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Salvini come Lukashenko. Destre a pezzi sugli elogi a Putin

Eccolo qui Matteo Salvini, vice presidente del Consiglio e ministro dei Trasporti nonché leader di una Lega in declino. Eccolo mentre arranca in cerca di qualche voto per rallentare il dissanguamento elettorale, disposto anche a mettere in crisi gli equilibri della maggioranza di cui fa parte. “Quando un popolo vota ha sempre sempre ragione”, ha detto Salvini in merito alle elezioni farsa che si sono svolte in Russia, dove Vladimir Putin ha messo in scena elezioni né libere né democratiche con un controllo totale sulle urne. Ci sarebbe da tenere in considerazione anche che gli oppositori del regime russo – per ultimo Navalny – sono stati ammazzati o si ritrovano reclusi.

“Quando un popolo vota ha sempre sempre ragione”, ha detto Salvini in merito alle elezioni farsa che si sono svolte in Russia

Ma a Salvini tutto questo non basta e il leader della Lega non riesce a trattenere un moto sotterraneo di giubilo. Così il ministro del governo italiano si accoda a Lukashenko, Xi Jinping e Raisi, presidenti di Bielorussia e Cina e Iran, nella legittimazione di Putin. A parlare per il governo sobbalzato dalla sedia dopo le parole del ministro leghista ci ha pensato il ministro agli Esteri Antonio Tajani: “Le elezioni sono state caratterizzate da pressioni forti e anche violente – ha detto il ministro degli Esteri – Navalny è stato escluso da queste elezioni con un omicidio, abbiamo visto le immagini dei soldati nelle urne, non mi sembra che sia un’elezione che rispetta i criteri che rispettiamo noi”, ha detto Tajani visibilmente contrariato per l’improvvida uscita dell’alleato sempre più scomodo.

Il vice premier: “Il popolo che vota ha sempre ragione”. Tajani furibondo corre a mettere una pezza

Le fibrillazioni però sono arrivate fino a Palazzo Chigi e poco dopo la Lega scrive una nota ufficiale per correggere il tiro: “In Russia hanno votato, – scrive il Carroccio – non diamo un giudizio positivo o negativo del risultato, ne prendiamo atto e lavoriamo (spero tutti insieme) per la fine della guerra ed il ritorno alla pace. Con una guerra in corso non c’è niente da festeggiare”. Dall’opposizione Giuseppe Provenzano (Pd) esprime ironicamente “solidarietà al vicepresidente e ministro Antonio Tajani”. “Non dev’essere facile – scrive Provenzano su X – avere un omologo vicepresidente Salvini che non condanna i crimini di Putin e vede in queste elezioni russe una grande affermazione del popolo. Ma con queste posizioni il Governo può mai essere credibile? E Meloni tace…”.

Carlo Calenda attacca: “Salvini, ti suggerisco di ripassare le basi. Quando un popolo vota nel contesto di una democrazia liberale – libertà di espressione, associazione, stampa e magistratura indipendente – il risultato va riconosciuto. La democrazia senza stato di diritto non esiste. La Russia è una dittatura e le elezioni sono una farsa. Punto”. Il capogruppo dei senatori dem Francesco Boccia chiede al leghista se “va bene quindi votare con le urne trasparenti e i militari che controllano il voto nei seggi? Sono curioso di conoscere la sua risposta e di sapere se i suoi alleati di governo la pensano alla stessa maniera”.

Critico anche Maurizio Lupi, leader di Noi moderati: “Noi un giudizio lo esprimiamo e affermiamo che una democrazia senza un’opposizione reale non esiste, che il plebiscito a favore di Putin è stato espresso sotto la minaccia delle armi, in un clima di repressione e arresti”, spiega. Una ricerca realizzata per Adnkronos da Vis Factor, società leader a livello nazionale nel posizionamento strategico, segnala che sui social network si registra un sentiment negativo dell’84% da parte degli italiani in merito alle dichiarazioni di Matteo Salvini sul voto in Russia. Le emozioni più associate alle dichiarazioni del leader della Lega sono rabbia al 52%, indignazione 20% e tristezza 10% con un picco del 32% di commenti offensivi sui profili del ministro. Un successo, insomma.

Lo scontro nel Centrodestra congela pure la corsa alle nomine. FdI punta a fare l’asso pigliatutto

Si allarga così sempre di più il solco tra il leader della Lega e gli altri partiti della maggioranza. Differenze che rischiano di allargarsi ogni giorno di più con l’avvicinarsi delle Europee che vedranno Salvini e la presidente del Consiglio Giorgia Meloni su fronti contrapposti difficilmente coincidenti. Il gruppo europeo Identità e Democrazia di cui fa parte la Lega preme sull’antieuropeismo sfrenato con la francese Marine Le Pen nel ruolo di ariete. I Conservatori europei, di cui è presidente Meloni, continuano la loro marcia di avvicinamento a Ursula von der Leyen appoggiandone per ora la riconferma.

Ma i problemi a Bruxelles per Meloni non riguardano solo l’alleato scomodo in patria. A elezioni politiche appena vinte l’ideologo del melonismo Giovanbattista Fazzolari sognava di fare dell’Italia l’avamposto atlantico dell’Europa occidentale, la Polonia del quadrante Ovest del Continente. Le cose non stanno andando proprio così. Nel ruolo della Polonia sembra esserci ben salda la Polonia di Donald Tusk e il triangolo Varsavia-Parigi-Berlino sembra più saldo che mai con l’Italia esclusa. “Continuare in un momento così difficile a suddividere le coalizioni che hanno aiutato l’Ucraina in tanti pezzetti mi pare poco pratico”, ha detto tre giorni fa in un’intervista a Repubblica il ministro Crosetto. Il triangolo di Weimar rischia per Meloni di diventare un problema ben più serio del filoputinismo della suo alleato Salvini.

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Pezzo dopo pezzo se ne va la propaganda del Piano Mattei

Mentre Giorgia Meloni faceva la chierichetta a Ursula von der Leyen che in pompa magna staccava l’assegno al presidente egiziano al-Sisi per fare ancora di più e meglio il lavoro sporco da tappo dei migranti, il Tribunale de L’Aquila scriveva nero su bianco che la Tunisia non è un Paese sicuro riconoscendo la protezione speciale a un richiedente asilo. 

Il tribunale certifica che a Tunisi vi siano situazioni oggettivamente registrate: deterioramento del tasso di democraticità; violazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali; magistratura non indipendente; arresti di massa; assenza di tutele per migranti, richiedenti asilo e rifugiati; seria crisi economica in atto; emergenza climatica ed ambientale in atto. 

“In primo luogo il ricorrente, – scrivono i giudici – in disparte il profilo della documentazione lavorativa prodotta (…), proviene dalla Tunisia, Paese che solo formalmente è inserito nella lista del Paesi c.d. di origine sicura. Invero nel recente periodo, si sono verificati in Tunisia eventi che hanno deteriorato il tasso di democraticità del Paese e una palese violazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali”. 

I grandi accordi del governo italiano e di quello europeo si smontano pezzo dopo pezzo. Nel frattempo Italia e Ue firmavano accordi con al-Sisi, uno che da oltre 10 anni detiene il potere vincendo elezioni farsa con oltre il 90 per cento dei voti, arrestando, torturando, incidentalmente ammazzando migliaia di oppositori. Vale la pena di ricordare che al-Sisi è l’artefice del colpo di stato del 2013, fece arrestare almeno 40mila persone, condannare a morte centinaia di oppositori compreso l’ex presidente eletto Morsi e prese il potere grazie a elezioni farsa nel 2014 col 96% dei voti.

Buon martedì. 

Nella foto: la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il presidente egiziano al-Sisi, Il Cairo, 17 marzo 2024 (governo.it)

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Fascisti, comunisti, populisti. Calenda alleato con tutti

In Sardegna il partito Azione guidato da Carlo Calenda era alleato con Progetto Sardegna, +Europa, Rifondazione Comunista, Unione Popolare Cristiana, Indipendenza Repubblica Sardegna, ProgRes, Liberu. In Abruzzo nelle ultime elezioni era alleato con PD, Movimento 5 Stelle, Italia Viva, Sinistra Italiana, Europa Verde, +Europa, DemoS, Psi. Per le prossime elezioni in Basilicata sarà alleato con Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia, Italia Viva, Noi Moderati, UdC, Dc (di Rotondi).

Nel giro di qualche mese il partito di Calenda si è attaccato ai pantaloni di partiti che giudica comunisti, fascisti, populisti

Nel giro di qualche mese il partito di Calenda che si propone come antipopulista, anticomunista, antifascista e che fin dalla nascita vuole testimoniare l’inderogabile urgenza di avere uno spazio politico al centro indipendente si è attaccato ai pantaloni di partiti che giudica comunisti, fascisti, populisti. Anche all’osservatore più superficiale appare chiaro che per ora la missione di aprire uno spazio nuovo al centro si riduce ad attaccarsi allo spazio utile per incassare un piccolo spazio di trattativa. Non è niente di nuovo.

Dopo la Democrazia cristiana i tanti centri che si sono succeduti sono stati cespugli furbi impegnati nella politica dei due forni, balzando talvolta di qua e talvolta di là in base alle convenienze elettorali, raramente in base a questioni politiche nel senso nobile del termine. Calenda legittimamente deciderà come muovere il proprio partito, se spostarsi più a destra, se spostarsi più a sinistra, se davvero e sul serio essere un terzo polo. La domanda sarebbe da porre piuttosto a certi commentatori e politici del cosiddetto campo largo: come si può definire imprescindibile un partito così?

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Campo largo, non così

Il primo risultato delle elezioni regionali non ancora svolte in Basilicata consiste nella dispersione di quel precedente mucchietto di speranza. Non era molto, certo, ma dopo le elezioni vinte in Sardegna e perfino dopo le elezioni perse in Abruzzo quel barlume di possibile futuro era l’unico capitale iniziale di una bozza di alleanza credibile. Questione di aritmetica, almeno. 

Il comunicato serale in cui Pd, M5s, Si, Ev, Psi, +Europa annunciano di avere estratto dal cilindro il nome di Piero Marrese, sindaco dem di Montalbano Jonico e presidente della Provincia di Matera, non basterà a risollevare l’elettorato locale sfibrato dal susseguirsi incerto e nevrotico di nomi, dal re delle cooperativa bianche Angelo Chiorazzo impallinato dal M5s, al chirurgo Domenico Lacerenza con il triste record di essere stato candidato nel giro di 72 ore fino alla ridda di veti, subbugli locali e rivendicazioni nazionali. 

Il campo largo (o giusto o stretto o come diavolo si voglia chiamare) non può essere uno stiracchiato incastro di veti con l’aria ogni volta di avere avuto fortuna. Il campo largo (o giusto o stretto o come diavolo si voglia chiamare) non può apparire agli elettori un affannarsi alla ricerca di un nome a poche ore dalla presentazione delle liste. Il campo largo (o giusto o stretto o come diavolo si voglia chiamare) non può essere un balletto orribile con i centristi che pregano la cenere per poterci ballare sopra. 

L’alleanza è necessaria ma lo stare insieme deve essere la maturazione di ragioni limpide. Il caso della Basilicata è un ingarbugliato bugiardino leggibile solo dalle segreterie, roba da caminetto. Veramente troppo poco per spingere fuori casa i possibili elettori. 

Buon lunedì. 

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Chi paga la costosissima ignoranza del Governo?

Quindi siamo di fronte all’ennesima grande idea che si è rivelata piccola, vigliacca e illegittima. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi sottovoce lascia intendere che la cauzione di 4.938 euro prevista da un decreto del ministero dell’Interno, attuativo del decreto legge Cutro (n. 20/2023), per i richiedenti asilo che arrivano da Paesi sicuri e non vogliono essere trattenuti in centri per il rimpatrio (Cpr) o comunque in centri per le procedure accelerate di frontiera sarà cancellata.

Non è solo una questione di disumanità, qui siamo di fronte a una costosissima ignoranza

Un mese fa la Corte di Cassazione ha chiesto in via d’urgenza alla Corte di Giustizia dell’UE di valutare tale norma. Nei giorni scorsi la Corte UE ha rigettato la richiesta dell’urgenza: deciderà nel merito nei tempi ordinari. Ora il rischio per il governo è che un giudizio di illegittimità della Corte renderebbe illegittimo anche il trattenimento dei migranti in Albania, bloccando il relativo Protocollo celebrato dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni.

Che quella cauzione fosse al di fuori del diritto internazionale lo sottolineavano in molti, tra cui anche la giurista Vitalba Azzolini che ora sottolinea come il Protocollo ci costerà molti e molti soldi, e avrà solo l’effetto di tenere fuori dall’Italia poche migliaia di migranti e solo per qualche mese. Poi torneranno comunque in Italia, sia che vadano rimpatriati sia che abbiano diritto all’asilo. “Quando qualcuno chiederà a certi ministri/governi di restituire ai cittadini i soldi che hanno letteralmente buttato?”, chiede Azzolini. Ed è proprio questo il punto: non è solo una questione di disumanità, qui siamo di fronte a una costosissima ignoranza.

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Gasparri all’Antimafia: il revisionismo irrompe in Commissione

Il capogruppo di Forza Italia al Senato Maurizio Gasparri ha annunciato che entrerà a far parte della commissione Giustizia al Senato e della commissione Antimafia. Mentre il revisionismo storico sugli ultimi anni di mafia sta galoppando con ampie falcate la commissione Antimafia che dovrebbe fare luce sulla strage di via D’Amelio si ingrassa con la presenza di un senatore ex MSI, ex An e ora capogruppo in un partito fondato da un uomo in pieno collegamento con Cosa nostra (Marcello Dell’Utri) che ha speso i suoi ultimi anni a infangare chiunque abbia provato a fare luce sui primi anni ’90.

Antimafia in buone mani con Gasparri

Il senatore Gasparri al grido di “Viva ai Carabinieri, viva il Ros, viva Subranni, viva Mori” è colui che sembra non avere letto la sentenza di Cassazione che riconosce che mentre l’Italia aveva le strade sporche di sangue una parte significativa dello Stato tramite il sindaco di Palermo Vito Ciancimino, un condannato mafioso all’epoca agli arresti domiciliari, aveva contatto Riina e chiesto ai vertici dell’organizzazione mafiosa “cosa volete per fare cessare le stragi?”.

Il senatore Gasparri è lo stesso che ripete che “Silvio Berlusconi è colui che ha combattuto la mafia più di tutti” e che chiede “un contributo di verità” non solo per Berlusconi ma perfino per Dell’Utri. Il senatore Gasparri ha presto dimenticato la sentenza di Cassazione che ha condannato Dell’Utri a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa: “La pluralità dell’attività posta in essere da Dell’Utri – scrivono i giudici -, per la rilevanza causale espressa, ha costituito un concreto, volontario, consapevole, specifico e prezioso contributo al mantenimento, consolidamento e rafforzamento di Cosa nostra, alla quale è stata, tra l’altro offerta l’opportunità, sempre con la mediazione di Dell’Utri, di entrare in contatto con importanti ambienti dell’economia e della finanza, così agevolandola nel perseguimento dei suoi fini illeciti, sia meramente economici che politici”. Gasparri finge di essersene scordato.

Il senatore Gasparri è lo stesso che il 18 gennaio 2015 tre giorni dopo la liberazione delle cooperanti Vanessa Marzullo e Greta Ramelli imprigionate in Siria impugnò il telefono per twittare “Vanessa e Greta, sesso consenziente con i guerriglieri? E noi paghiamo! @ForzaItalia”. Ovviamente si trattava di una diffamazione in piena regola ma Gasparri ci spiegò che si trattava di un’attività parlamentare e si nascose dietro l’immunità parlamentare concessa dai suoi amorevoli colleghi in Parlamento.

Il senatore Gasparri è colui che si è dimenticato di comunicare al Senato di essere presidente di una società di cyber security, la Cyberealm, e all’uscita della notizia promise querele a tutti. Alla fine si è dovuto arrendere dimettendosi dalla società con il capo chino. Sempre a proposito di mafia il senatore Gasparri è colui che a gennaio di quest’anno ha utilizzato la solita farsa del dossier “processo Mafia e appalti” come causa della morte di Paolo Borsellino per spazzare dal campo le altre ipotesi su cui si sta indagando nell’epoca stragista.

Cognac e carota

Peccato che quell’indagine non sia finita con l’eliminazione del magistrato. Questo Gasparri (insieme a Mori e De Donno) finge di dimenticarselo. Maurizio Gasparri è quel senatore che pochi mesi fa, il giorno dell’audizione del conduttore di Report Sigfrido Ranucci, in Vigilanza Rai metteva sul proprio banco una bottiglia di cognac e sfoderava dalla tasca una carota. Il senatore Gasparri che da anni attacca ignobilmente chiunque provi a fare luce sugli anni delle stragi ora è componente della commissione Antimafia.

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Meloni voltagabbana: ora si prepara a ribaciare la pantofola a Trump

Per la cooperazione con l’Africa nell’ambito del Piano Mattei, che interesserà aree di intervento quali “l’istruzione e la formazione, la Sanità, l’acqua e l’igiene, l’agricoltura, l’energia e le infrastrutture, sono nove le nazioni che abbiamo individuato: Algeria, Congo, Costa d’Avorio, Egitto, Etiopia, Kenya, Marocco, Mozambico e Tunisia”. Lo ha spiegato ieri la presidente del Consiglio Giorgia Meloni intervenendo alla cabina di regia sul Piano Mattei  convocata in tarda mattinata a Palazzo Chigi.

Il doppio gioco di Meloni

La premier continua la sua cavalcata tutta retorica sullo schiacciare internazionale. L’impresa politica di trasformarsi in due anni da colei che ammirava il fascismo a quella che riesce a fingere statura internazionale prosegue a gonfie vele. Nemmeno scalfita dalle morti nel Mediterraneo di qualche ora prima Meloni è pronta a volare in Egitto domani per stringere nuovi accordi con il presidente egiziano Al sisi chiedendo sempre la stessa cosa: frenare le partenze con tutti i metodi possibili fregandosene dei diritti umani che sarebbero da rispettare e delle vite umane che andrebbero preservate.

Al suo fianco la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen che pur di mantenere lo scettro è pronta a rimangiarsi il suo precedente programma elettorale spostandosi ogni giorno più a destra per plasmarsi agli equilibri del nuovo Parlamento Ue. Con l’Egitto l’accordo sarà di 7,4 miliardi di euro per sostenere le finanze pubbliche e frenare la migrazione (anche se il ministro delle finanze egiziano ha abbassato la cifra – tra 4,6 e 5,5 miliardi di euro).

La giustizia per Regeni e la manutenzione della malridotta democrazia sotto le piramidi possono aspettare. A giugno, gli europei andranno alle urne e il risultato probabilmente si tradurrà in un blocco di destra ampliato in Parlamento. La prima ministra italiana è pronta a diventare la leader spirituale di quel blocco, spingendo Bruxelles a destra su tutto, dalla politica migratoria al Green Deal, l’ambizioso pacchetto di leggi sbriciolato dai nuovi venti che spirano verso Bruxelles.

Poi ci saranno le elezioni in Usa, dove Meloni ha scelto da tempo il suo candidato ideale, Donald Trump. Da Palazzo Chigi la relazione con Trump viene definita “molto positiva”. Di sicuro il governo italiano si ritroverebbe ad essere uno dei più vicini in Europa alle bizze dell’eventuale presidenza trumpiana. Il trucco sarebbe sempre lo stesso, come già accade con Orbàn: appoggiarne gli estremismi in casa per accarezzare i propri elettori e poi fingersi mediatrice sul palcoscenico internazionale per accontentare gli equilibri che Meloni vorrebbe combattere. Un’illusione ottica in cui la presidente del Consiglio appare abile mediatrice mentre mette in atto una politica bifronte che si adatta al contesto.

Il bivio

Ma se Trump diventerà presidente per Meloni si aprirà un bivio difficilmente scavalcabile. Come farà la presidente del Consiglio a rimanere fedele alla linea pro Nato e pro Ucraina mentre Trump rovescerà la situazione? Per ora da un lato sta facendo molto per garantire che le sue credenziali pro-Ucraina e pro-Nato siano in buon ordine, incluso il viaggio a Kiev nel secondo anniversario dell’invasione della Russia a febbraio e l’hosting di un incontro speciale dei paesi del G7 incentrato sull’Ucraina nello stesso mese. D’altra parte sta facendo del suo meglio per corteggiare i repubblicani Maga anti-Ucraina costruendo legami con il campo di Trump grazie ai membri del suo partito, Fratelli d’Italia. Ma se accade davvero quello che spera, che farà poi Meloni?

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Il congresso Sigo-Agoi Puglia ovvero uomini che spiegano alle donne la maternità – Lettera43

All’appuntamento barese organizzato dalle società italiana di ginecologia e ostetricia e dall’associazione ostetrici ginecologi ospedalieri italiani il parterre era composto solo di maschi. Dal ministro Schillaci al governatore Emiliano, fino a rettori e assessori. L’unica signora? Quella stampata sulla locandina.

Il congresso Sigo-Agoi Puglia ovvero uomini che spiegano alle donne la maternità

Il 14 e il 15 marzo nell’elegante cornice dell’hotel Villa Romanazzi Carducci di Bari si è tenuto il congresso regionale di Sigo-Agoi Puglia. Sigo è l’acronimo della società italiana di ginecologia e ostetricia, Agoi è l’associazione ostetrici ginecologi ospedalieri italiani. Il titolo del congresso sta sospeso tra l’idea magica della donna come madre figlia di una madre e poi nonna di una nipote femmina: “Donna: nascita di una madre”. La dorsale femminile del Paese è la cura individuata da quest’epoca per risolvere il grave problema della denatalità in Italia. Il governo dio, patria e famiglia si ritrova con un amministratore delegato – dio – politicamente distonico con le scelte dell’esecutivo, con una patria ininfluente sullo scacchiere internazionale e con famiglie come rami secchi che con il loro smettere di fare figli fanno male al re. «Se vogliamo che le donne ottemperino al dovere di fare le madri», devono avere pensato, «bisogna schiacciare sul pedale della divulgazione scientifica e della divulgazione politica».

Il parterre del congresso è composto solo da uomini

Torniamo al nostro congresso pugliese. Giovedì 14 marzo il parterre era così composto: c’era il ministro alla Salute Orazio Schillaci, il vice ministro alla Giustizia Francesco Paolo Sisto, il sottosegretario alla Salute Marcello Gemmato, il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano, il presidente Fnomceo (la Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri) Filippo Anelli, il Rettore dell’Università di Bari Stefano Bronzini, il preside della facoltà di Medicina della suddetta università Alessandro Dell’Erba, l’assessore alla Sanità della Regione Puglia Rocco Palese, il direttore dell’AReSS Puglia Giovanni Migliore e il direttore generale del Policlinico di Bari Antonio Sanguedolce. Notate qualcosa? Tutti maschi. L’ha sottolineato sul suo account X Mila Spicola chiedendosi e chiedendo: «Cosa volete ne sappiano, le donne, di donne e di maternità?». Manca solo la valletta travestita da conduttrice (o più elegantemente relatrice) che di solito viene infilata all’ultimo per salvare la faccia.

L’unica donna presente è quella stampata sulla locandina

L’elenco di uomini che discettano di donne che nascono madri rimanda alla celebre scena del Mistero Buffo in cui il giullare che recita il personaggio di Papa Bonifacio VIII viene accusato da Jesus di avere ammazzato dei frati e si difende: «Jesus Jesus vardame nei ogi, che mite vojo ben… che ai fraite? Ma no, che ghe vojo ben mi go sempre vorsudo ben ai fraiti», piagnucolando. A quel punto il Papa nella scena si rivolge a un chierico immaginario. «Manda a torme un fraite, svelto!», dice. Vammi a prendere un frate. Immagino i convegni di tutti maschi che discutono di questioni di donne. Maschi tronfi concentrati sull’ordine degli interventi e sugli aggettivi di usare nella cartella stampa. Solo di fronte alla bozza della locandina si accorgono che manca una donna, almeno un cenno di simulata inclusività, Ci sarà qualcuno di loro che si alza, presumibilmente il più altro in grado quindi il più maschio dei maschi, che scatta in piedi e chiede a qualche assistente lì intorno (ecco, quella potrebbe essere donna, pensandoci bene): «Manda a torme una femena, svelto!».

Il congresso Sigo-Agoi Puglia ovvero uomini che spiegano alle donne la maternità
Il ministro della Salute Orazio Schillaci (Imagoeconomica).

A spiegare alle donne come fare le donne ci pensa una ciurma di uomini: tutto chiaro no?

Agli organizzatori del congresso non è venuto nemmeno quel dubbio. Niente di niente. Hanno stampato la locandina, l’hanno pubblicizzata nel mare mosso dei comunicati stampa e dei social e probabilmente quando Mila Spicola gliel’ha fatto notare qualcuno si sarà schioccato la mano sulla fronte esclamando un «ma che caz». Attenzione, si potrebbe dire che quell’incontro comprende titolari di ruoli istituzionali. Qualcuno potrebbe dirci che non è mica colpa loro se ministri, vice ministri, assessori, presidenti, rettori, presidi e primari che si occupano del tema sono tutti maschi. Qui si aprirebbe un bel dirupo: siamo un Paese che vuole risolvere il problema della denatalità spedendo in tour una ciurma di uomini che insegnino alle donne come debbano fare le donne. E questo pensandoci bene sarebbe il tema per un congresso strepitoso che è quello che si celebra nelle piazze quando le donne alzano la voce e i maschi cercano di zittirle con un mazzo di mimose.

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L’ultima follia di Orbán: marciare su Bruxelles

Sentite qua l’amico di Giorgia Meloni, Viktor Orbán, il presidente sovranista ungherese: “Una marcia su Bruxelles” contro l’Unione europea, che “vuole costringere ad accogliere migranti e a rieducare i bambini ad accettare l’omosessualità”. La frase è stata pronunciata nel discorso in occasione della giornata nazionale del 15 marzo, anniversario della sollevazione del 1848 contro l’impero asburgico, in cui il presidente ungherese ha sottolineato la differenza tra Budapest e i “governi occidentali”.

“Bruxelles non è il primo impero che ha messo gli occhi sull’Ungheria”, ha detto Orbán, accusando l’Unione di voler portare il Paese “per forza in guerra contro la Russia. I popoli europei oggi hanno paura che Bruxelles porti via la loro libertà. Se vogliamo preservare la libertà e la sovranità dell’Ungheria, non abbiamo scelta: dobbiamo occupare Bruxelles”, ha aggiunto. Come ungheresi “siamo stati fregati, è tempo della rivolta”, ha spiegato il presidente ungherese. Da qui l’idea di “una marcia su Bruxelles per realizzare un cambiamento”.

Orbán ha promesso che non permetterà all’Unione europea di “intaccare la libertà: l’Ungheria rimarrà libera e sovrana. Le nazioni dell’Europa oggi temono per la loro libertà” minacciata “da Bruxelles. L’Ungheria rifiuta la guerra, è impegnata per la pace” ma “dall’Ue riceviamo guerra, invece della pace”. È la fotografia di quello che ci aspetta nei prossimi mesi: una campagna elettorale per le elezioni europee in cui distruggere l’Europa per accaparrarsi un seggio in Europa. Sembra una contraddizione, è vero, ma è il sale della propaganda sovranista. Come Meloni, del resto.

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Caos Centrosinistra in Basilicata, a rischio la candidatura di Lacerenza

La cosa certa è che la preparazione delle prossime elezioni regionali in Basilicata per il centrosinistra – che sia un campo largo, un campo giusto o un qualsiasi altro campo – è un pessimo spettacolo. A poco più di 24 ore dalla sua designazione come candidato del centrosinistra (Pd più M5S) per le regionali in Basilicata, il nome di Domenico Lacerenza viene messo in discussione all’interno della coalizione.

“Ritirare la candidatura di Lacerenza o promuoviamo il polo dell’orgoglio lucano”, chiedono attivisti, sindaci, amministratori, sindacalisti e dirigenti del Pd e del centrosinistra lucano in un documento diffuso da Giovanni Petruzzi, all’epoca coordinatore della mozione Cuperlo. Petruzzi ha definito anche “quanto mai opportuno ed urgentissimo” che sia convocata la direzione regionale del Pd, “che non ha mai discusso né deliberato la candidatura a presidente di Lacerenza”.

Lacerenza candidato in Basilicata, strada subito in salita

Lacerenza il giorno dopo la sua designazione avvenuta di corsa per trovare un sostituto al precedente candidato Angelo Chiorazzo si è confrontato sul programma con la segreteria dem, Elly Schlein, e con il presidente pentastellato, Giuseppe Conte. Ma quasi subito è salita la tensione con l’ex Terzo Polo e si erano soprattutto rincorse le voci su un nuovo, clamoroso colpo di scena: pur di allargare il perimetro della coalizione, si punterebbe su un nome nuovo al posto dell’oculista. “Se volete vincere dovete mettervi d’accordo, se volete perdere continuate così”, sono state le parole rivolte da Romano Prodi a Conte durante la presentazione del libro Capocrazia di Michele Ainis, a Roma.

Bastian contrari

Carlo Calenda attacca il Pd: “Ma vi rendete conto dello scempio che state facendo per andare dietro a Conte”, chiede su X. Il suo uomo forte sul territorio, l’ex presidente Marcello Pittella, lascia intendere che le trattative con il candidato di centrodestra Bardi siano più che possibili sottolineando come Lacerenza “non è caduto ma per molti del tavolo e per molti aspetti non ha una vocazione politica particolarmente spiccata”.

Attacca inevitabilmente anche Matteo Renzi: se insegue Giuseppe Conte il centrosinistra è finito. Prima o poi lo capirà anche il Pd, non dispero che questo avvenga il prima possibile”. “Mi colpisce molto questa involuzione del centrosinistra. Quando c’ero io si facevano le primarie, adesso chiamano il primario. Questo primario di oculistica che è talmente una situazione incredibile che potremmo dire che hanno scelto un oculista perché non li hanno visti arrivare”, ha detto a margine della fiera LetExpo a Verona.

Ieri il tavolo del centrosinistra si è protratto per ore. Sul piatto, al momento, c’è la blindatura “romana” di Domenico Lacerenza, che alla luce del sostegno di Pd, M5s, Avs, e +Europa, ha definito prive di fondamento le voci di un suo ritiro. Nella sede del Pd lucano, i dirigenti dei partiti della coalizione hanno continuato tuttavia a esprimere alcune perplessità sul nome di Lacerenza. Nel corso della discussione sarebbe stata infatti esaminata anche la possibilità di scegliere un candidato governatore diverso (tra una rosa di nomi fatti al tavolo) che permetterebbe di allargare il perimetro della coalizione.

Oggi il leader di Azione Carlo Calenda sarà a Matera e il nodo potrebbe sciogliersi con l’uscita di Azione dalla coalizione. Comunque vada a finire il vento che tira da queste parti è ben diverso da quello vittorioso in Sardegna e da quello carico di speranza in Abruzzo. Il “campo largo” ha bisogno di partiti che siano capaci di stare stretti e per il Pd la missione è molto più difficile del previsto.

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