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Caro-affitti, mancia di 23 euro al mese agli studenti fuorisede

Lo scorso ottobre la ministra dell’Università e della Ricerca, Anna Maria Bernini rispondendo a un’interrogazione parlamentare aveva festeggiato “ulteriori 260 milioni per studenti fuori sede”. Le promesse del governo per risolvere la crisi abitativa degli studenti parlavano di “un miliardo di euro”, di “case disabitate date agli studenti” e di un “fondo per abbattere gli affitti”. Le risorse per l’anno 2023 sono state appena distribuite dal Ministero dell’Università: 23 euro al mese a testa e non per tutti.

Malgrado gli impegni il sostegno per gli affitti degli studenti fuorisede è arrivato in ritardo e solo per il 2% di chi ne ha diritto

Le poche risorse arriveranno agli studenti nel mese di febbraio, con un anno di ritardo rispetto alle richieste. “Dall’inizio del 2023 abbiamo chiesto alla ministra Bernini di accelerare l’erogazione del fondo affitti – dichiara Simone Agutoli, responsabile politiche abitative dell’Unione degli universitari (Udu) – ma la sua risposta è stata un procedimento macchinoso e infinito. Il risultato è che gli studenti riceveranno il sostegno economico con un anno di ritardo, quando ormai abbiamo già dovuto affrontare ingenti spese per l’affitto”. “Lo stanziamento di 4 milioni di euro per l’intero territorio nazionale – continua il sindacato studentesco – è totalmente insufficiente. A fronte di 830mila studenti fuorisede, meno del 2% riceverà un contributo, pari a 279 euro annuali, ossia 23€ al mese. Una cifra irrisoria, dal momento che paghiamo in media 350 euro al mese per il canone di locazione, a cui aggiungere spese condominiali e bollette”.

A Milano, dove è nata la protesta delle tende, saranno aiutati soltanto 260 studenti

L’Unione degli universitari sottolinea anche la disomogeneità del contributo. A Milano, dove è nata la protesta delle tende, saranno aiutati soltanto 260 studenti con 73mila euro, mentre a Bologna i beneficiari saranno 142 ed infatti non arriveranno neanche 40mila euro. A Roma, invece, gli studenti che riceveranno un sostegno saranno 571, a Napoli 184, a Venezia ci si ferma a 66. Va meglio a Torino con 2.309 studenti beneficiari per un totale di 644mila euro; sopra i 200mila euro anche Cosenza, Bari e Catania. Nella Legge di Bilancio 2024, l’Udu aveva presentato una serie di emendamenti per incrementare il fondo affitti fuorisede a 50 milioni di euro. Un intervento necessario, se si considera che la Francia destina a questa voce ben 1,4 miliardi di euro. Il Governo ha però espresso parere negativo.

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A Ousmane Sylla nel Cpr era rimasto solo il corpo

“Se un giorno dovessi morire, vorrei che il mio corpo fosse portato in Africa, mia madre ne sarebbe lieta (…) I militari italiani non capiscono nulla a parte il denaro. L’Africa mi manca molto e anche mia madre, non deve piangere per me. Pace alla mia anima, che io possa riposare in pace (..)”. Se fosse l’inizio di un romanzo non sarebbe un giallo, poiché l’assassino in questo caso sarebbe chiaro fin dalle prime pagine. Se fosse un noir scommetto che qualcuno lo troverebbe troppo spinto. Probabilmente lo definirebbero distopico. 

Ousmane Sylla, guineano di 22 anni, ha disegnato su un muro il suo volto e ha scritto questa frase su un muro nel Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Ponte Galeria a Roma. Poi si è suicidato. Ha scritto su un muro perché nei buchi neri dei Cpr carta e penna sono tra le ultime cose che mancano. Prima manca il diritto alla salute, manca il diritto alla difesa legale, manca il diritto all’alimentazione, manca il diritto all’igiene personale, manca il diritto alla comunicazione con il mondo esterno nonostante non sia un carcere, manca il rispetto di un tot di diritti umani. Figuratevi carta e penna. 

Per la rete Mai più lager – No ai Cpr Ousmane Sylla sarebbe la quarantesima vittima in un Cpr italiano. Ousmane ha avuto come ultima preoccupazione la destinazione del suo corpo, come carne, e il dolore della madre. Nient’altro. La sua persona – la sua identità – era già morta prima che si ammazzasse. Chissà quante esegesi di quel testamento se fosse stato il verso di un testo di una canzone di Sanremo. 

Buon martedì. 

Nella foto: il messaggio di Ousmane scritto sul muro (Mai più lager – No ai Cpr)

Per approfondire, il libro di Left Mai più, la vergogna italiana dei lager per immigrati

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Numeri a caso sull’evasione per minimizzare la piaga

Il 31 gennaio l’ex sottosegretario alle Infrastrutture Armando Siri (Lega) ha contestato le dichiarazioni del suo collega di maggioranza Maurizio Leo (Fratelli d’Italia) che in audizione parlamentare ha detto l’ovvio, ovvero che “l’evasione fiscale è come un macigno, tipo il terrorismo”.

L’ex sottosegretario Armando Siri ha contestato le dichiarazioni del suo collega Leo che in audizione parlamentare ha detto che “l’evasione fiscale è come un macigno, tipo il terrorismo”

Il leghista ha definito l’uscita del viceministro uno “slogan” che “scalda i cuori ideologici di chi ha sempre scambiato la giusta lotta all’evasione con un’indiscriminata caccia alle streghe” invitando a leggere “l’approfondito studio del professor Pietro Boria, docente di Diritto tributario all’Università La Sapienza di Roma” secondo cui “i dati sull’evasione fiscale sciorinati fino a oggi sono totalmente privi di fondamento”.

Per Siri l’evasione fiscale all’anno non supererebbe i 15 miliardi al contrario degli 80 circa stimata dallo stesso Ministero dell’Economia e delle Finanze. Come osserva Pagella politica lo “studio” di cui parla il leghista è semplicemente un libro. Diventa quindi difficile contestare i dati usati per l’analisi, poiché non sono disponibili. Di certo la metodologia utilizzata da Boria nel suo libro (il cosiddetto metodo bottom up) è ritenuta a livello internazionale poco affidabile per evidenti problemi di rappresentatività.

Come scrive Pagella politica è “come se i sondaggisti facessero le loro stime intervistando solo gli studenti universitari, che sono una categoria non rappresentativa dell’intera popolazione italiana. Inutile dire che dalle parti del Mef si faccia affidamento invece su metodi condivisi dalla comunità scientifica internazionale e che sono utilizzati in tutto il mondo. Siamo al sovranismo delle idee e dei numeri, ormai.

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Rino Gattuso e la mafia che non esiste più

La criminalità organizzata s’è fermata a Messina Denaro. Verrebbe da crederlo leggendo i giornali, scorrendo i programmi televisivi. La mafia non c’è più, puf!, come non si sarebbe concesso di sperare il più ottimista dei mafiosi o il più impunito dei colletti bianchi. C’è un po’ di brodo di mafia nelle operazioni “ad alto impatto” promosse dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, con la circolarità dei saldi nel supermercato sotto casa. C’è mafia – quella molta – nell’archeologia degli usi e dei costumi dei boss mitizzati dal tempo, da Riina a Provenzano che spopolano sui social come modelli di violenza che piace.

Poi accade che a Cosenza succeda ciò che avviene regolarmente ovvero che i mafiosi quelli veri – che non hanno seguito mitologico – chiedano il pizzo. Non è il pizzo di Stato improvvidamente citato dalla presidente del Consiglio, questo è il racket vero, quello dell’anti-stato che nell’indifferenza agisce felice. La richiesta criminale è di 3mila euro, la vittima Francesco Gattuso, pescivendolo e padre dell’ex calciatore del Milan ora allenatore. Il mafioso in questione sarebbe Aldo Abbruzzese, 51 anni, dell’omonima cosca. Gli uomini di ‘Ndrangheta avevano saputo di un finanziamento ricevuto dalla famiglia Gattuso e ne pretendevano un pezzo, come accade da decenni in Italia.

I segnali facilmente interpretabili del nervosismo della cosca sono due auto di Ida Gattuso, sorella di Rino, andate a fuoco in pochi mesi. Racconta Ida che a “risolvere la situazione” sarebbe stato il popolare fratello idolo di San Siro. “La storia solo tuo fratello la poteva rivolvere e nessuno più”, dice al telefono un’amica. E questo è lo stato di cose nello Stato in cui la mafia non esiste più.

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Se non li aiutiamo chi li accoglie?

Nicholas Emiliou, avvocato generale della Corte di giustizia europea, ha affermato che i profughi palestinesi avranno diritto a richiedere lo status di rifugiati, visto che l’agenzia Onu creata appositamente (l’Unrwa) non può da sola gestire la catastrofe in corso nella striscia di Gaza e garantire agli abitanti sicurezza e protezione, ancora di più dopo l’interruzione degli aiuti da parte di alcuni stati – undici, tra cui l’Italia – per l’indagine sugli operatori infedeli che avrebbero aiutato Hamas. 

Come riporta Openpolis da quando Israele ha attaccato la striscia di Gaza, oltre 26mila palestinesi, quasi tutti civili, hanno perso la vita. Tra di loro, oltre 10mila bambini e quasi 80 giornalisti. Pressoché la totalità della popolazione di questo Paese, oggi uno dei più densamente abitati del mondo, è sfollata e al momento è in corso una crisi umanitaria senza precedenti, con risorse del tutto insufficienti a garantire la sopravvivenza delle persone. A cominciare dalla più essenziale, l’acqua.

Al momento l’Europa non ha fatto nulla per sostenere questa popolazione vessata da decenni, se non incrementando i propri impegni finanziari per gestire la crisi umanitaria. Impegni che ora si ridurranno, dato l’attuale screditamento dell’Unrwa. Nessuno si è adoperato per proteggere i profughi stessi. Un approccio molto diverso da quello che si è applicato in seguito allo scoppio della guerra in Ucraina. In altri approfondimenti abbiamo parlato di come l’Italia, al pari degli altri stati Ue, si sia presa la responsabilità di garantire ai profughi ucraini protezione e accoglienza, mostrando come un impegno maggiore sia possibile. Lo stesso non sta avvenendo per i palestinesi. Se infatti da un lato si annunciano aiuti umanitari di varia natura, dall’altro è attivo un fronte di cooperazione con l’Egitto, con lo scopo di incrementare il controllo lungo le frontiere esterne dell’Europa.

Buon lunedì. 

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Lezione di civiltà del leghista Ostellari al suo leader. Il sottosegretario spinge per le pene alternative ma il suo segretario è il teorico del buttare via la chiave

Le carceri minorili? “Sono luoghi inadatti per fare quello che oggi sia utile fare: l’educazione dei minori. Noi abbiamo bisogno di istituti adatti per spazi e attività, per insegnare il futuro ai giovani e un mestiere”. Le pene alternative? “Ricordo che nel nostro sistema ci sono già le pene alternative alla detenzione: ci sono quasi 100 mila persone che sono seguite dal sistema”. Ma soprattutto “per diversificare il percorso va analizzato un punto essenziale quello delle persone problematiche, con problemi psichiatrici, che sono abbandonate nel sistema carcerario.

Ci sono persone che hanno più bisogno di cura rispetto all’esecuzione della pena. E su questo stiamo facendo un percorso nuovo rispetto al passato, lavorando con le Regioni, che ci hanno dato la disponibilità per individuare dei luoghi adatti dove far seguire queste persone con personale qualificato. Non solo carcere, ma anche percorsi di rieducazione”. Le parole che leggete qui sopra non sono di un politico progressista affezionato al tema delle carceri e che prova a mettere ordine in un sistema pieno di falle.

Sono i pensieri del sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari che ieri mattina è intervenuto nella trasmissione condotta da Marcello Foa in onda su Radio 1 Rai, nella puntata di ieri dedicata al tema Carceri sovraffollate: è vera giustizia. Ostellari ha rivendicato il lavoro fatto fin qui. Da quando siamo arrivati – dice il sottosegretario – “abbiamo subito iniziato un percorso per valorizzare il lavoro all’interno degli istituti. Non solo abbiamo persone che possono uscire dal carcere per andare a lavorare, ma cerchiamo di far entrare aziende e terzo settore per fare produzione.

Ovviamente percependo anche uno stipendio, che ti permette di riparare il danno e ti consente, una volta uscito dal carcere, di uscire dal circuito criminale. Il 98% dei detenuti quando esce non commette più delitti. È questo un modo per investire sul futuro della nostra comunità, che sarà più sicura”.

Due chiacchiere

Ostellari potrebbe nel frattempo scambiare due chiacchiere con il suo segretario di partito, nonché ministro Matteo Salvini. Per coltivare l’orientamento costituzionale che le carceri siano un luogo di rieducazione e non di afflizione si potrebbe cominciare per esempio a non utilizzare più l’espressione del “buttare via la chiave” o la rappresentazione della galera come discarica sociale. Ostellari potrebbe invitare il suo sleader ad abbandonare il panpenalismo che sui social vedrebbe dietro le sbarre chiunque non piaccia al suo segretario, a partire dai cosiddetti ecovandali linciati mediaticamente da quello stesso ministro che lecca gli agro vandali per la paura di perdere voti.

Ostellari dovrebbe spiegare ai suoi elettori e ai suoi compagni di partito che molti degli stranieri che la bestia salviniana ha esposto alla gogna sui social, soprattutto negli infelici tempi della gestione Morisi, sono persone che “hanno più bisogno di cura rispetto all’esecuzione della pena” e che “con problemi psichiatrici, che sono abbandonate nel sistema carcerario”, per utilizzare le stesse parole della sua intervista. Altrimenti rimane il dubbio che i componenti di governo siano bifronte: giustizialisti in pubblico per mietere voti e garantisti costituzionali in privato nell’amministrazione dello Stato. L’ipocrisia non è un reato ma è un’arma politica disdicevole.

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Salvini e il manuale dell’ipocrisia: dai blocchi stradali degli agricoltori al caso Salis – Lettera43

Il vicepremier si è intestato la battaglia contro i cosiddetti ‘eco-imbecilli’ che fermando il traffico mettendo a rischio la vita delle persone. Ma se a farlo sono gli agricoltori – e il morto ci scappa per davvero – allora i toni cambiano. Lo stesso vale per la maestra incarcerata a Budapest: garantismo sì, ma solo con chi la pensa come te.

Salvini e il manuale dell’ipocrisia: dai blocchi stradali degli agricoltori al caso Salis

Piccolo manuale dell’ipocrisia. Matteo Salvini da qualche tempo ha deciso di intestarsi la battaglia contro i ragazzi di Ultima generazione, collettivo di persone per di più giovani che chiedono un’immediata inversione di rotta per frenare il cambiamento climatico in corso e non rischiare di essere l’ultima generazione – appunto – che potrà abitare serenamente questo Pianeta. Inutile cercare reali motivazioni politiche nella presa di posizione del capo della Lega. Salvini annusa l’aria che tira sui social tra i suoi potenziali elettori e si ingegna per politicizzare il malcontento di turno declinandolo in dichiarazioni politiche e in iniziative legislative. L’ossessione contro i ragazzi di Ultima generazione dice molto del Paese che siamo. C’è lì dentro innanzitutto il paternalismo di chi ritiene l’età biologica un sinonimo della maturità morale e intellettuale. In una società annichilita dall’autopreservazione dove la paura di perdere posizioni di potere o di rendita elegge il conservatorismo come unica salvezza i giovani sono pericolosi e destabilizzanti. Vanno tenuti a bada finché non siano abbastanza farciti di voglia di obbedire e finché non siano abbastanza ricattabili da diventare mansueti. Così questi tipi di Ultima generazione che si permettono di mettere sul banco degli imputati tutte le classi dirigenti degli ultimi decenni diventano il nemico.

I passi per delegittimare l’attivismo ambientale: dalla negazione dell’emergenza climatica al pugno duro

Come si disarticola l’avversario? Si tenta di negarne le ragioni, di svilirne le richieste. Per delegittimare l’attivismo ambientale si nega che esista un’emergenza ambientale. Non avendo evidenze scientifiche ci si aggrappa a qualche sepolcro imbiancato con tesi deliranti e poi si atterra sul più immediato «è sempre stato così». Infine si criminalizza la protesta. «Se questi bloccano la strada e ci scappa il morto per un’urgenza che rimane incagliata nel traffico?». La domanda è tendenziosa ma funziona. Non solo: Matteo Salvini si riscopre cultore dell’arte (che lui da sempre confonde con la tradizione) e rende pubblico il suo strazio per un vetro protettivo insozzato di zuppa. Infine l’avversione politica diventa norma: pugno duro contro i blocchi stradali, pugno duro contro il minestrone sui pavimenti dei musei.

Salvini e il manuale dell'ipocrisia: dai blocchi stradali degli agricoltori al caso Salis
Le proteste degli agricoltori a Bruxelles (Getty Images).

Se il legislatore bulimico scrive leggi che si ritorcono contro il suo bacino elettorale

Arriviamo a questi ultimi giorni. Lo spazio sui giornali riservato contro i cosiddetti “eco-imbecilli” viene coperto dagli agricoltori in protesta a cavallo di possenti trattori. Nessun editorialista si sogna di chiamarli “agro-imbecilli” perché bisogna rispettare le ragioni delle proteste, dicono. Si assiste così a un’inversione dei giudizi morali che valevano fino a qualche minuto prima. Che fanno gli agricoltori? Bloccano le strade, esattamente come quegli altri, con modalità più rudi. Grattando bene si scopre che qualche giorno fa ci è scappato anche il morto – non ipotetico – in coda a Catanzaro bloccato in una strada ingolfata da mezzi agricoli in protesta. La notizia va cercata con pazienza certosina poiché si è meritata solo qualche taglio basso nelle pagine di cronache minori. E l’arte per cui si stracciano le vesti? C’è anche quella: a Bruxelles una statua che si stagliava da qualche secolo diventa maceria sotto gli applausi dei manifestanti infoiati. Il cortocircuito è degno del teatro dell’assurdo: il legiferatore bulimico ha scritto leggi che si ritorcono contro il suo bacino elettorale. Dalle parti del governo scoprono che le leggi – mannaggia – vanno applicate allo stesso modo con tutti, almeno dovrebbero, e quindi la criminalizzazione degli avversari ricade anche sugli amici. Come si difendono? «Con gli agricoltori siamo di fronte a un intero settore che rischia di essere messo fuori dal mercato», ci spiegano. Ah, ok. La difesa del Pianeta in effetti ha tutta l’aria di essere una vile questione personale di quei ragazzetti, evidentemente. Di fronte all’ipocrisia ammiro quei ragazzi che con pazienza e autocontrollo si limitano a qualche secchiata di vernice lavabile o qualche blocco di una tangenziale per una decina di minuti.

Salvini e il manuale dell'ipocrisia: dai blocchi stradali degli agricoltori al caso Salis
La protesta degli agricoltori a Milano (Imagoeconomica).

La bufera sullo staff Unrwa e il garantismo a singhiozzo sul caso Salis

Piccolo manuale dell’ipocrisia. La polemica sullo staff Unrwa accusato di aver preso parte agli attacchi del 7 ottobre coinvolge 12 persone. Dodici persone su 13 mila impiegati a Gaza sono lo 0,09 per cento. Agli attacchi hanno preso parte almeno 2 mila persone, ovvero almeno lo 0,08 per cento della popolazione. Se dovessimo applicare la sineddoche dello 0,09 per cento a partiti o associazioni l’Italia sarebbe un fiorire di organizzazione criminali in ogni dove, dalla bocciofila sotto casa ai partiti di governo. Piccolo manuale dell’ipocrisia. Sul garantismo dei garantisti cultori della responsabilità proporzionale alla vicinanza delle proprie idee si sono scritti fiumi di inchiostro. Un dato irrilevante ma paradigmatico: il ministro Salvini su una donna – Ilaria Salis – in cella in Ungheria mangiata dalle cimici e trasportata in catene trova il tempo di dire che «se condannata non può tornare a fare la maestra». Gli ipocriti hanno bisogno di essere anche ignoranti: un condannato per reati gravi non può fare il maestro come non può assumere qualsiasi altro ruolo nella pubblica amministrazione. Il ministro sotto processo per sequestro di persone non sa che per i dipendenti pubblici non funziona come per i ministri o i sottosegretari: la pena è una cosa seria.

Perché la Lega e Salvini ce l'hanno così tanto con Ilaria Salis, la 39enne anarchica italiana detenuta in Ungheria.
Ilaria Salis in aula in Ungheria (Ansa).

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La sanità privata lancia il Family doc, partito l’assalto alla medicina di base. Padova fa da apripista col medico di famiglia a pagamento, approfittando dei buchi del Sistema sanitario nazionale

L’ultimo boccone a cui aspira la famelica sanità privata è il medico di base. Prima terra di conquista è il Veneto, dove la BMed Me.di.ca Group, un centro di sanità privata, ha deciso di lanciare a Mestrino, un Comune in provincia di Padova, il Family doc che altro non è che il vecchio caro medico di famiglia a pagamento. Si legge sul sito: “Si chiama Family Doc, ed è un servizio di medicina interna in regime privato, con un tocco di simpatia e calore familiare. Con noi, sentirsi a proprio agio è la norma, al costo di 50 euro”.

“Si tratterebbe di un medico ‘simpatico’ che fornisce prestazioni specialistiche a prezzi contenuti. Può prescrivere farmaci a pagamento – spiegano Manuela De Paolis, segretaria confederale Cgil Padova, Stefania Botton, segretaria territoriale Ust Cisl Padova e Rovigo, e Massimo Zanetti, coordinatore provinciale Uil Padova – visite e prestazioni specialistiche a pagamento e non si sostituisce al medico di medicina generale”.

“Non si capisce perché i cittadini, – spiegano le tre organizzazioni sindacali, unitariamente – che già pagano le tasse per la sanità pubblica, dovrebbero preferire questo servizio a quello del medico di medicina generale convenzionato. Questa nuova e pericolosa tendenza a offrire servizi simili, ma non alternativi alla medicina generale convenzionata, inserisce il diritto alla salute in una logica di mercato. La persona che si trova in una situazione di fragilità non deve diventare strumento di profitto d’impresa”.

Deriva pericolosa

La Presidente del gruppo BMed Me.di.ca Group, Cristina Sinigaglia, in una nota spiega che “molti dei nostri clienti non hanno un medico di famiglia. Basti pensare a soggetti extracomunitari o comunque stranieri residenti in provincia. Altri invece si lamentano di non riuscire ad accedere ai servizi di medicina generale”. Dove il Sistema sanitario nazionale è in affanno ancora una volta sono i privati a intervenire. Si calcola che solo in Veneto mancano 748 medici di famiglia, 35 pediatri di libera scelta, 635 nella Guardia Medica e 59 dell’emergenza.

In tutto, 1.513 medici. Gli utenti del Ssn che rimangono senza medico di famiglia sono quindi un milione e 400 mila su una popolazione totale di 5 milioni. Più di un abitante su 5. Ma il Family doc non potrà in nessun modo, almeno per ora, sostituire il medico di base nonostante l’accattivante messaggio promozionale. Anche la legge regionale veneta infatti prevede tre distinti canali: il servizio pubblico, il servizio convenzionato e il servizio privato. L’ingresso al canale privato fin dalla medicina di base quindi costringe gli utenti a continuare sullo stesso regime: qualsiasi visita specialistica, qualsiasi farmaco e qualsiasi approfondimento terapeutico costerà parecchio nelle tasche di chi si illude di poter ovviare la carenza di medici con gli studi privati.

Per il capogruppo del M5S in Commissione Affari sociali alla Camera, Andrea Quartini, si tratta “dell’ennesimo colpo alla sanità pubblica, l’ennesima strizzata d’occhio al sistema privato” mentre Enrico Cappelletti, parlamentare veneto del M5S, ha sottolineato come questa pratica rappresenti “un passo indietro nel garantire un sistema sanitario equo e accessibile per tutti i cittadini. La Destra del nostro Paese continua a mettere in discussione il diritto alla salute, considerandolo un bene di lusso a carico degli italiani”. È vero, il Family doc non ha il ricettario del Ssn e quindi non può essere un componente aggiuntivo e a pagamento del servizio pubblico. Ma facciamo un esercizio di memoria In quanti altri campi sanitari l’ingresso del privato è avvenuto esattamente così?

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TeleCrosetto e… moschetto. Mitragliata su Montanari

Nell’anno 2024 in Italia durante una trasmissione televisiva un ministro alla Difesa fondatore del partito della presidente del Consiglio telefona in diretta a una trasmissione televisiva su una rete privata per accusare un professore universitario di voler zittire il governo. è accaduto durante il programma televisivo Piazzapulita condotto da Corrado Formigli su La7. Il ministro Guido Crosetto è intervenuto telefonicamente (di persona si rifiuta di andare, come i suoi compagni di partito, per embargo deciso tempo fa) esibendosi in un monologo in cui ha espresso la propria idea sulla guerra in Ucraina correggendo la linea editoriale della puntata ma soprattutto accusando il rettore dell’Università per stranieri di Siena, Tomaso Montanari, di essere un’illiberale perché vorrebbe togliere la possibilità al governo “di dire la sua”.

Tutto questo accade nel bel mezzo di un “imperialismo mediatico” (per citare l’azzeccata espressione del professor Montanari) che ha silenziato sulle reti Mediaset e sulle reti Rai tutte le voce ritenute potenzialmente scomode e i protagonisti culturali non ritenuti amici. Nell’anno 2024 probabilmente si sono perse le proporzioni di un ministro che con il suo bagaglio di possibilità e mezzi per esprimere le proprie idee interviene con una telefonata non programmata nel bel mezzo di un dibattito televisivo a cui si rifiuta di partecipare criticando le idee di un membro dell’Università che è autonoma per definizione e che insegna (o dovrebbe insegnare) l’autonomia di pensiero. “Mi dispiace che lei insegni ai giovani”, ha detto Crosetto in chiusura della sua intemerata. Il vero dispiacere è che i giovani debbano avere un ministro così.

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