Militarizzare gli atenei, l’ultima frontiera del bavaglio al dissenso. Dilaga la protesta pro-Palestina, per il governo è allarme terrorismo
Due settimane fa all’università della Columbia un professore ha sollevato la questione di un’emoji della bandiera palestinese che una studentessa aveva messo accanto al suo nome durante le riunioni di Zoom. Per il professore quella minuscola bandiera avrebbe “causato reazioni traumatiche” tra gli studenti che non si sentirebbero sicuri. Qui da noi tre giorni fa la ministra dell’Università Anna Maria Bernini ha afferrato il telefono per chiamare il capo della Polizia Vittorio Pisani per confrontarsi “sulla situazione degli atenei”.
Allarmismo
Ad allarmare la ministra e il suo governo sono le contestazioni al direttore di Repubblica Maurizio Molinari da parte degli studenti dell’Università di Napoli, poi le contestazioni al giornalista David Parenzo e infine le istanze contro la guerra che, dopo Napoli e Torino, hanno occupato nei giorni scorsi La Sapienza e manifestato a Genova per chiedere l’interruzione del bando di collaborazione tra Italia e Israele (Maeci) e dei rapporti con Leonardo e Fondazione Med-or, presieduta da Marco Minniti.
Al Viminale il ministro Matteo Piantedosi ha pronto il suo fantomatico piano che prevede accessi “limitati e controllati” agli atenei e di porre le forze dell’ordine all’ingresso delle aule dove si tengono convegni e appuntamenti per bloccare le contestazioni. Il ministro dell’Interno si è mosso dopo che il ministro dell’Agricoltura, nonché cognato di Giorgia Meloni, Francesco Lollobrigida, ha sentenziato sul “pericolo terrorismo” nelle università in caso di un “eccesso di tolleranza”.
Predicare bene…
Pensare che al suo insediamento, solo alcuni mesi fa, la sorella di sua moglie nonché presidente del Consiglio nel suo discorso di insediamento invitava i giovani a “essere folli e liberi”. “Contestatemi”, disse la leader di Fratelli d’Italia con una certa sicumera.
Chissà se aveva già in tasca la carta del pericolo del terrorismo. Lollobrigida ci ha spiegato che non prendere provvedimenti contro gli universitari “in passato ha poi portato al terrorismo e al suo rafforzamento fino all’episodio di Aldo Moro, che, con il suo sacrificio, creò un allarme democratico talmente ampio che ci permise di sconfiggere quel fenomeno brutale che è l’eversione”. Riuscire a mettere insieme la difesa dei diritti umani a Gaza con l’uccisione del segretario della Democrazia cristiana è un capolavoro di allarmismo sconclusionato.
Essere “pro Palestina” quindi diventa un’etichetta che vorrebbe ridurre – come al solito – a un tema di ordine pubblico un tema squisitamente politico. La narrazione degli scapestrati studenti polemici serve a tacere sui 1.300 accademici che hanno firmato una lettera indirizzata al ministro agli Esteri Antonio Tajani con cui si chiede un completo stop agli accordi di cooperazione industriale, scientifica e tecnologica in vigore con Israele “con lo scopo di esercitare pressione sullo stato di Israele affinché si impegni al rispetto del diritto internazionale tutto, come è giustamente richiesto a tutti gli stati del mondo”.
Strani intrecci
Il Movimento No Muos siciliano in un dossier su Università e Guerra, spiega l’intreccio di interessi: “Quello meramente economico e remunerativo: le aziende belliche che finanziano la ricerca non lo fanno in maniera disinteressata ma creano profitto e possono attingere a un bacino ampio di stagisti/e e tirocinanti da impiegare presso le proprie strutture; un altro fine è politico e propagandistico, con una università che si presta da un lato a legittimare le aggressioni imperialiste e, dall’altro, a diffondere la cultura della difesa e della sicurezza nei territori, che serve a normalizzare la guerra e le sue conseguenze”.
È tutt’altro che una questione di studenti indisciplinati.
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