su un gommone nei pressi di una piattaforma petrolifera e li consegnò ai criminali della cosiddetta Guardia costiera libica.

Quella sentenza sancisce de relato anche fondamentali giudizi politici: gli accordi con la Libia sono criminali, illegali, contro il diritto del nostro Paese. Accordi criminali firmati dall’ex ministro dem Marco Minniti il 2 febbraio 2017 sotto il governo Gentiloni e poi attraversati da compiacenti governi di tutte le parti politiche (primo governo Conte e poi governo Meloni) con particolare solluchero dei leader di destra. 

Quella sentenza dice che devono essere risarcite le Ong multate in questi anni per avere disobbedito agli ordini dei criminali libici. Quella sentenza dice che i governi ne devono rispondere. Quella sentenza soprattutto dice che la politica sul Mediterraneo dal 2017 non è solo mortifera: è spazzatura giuridica. Inutile dire che è spazzatura l’impianto su cui poggia anche il cosiddetto piano Mattei. 

È una notizia che dovrebbe stare sulle prime pagine dei giornali. Invece no. 

Buon lunedì.

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Slittano gli acquisti per la diagnostica. Dai tagli al Pnrr altra beffa alla Sanità

Con la rimodulazione del Pnrr, l’acquisto di oltre 3.100 apparecchiature moderne come Tac, risonanze magnetiche, radiografie che andranno a sostituire quelle datate attualmente utilizzate negli ospedali italiani, slitta da dicembre 2024 a giugno 2026.

Con la rimodulazione del Pnrr, l’acquisto di oltre 3.100 apparecchiature moderne come Tac, risonanze magnetiche, radiografie

Per il sottosegretario alla Salute, Marcello Gemmato, “il differimento della scadenza massima prudenziale del Target M6C2-6” che riguarda la sostituzione delle apparecchiature ospedaliere “è reso necessario per rispondere ad alcune esigenze sollevate dalle Regioni/Province autonome. Il cronoprogramma del sub-investimento in questione, infatti, era stato costruito, in fase di prima programmazione, sulla base delle sole tempistiche dettate dall’adesione a convenzioni Consip per l’affidamento delle apparecchiature, senza tener conto dei lavori, in taluni casi necessari, per l’installazione delle grandi apparecchiature oggetto dell’obiettivo europeo”, ha spiegato Gemmato in commissione Affari sociali alla Camera rispondendo all’interrogazione presentata da Simona Bonafè (Pd) sul tema.

Quasi l’intero fabbisogno (3.133 su 3162) per la sostituzione dei macchinari ospedalieri indicato dalle Regioni avrebbe dovuto essere sostituito per metà settembre 2023 e per il resto entro la fine di quest’anno. Non è un problema da poco. All’ultimo rapporto del ministero della Salute (nel lontano 2017) risulta che in Italia in media negli ospedali pubblici e privati convenzionati il 36% dei macchinari ha più di 5 anni e il 32% oltre 10. Le ragioni sono note: attrezzature obsolete espongono il paziente a più radiazioni e a diagnosi meno precise. L’obsolescenza incide anche sui tempi di indisponibilità delle apparecchiature per l’aumento dell’incidenza dei guasti e malfunzionamenti con tac, risonanze e mammografi: ambulatori che si fermano e costi di manutenzione che crescono.

I 3.100 macchinari previsti avrebbero dovuto rimpiazzare quelli ormai obsoleti ancora in uso

Il ministero della Salute aveva chiesto alle Regioni quanti e quali macchinari con oltre 5 anni d’età hanno bisogno di sostituire negli ospedali pubblici. La risposta sono complessivamente 3.162 fra tac, risonanze magnetiche, angiografi, macchinari per scintigrafie, radiografie, ecografie e mammografi. L’Associazione italiana degli ingegneri clinici interpellata da Milena Gabanelli per Dataroom ha spiegato che non esiste un riferimento univoco su quella che dovrebbe essere l’età di riferimento dei macchinari e che, per ciascuna tipologia, occorre fare valutazioni specifiche ma di certo la differenza di radiazioni fra una Tac con meno di 10 anni di vita e una di ultima generazione arriva fino all’80%, una risonanza magnetica all’avanguardia dà una migliore qualità di immagini in tempi inferiori e un maggiore comfort, un mammografo con meno di 5 anni permette di effettuare biopsie in 3D più precise perché l’immagine viene ottenuta con la tomosintesi e i nuovi acceleratori lineari per la radioterapia irradiano la parte malata con più precisione salvando i tessuti sani.

La rimodulazione del Piano presenta il conto. Per le nuove Tac e risonanze se ne riparla nel 2026

Tutto rimandato Rimangono alcune certezze: il mancato acquisto dei macchinari intaserà per altri due anni le liste d’attesa già ingolfate, aumenterà sensibilmente i costi per manutenzioni e riparazioni e soprattutto aumenterà il divario tra i servizi offerti dalle cliniche private rispetto a quelle pubbliche. Il sottosegretario Gemmato promette la possibilità di un ‘upgrade tecnologico’ elle apparecchiature acquistate, ad invarianza del finanziamento complessivo concesso. Dimentica un piccolo particolare: tra due anni saranno “vecchie” esattamente come quelle che però avremmo potuto avere subito.

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Matrimoni e diritti gay. L’Italia sempre più isolata

Perfino la Grecia di tradizione cristiano-ortodossa in 48 ore ha approvato il matrimonio tra persone dello stesso sesso e le adozioni. La nuova legge, sostenuta dal primo ministro di centrodestra Kyriakos Mitsotakis, è stata approvata a larga maggioranza con voti dei partiti di opposizione, mentre 51 deputati del partito di governo, Nuova democrazia, si sono opposti.

La destra in molti paesi democratici ha già considerato il matrimonio tra persone dello stesso sesso come cardine dell’uguaglianza necessaria alla democrazia

“La storica riforma che abbiamo approvato oggi renderà migliore la vita di alcuni nostri concittadini”, ha detto Mitsotakis in una dichiarazione riportata dal Guardian. Oltre al matrimonio egualitario, la legge permette alle coppie omosessuali di poter adottare dei figli, equiparando i loro diritti a quelli delle coppie eterosessuali. Gli ellenici vanno ad aggiungersi a Austria, Belgio, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Portogallo, Slovenia, Spagna e Svezia che hanno legalizzato il matrimonio tra coppie dello stesso sesso e, escluse Estonia e Slovenia, le adozioni per le famiglie.

L’Italia rimane sola con il Vaticano e San Marino nel ruolo di monumento all’arretratezza insieme a Croazia, Bulgaria, Ungheria, Cipro, Romania, Slovacchia, Repubblica ceca, Polonia, Lituania, Lettonia. Il governo greco, occorre sottolinearlo, è guidato dal partito conservatore Nuova Democrazia, una compagine di destra.

La stessa destra che in molti paesi democratici ha già considerato il matrimonio tra persone dello stesso sesso come cardine dell’uguaglianza necessaria alla democrazia. In Italia il ministro Piantedosi invece ha attivato le Procure perché togliessero diritti e doveri ai figli e ai genitori delle famiglie arcobaleno. Trovate le differenze.

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Biden piange il dissidente russo Navalny. Ma poi perseguita Assange

Quali siano le cause ufficiali del decesso del dissidente russo Alexei Navalny, il principale oppositore di Vladimir Putin, ci interessa poco. Nell’attuale Russia chiunque si opponga ai voleri del satrapo Putin cade accidentalmente da una finestra, muore in un magico incidente stradale o, come Navalny, averte un malore dopo una passeggiata ma nonostante “tutte le misure di rianimazione necessarie” queste “non hanno dato risultati positivi”.

La principale causa della morte di Navalny è Putin, una delle molte malattie difficili da eradicare in questo tempo

La principale causa della morte di Navalny è Vladimir Putin, una delle molte malattie difficili da eradicare in questo tempo in cui i tiranni usano il carcere come sacco dell’umido dei loro oppositori. Salvatosi dall’avvelenamento Navalny sottoposto al regime di isolamento e a punizioni per la sua condotta e per le sue manifestazioni di protesta. Il carcere in casi come questi è semplicemente il viatico legale alla morte. La cella diventa il luogo in cui il potere può esercitare la propria prepotenza per logoramento, dove può zittire le voci dissonanti e dove può esibire il pugno di ferro perché la lezione disinneschi i Navalny che potrebbero emergere. È comprensibile che il mondo occidentale, auto proclamatosi difensore del diritto, oggi si indigni per un uomo morto ben prima di ieri.

L’indignazione contro l’autoritarismo del Cremlino non si addice a chi vuole seppellire la libertà di stampa

Neutralizzato nella sua funzione politica e isolato dal resto del mondo Navalny era già un cadavere che semplicemente respirava. A ben vedere ce n’è un altro, quasi più scomodo. Fra tre giorni potrebbe essere estradato negli Stati Uniti Julian Assange, fondatore di Wikileaks. Da 5 anni Assange è detenuto nel carcere londinese di massima sicurezza di Belmarsh. Washington accusa il giornalista australiano di aver diffuso migliaia di dossier riservati, reato per cui rischia una reclusione fino a 175 anni. Grazie alla pubblicazione di quei documenti il mondo ha aperto gli occhi sull’orrore delle guerre in Iraq e Afghanistan.

Assange, 52 anni, affronterà la prossima settimana un’udienza dalla quale dipende la sua sorte: due giudici britannici sono chiamati a riesaminare, il 20 e 21 febbraio, la decisione del 6 giugno scorso con cui l’Alta Corte di giustizia di Londra ha affermato che non può ricorrere in appello all’estradizione decisa dal governo britannico nel giugno 2022. La direttrice di Wikileaks, Kristinn Hrafnsson, ha sottolineato che l’estradizione di Assange creerebbe un precedente dalle “implicazioni gravi e buie per la libertà di stampa attraverso il mondo”.

Il fondatore di Wikileaks Julian Assange affronterà la prossima settimana un’udienza dalla quale dipende la sua sorte

Assange era stato arrestato dalla polizia britannica nel 2019 dopo 7 anni di reclusione nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra per evitare l’estradizione verso la Svezia nell’ambito di un’imputazione per violenza sessuale, successivamente archiviata. Il cittadino romano Assange – la cittadinanza onoraria è di due giorni fa – viene ritenuto pericoloso dal governo che ha smascherato nei suoi crimini di guerra. I valori di Assange sono gli stessi di chi combatte per la democrazia: Navalny ha denunciato al mondo il regime putiniano che con la violenza disarticola gli oppositori mentre Assange ha denunciato l’ipocrisia militare con cui gli Usa hanno hanno usato l’esportazione di democrazia come coperte di interessi molto più meschini.

Oggi non sentirete un’indignazione all’unisono. Per di più Assange ha la colpa di essere ancora vivo. I due consiglieri comunali a Roma di Italia viva due giorni fa dicevano che “quella di Assange è una vicenda ben diversa, dai contorni opachi” perché “le sue azioni hanno messo a repentaglio la sicurezza e la vita di molti”: sono le stesse parole con cui Putin puntava il dito contro Navalny.

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Il razzismo intrinseco che abbiamo nel trattare i profughi palestinesi rispetto agli ucraini – Lettera43

Uno studio italiano dimostra che il nostro atteggiamento verso gli stranieri è direttamente proporzionale a quanto è scura la loro pelle. Ed è quello che sta facendo anche la comunità internazionale nei confronti di chi scappa da Gaza e di chi lo fa da Kyiv e dintorni. Le “porte aperte” non sono uguali per tutti i rifugiati.

Il razzismo intrinseco che abbiamo nel trattare i profughi palestinesi rispetto agli ucraini

«Non sono razzista ma» è la tiritera con cui i razzisti inconsapevoli che affollano questo tempo cominciano ogni loro discorso. Quelli che «non sono razzisti ma» di solito crollano di fronte a una caratteristica sostanziale, la scurezza della pelle dell’interessato. Gli stranieri ancora oggi sono stranieri in modo direttamente proporzionale alla pelle scura. Più qualcuno tende al nero e più è straniero, malvoluto, disturbante. Chi lo dice? Cristina Cattaneo, Daniela Grieco, Nicola Lacetera e Mario Macis sono studiosi che insegnano nelle migliori università del mondo e da poco hanno presentato il loro studio “Out-group Penalties in Refugee Assistance: A Survey Experiment” su un campione rappresentativo di 4.087 residenti in Italia che hanno risposto a un questionario online. Come spiegano gli studiosi, l’obiettivo era di studiare se la propensione a donare, vista come una misura di attitudine verso un tipo di beneficiari, dipendesse appunto dalla “distanza” fra il partecipante e il destinatario e se questa distanza portasse a una gerarchia delle preferenze.

La differenza di considerazione tra Ucraina e Africa

In aggiunta al gettone di partecipazione ai partecipanti è stato dato un ulteriore bonus di un euro. Il campione è stato suddiviso in tre gruppi casuali. A ogni membro del primo gruppo, il questionario offriva la possibilità di donare una parte del bonus a un’organizzazione che si prende cura di persone italiane vittime di violenza. Al secondo e al terzo gruppo invece è stata data la possibilità di donare a un’organizzazione che si occupa dell’accoglienza di rifugiati dall’Ucraina e di rifugiati da Paesi africani in guerra. In ciascun gruppo, oltre a chiedere a ogni partecipante quanto del bonus assegnato volessero donare, è stato chiesto di indicare, qualora la donazione fosse positiva, la percentuale della donazione da destinare ad acquisti di beni di prima necessità (come prodotti per la cura della persona o biglietti per i mezzi di trasporto pubblici) e quale percentuale della donazione da versare direttamente in contanti ai beneficiari.

Le diversità tra donare in natura e in contanti

I risultati? I partecipanti chiamati a donare ad altri italiani offrono di più di quelli assegnati a rifugiati stranieri. Chi invece doveva scegliere tra africani e ucraini (circa 47 centesimi di euro in entrambi i casi contro 55 centesimi donati agli italiani) ha deciso di dare in contanti cifre minori per i destinatari africani (21,7 per cento) rispetto agli ucraini (25,5 per cento). Per questi ultimi, la percentuale è quasi equivalente a quella degli italiani (26,1 per cento). Come spiegano i ricercatori, a parità di totale donato, la suddivisione fra contanti e beni in natura «evidenzia il grado di fiducia che il partecipante ripone nel “buon uso” del denaro da parte dei beneficiari». Chi dona in natura di fatto decide per il destinatario come usare il contributo. Donando direttamente contanti, al contrario, «si esprime implicitamente la fiducia che il destinatario userà la sua maggior flessibilità per gli usi che ritiene migliori».

L’attuale screditamento dell’Unrwa non aiuta

Interrogati infatti su come prevedevano che i beneficiari avrebbero usato il contante, coloro che hanno scelto di non dare denaro contante prevedono «con maggiore frequenza acquisti come alcol, sigarette o droghe». Tornando qui fuori si potrebbe osservare la differenza – per ora – di trattamento tra i profughi ucraini e i profughi palestinesi molto più scuri. Al momento l’Europa non ha fatto nulla per sostenere i palestinesi, se non incrementando i propri impegni finanziari per gestire la crisi umanitaria. Impegni che ora si ridurranno, dato l’attuale screditamento dell’Unrwa. Nessuno si è adoperato per proteggere i profughi stessi. Un approccio molto diverso da quello che si è applicato in seguito allo scoppio della guerra in Ucraina. In quel caso l’Italia, al pari degli altri Stati Ue, si è presa la responsabilità di garantire ai profughi protezione e accoglienza, mostrando come un impegno maggiore sia possibile.

Il caso giuridico della richiesta d’asilo rigettata

Le “porte aperte” per chi scappava (e ancora scappa) dalla guerra in Ucraina nel caso di Gaza si riducono a una cooperazione con l’Egitto a cui affidare il compito di appaltatore delle frontiere. L’11 gennaio la Corte europea ha stabilito che l’operato dell’Unrwa non può più essere considerato sufficiente. Il caso giuridico riguardava due persone di nazionalità palestinese cui era stata rigettata la domanda di asilo da parte delle autorità bulgare. La Corte ha dato ragione ai primi affermando che i richiedenti palestinesi oggi possono sostenere che non c’è più protezione da parte dell’Unrwa, alla luce della gravità della situazione a Gaza. La “cessazione” della protezione che fino a quel momento poteva essere garantita determina automaticamente che i palestinesi possano richiedere lo status di rifugiati. Scommettiamo che non andrà così?

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Altro che Piano Mattei sull’Africa: gonfiati i fondi per la cooperazione

Dice Giorgia Meloni, e dicono i ministri del governo, che questo 2024 tra le altre cose sarà ricordato per il fumoso “Piano Mattei” che si propone di essere “ponte per una crescita comune” con l’Africa come annunciato nel vertice Italia-Africa dello scorso 29 gennaio. A oggi di quel piano è disponibile la cabina di regia e poco altro. Sappiamo per certo che gli attori coinvolti non sono stati consultati: il presidente della commissione dell’Unione africana Moussa Faki Mahamat l’ha denunciato pubblicamente e le organizzazioni del settore non sono ancora state coinvolte nonostante il decreto preveda la loro presenza.

Piano Mattei, l’Italia abbandona la cancellazione del debito

I numeri a disposizione sono quindi quelli delle risorse dell’aiuto pubblico allo sviluppo (Aps) che l’Italia ha destinato a paesi africani nel corso degli ultimi vent’anni da cui si possono cogliere, da un rapporto di Openpolis, due chiare fasi distinte. Nella prima fase, tra 2000 e 2011, quasi ogni anno una parte consistente e spesso maggioritaria delle risorse bilaterali era destinata a programmi di cancellazione del debito dei paesi africani. Come scrive Openpolis a partire dal 2012 però, come effetto della crisi finanziaria a cui fu esposto il paese, “le risorse destinate all’Africa subirono un netto ridimensionamento. Le politiche di cancellazione del debito sparirono quasi del tutto e anche l’Aps restante venne sostanzialmente dimezzato”. Nonostante l’ammontare complessivo delle risorse sia aumentato, gli unici interventi di riduzione del debito pubblico di paesi africani sono quelli del 2016 nei confronti della Guinea-Bissau (per 113 milioni di euro) e nel 2021 nei confronti della Somalia per un valore di 519 milioni di euro.

A dicembre scorso l’Ocse ha rilasciato i dati definitivi sulla cooperazione internazionale nel 2022 e il primo dato che salta all’occhio è la crescente incidenza di forme di aiuto che vengono considerate da molte organizzazioni (in particolare Concord Europe) come impropriamente inserite nel computo della cooperazione allo sviluppo e quindi gonfiate. L’aumento è stato pari al 19%, in confronto all’anno precedente. Prosegue quindi un incremento che era iniziato già nel 2020. Tuttavia rispetto al 2021, quando il tasso di crescita era stato del 37,3%, c’è un relativo rallentamento. Un aumento che però, occorre sottolineare, ci mantiene ancora lontani dall’obiettivo dell’Agenda 2030, ovvero di destinare lo 0,70% del reddito nazionale lordo (Rnl) all’aiuto pubblico allo sviluppo, più del doppio dell’attuale 0,33%.

Gioco delle tre carte

Quindi siamo diventati più buoni? Per niente. A ben vedere infatti, ad aumentare tra 2021 e 2022 è stata soprattutto una specifica voce all’interno della rendicontazione ufficiale della cooperazione internazionale, ovvero la voce di spesa destinata ai rifugiati nel paese donatore: il famoso aiuto gonfiato. Il 2022 non è stato un’eccezione e anzi ha confermato la tendenza in modo molto evidente. Se nel 2020 la spesa per i rifugiati si attestava al 5,4% dell’aiuto allo sviluppo italiano, nel 2022 l’incidenza ha superato ampiamente un quinto del totale. Tra 2021 e 2022 l’aiuto gonfiato è quasi triplicato. Se escludiamo la componente gonfiata dal calcolo dell’Aps, vediamo che il rapporto Aps/Rnl in Italia che dovrebbe essere dello 0,70% entro il 2030 scende allo 0,25%, una differenza di 0,08 punti percentuali. Si tratta tra l’altro di numeri che fanno riferimento al 2022, quando il numero di sbarchi era cresciuto rispetto all’anno precedente ma è molto più basso rispetto al 2023. Del Piano Mattei si sa poco ma le premesse sono nere.

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Scaduta metà dei contratti: alla fame 7 milioni di lavoratori

In Italia più della metà dei contratti è scaduto e oltre 7.100.000 di lavoratori del settore privato aspettano il rinnovo, a volte anche da molti anni. Così il potere d’acquisto già eroso dall’inflazione e dal caro prezzi diventa praticamente impossibile da recuperare. I dati arrivano dall’ultimo report della Cgil, che con i contratti firmati insieme a Cisl e Uil copre più del 97 per cento dei lavoratori censiti (dati Uniemens). Sul periodico del sindacato, Collettiva, si ricorda come il caso più eclatante sia quello degli undici accordi in attesa da oltre dieci anni, che riguarderebbero comunque un numero limitato di persone (19.475, secondo l’osservatorio sulla contrattazione della Cgil) molte delle quali appartenenti al contratto del cinema, tecnici e maestranze.

Tra il 2014 e il 2019 sono scaduti ben 30 contratti, il 16%, che interessano 3.778.096 lavoratori nel settore del terziario, dei servizi e della distribuzione. Come ricorda la giornalista Patrizia Pallara “dentro c’è di tutto, ma soprattutto gli occupati del commercio (Confcommercio), più di due milioni di addetti che hanno operato in prima linea durante il Covid, i cui salari sono fermi a prima della pandemia, del lockdown e dello scoppio delle due guerre, in Ucraina e in Medio Oriente”.

“Va precisato che i sindacati Filcams, Fisascat e Uiltucs a fine 2022 hanno siglato accordi che prevedevano una una tantum in aggiunta ai minimi contrattuali – afferma Nicoletta Brachini, area contrattazione e mercato del lavoro Cgil nazionale –. Questo però non ha risolto la situazione, i salari non hanno certo recuperato l’inflazione”. Tra le intese scadute nel 2014-2019 ci sono anche quelle del turismo, in attesa dal 2016, dell’industria turistica dal 2018, della distribuzione e servizi (Confesercenti) dal 2017, degli studi professionali e sanità (personale non medico area privata) dal 2018, del settore istituzioni e servizi socio-assistenziali dal 2019.

Tutti lavoratori i cui salari sono bloccati da anni, senza alcun sistema di indicizzazione. Poi ci sono gli ultimi tre anni. Dal 2020 sono scaduti 69 contratti per oltre 3.310.000 lavoratori: pubblici esercizi, turismo, ristorazione collettiva e commerciale, telecomunicazoni, somministrazione lavoro e, nel comparto artigiano, meccanica, orafi argentieri, odontotecnici, estetica e parrucchieri, tessile, legno e lapidei, panificazione. Da queste cifre andrebbero sottratte le 29 intese appena scadute (dicembre 2023), quasi 889 mila lavoratori per i quali potrebbero essere aperte trattative. Le disuguaglianze tra contratti rinnovati e contratti fermi si allargano quindi sempre di più.

Il tempo medio per il rinnovo dei contratti

“Ci sono contratti come quello dell’industria, che hanno tenuto meglio l’inflazione – spiega Brachini a Collettiva –. I contratti dei chimici e dei metalmeccanici sono stati rinnovati in coincidenza con le scadenze e in alcuni casi sono stati inseriti meccanismi di indicizzazione automatica che garantiscono aumenti salariali in linea con l’inflazione. Lo stesso vale per il legno-arredo e per il lavoro domestico”. Cgil sottolinea come ci siano anche contratti che nonostante il rinnovo non riescano ad assorbire l’inflazione, come quello del settore della vigilanza privata firmato l’anno scorso.

Il tempo medio di assenza di rinnovo di contratto in Italia si attesta sui 25 mesi. Nel settore pubblico sono scaduti tutti i contratti sottoscritti da Aran, l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni, di durata triennale: funzioni centrali, funzioni locali, sanità, istruzione e ricerca, comparto autonomo o fuori comparto (Presidenza del consiglio, Unioncamere, ecc.), personale in regime di diritto pubblico (polizia, forze armate, vigili del fuoco, ecc.). Si tratta di altri 3.243.499 lavoratori.

“Anche se il panorama è molto vario, per tutti vale lo stesso principio – spiega Brachini della Cgil –. Se la contrattazione è regolare e si rinnova con le giuste cadenze, il potere d’acquisto regge, si adegua anche la parte normativa e l’aumento dei minimi è in linea con la situazione economica del Paese. In tutti gli altri casi, i salari e i lavoratori arrancano”. A questo si aggiunge l’inflazione che nel triennio 2021-2023 ha registrato un più 17,3 per cento prendendo a riferimento l’Ipca (indice dei prezzi al consumo armonizzato per i Paesi dell’Unione), l’indicatore che viene usato come base per effettuare i rinnovi contrattuali e che consente i confronti con il resto dell’Europa.

L’impatto dell’inflazione generale in questo triennio è stato maggiore e più ampio per la famiglie con minore capacità di spesa: più 22,3 per cento. Più contenuta, e cioè pari al 15,1 per cento, per quelle abbienti. Nel 2023 le famiglie hanno avuto un aggravio di minimo 1.200 euro per casa, energia, trasporti, cibo e bevande, abbigliamento, tempo libero, secondo gli studi della Cgil. Il rapporto Inapp ha confermato in Italia una crescita dei redditi dell’1 per cento dal 1991, contro una media Ocse del 32,5. Occuparsi dei contratti scaduti di 6,7 milioni di lavoratori sarebbe almeno un buon inizio.

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La censura non è una fiction: cancellato pure don Gallo

Una manciata di notizie solo nelle ultime ore. La Rai ha accantonato la fiction su don Andrea Gallo, voce libera e evidentemente scomoda per le sensibilità di questo governo. Il progetto – che vedeva fra gli autori Ricky Tognazzi – sulla vita del più celebre prete di strada italiano, alla fine del 2022 era in fase molto avanzata e il produttore Titanus, che aveva ottenuto l’avallo Rai, stava per partire con la scelta degli attori e le riprese.

La Rai ieri ha pubblicato un comunicato in cui dice che si trattava solo di “un’idea del 2020”. Falso: il progetto alla fine del 2022 era in fase molto avanzata, e il produttore Titanus, che aveva ottenuto l’avallo Rai, stava per partire con le riprese. Alessandro Morelli, senatore della Lega e sottosegretario alla Presidenza del Consiglio spiega in un’intervista a Il Tempo che “sarebbe utile pensare a una sorta di Daspo per chi utilizza quel palco (riferendosi a Sanremo nda) per fini diversi da quelli della musica. Un artista lì fa musica, non fa politica”, dice.

Come ai bei tempi, quando in pieno fascismo nei bar c’era un cartello che diceva “qui è vietato parlare di politica”. Poi c’è la proposta di legge firmata dal capogruppo della Lega Massimiliano Romeo e dai senatori Daisy Pirovano e Giorgio Maria Bergesio (“Disposizioni per l’adozione della definizione operativa di antisemitismo nonché per il contrasto agli atti di antisemitismo”) che dà alle questure la possibilità di negare manifestazioni che rientrino in una fallace definizione di antisemitismo. In pratica vietano le manifestazioni a favore della Palestina. Nota bene, sono gli stessi che reclamano la libertà di ricordare il nostalgico fascismo vietato dalla Costituzione.

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Ma qual è il piano di Israele?

Dunque secondo il Washington Post gli Usa e alcuni Paesi arabi starebbero lavorando a un piano di pace tra israeliani e palestinesi che includerebbe una dettagliata cronologia per la nascita di uno Stato palestinese. Il primo punto sarebbe ovviamente un cessate il fuoco (chissà se dai piani alti della Tv pubblica stiano vergando un comunicato spaventato) tra Israele e Hamas di sei settimane durante le quali gli Stati Uniti annuncerebbero il progetto e la formazione di un governo palestinese ad interim.

Sono le stesse richieste che popolano gli scritti di moltissimi in queste settimane, sono le stesse richieste che oggi in Italia valgono l’accusa di antisemitismo. Se la sconfitta di Hamas per qualcuno deve passare dalla cancellazione di Gaza e dallo sterminio di un popolo significa che i feroci attacchi di Hamas sono semplicemente un alibi per fare altro. Se la comunità internazionale si dimostrasse talmente dissennata da appoggiare un piano del genere si metterebbe fuori dalla storia. E infatti gli Usa stanno lavorando a tutt’altro progetto.

All’uscita dei rumors sul piano di pace americano hanno risposto due ministri israeliani. Il ministro della Sicurezza nazionale e leader di Potere ebraico, Itamar Ben Gvir dice che “l’intenzione degli Usa insieme ai Paesi arabi di stabilire un Stato terrorista a fianco di Israele è deludente e parte della concezione sbagliata che dall’altra parte ci sia un partner per la pace”. Bezalel Smotrich: ministro delle finanze e leader di Sionismo religioso chiede che “sia presa un decisione chiara con l’opposizione al Piano“.

Buon venerdì. 

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