Poiché mi appassionano da sempre le cose fatte bene vi invito a leggere cosa scrive Giampaolo Coriani sulla recente sentenza della Cassazione che è stata magistralmente sventolata per dire altro:
La lettura della sentenza n. 24084/17 (il caso riguarda il porto in luogo pubblico di un coltello sacro per la religione Sikh e la conseguente richiesta di esimente del portatore per motivi religiosi) non solo chiarisce come mai la Corte abbia imposto ai migranti l’accettazione e la conformazione a tutti i nostri valori culturali e religiosi (come la conversione al cattolicesimo, mangiare la pizza e gli spaghetti o tifare rumorosamente per una squadra di calcio, tralasciando le nostre consolidate “tradizioni” nel campo della criminalità organizzata per cui siamo noti nel mondo tanto come per la pizza) ma come abbia semplicemente espresso un concetto già pacifico e consolidato in materia:
In una società multietnica, la convivenza tra soggetti di etnia diversa richiede necessariamente l’identificazione di un nucleo comune in cui immigrati e società di accoglienza si debbono riconoscere. Se l’integrazione non impone l’abbandono della cultura di origine, in consonanza con la previsione dell’art. 2 Cost. che valorizza il pluralismo sociale, il limite invalicabile è costituito dal rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica della società ospitante. È quindi essenziale l’obbligo per l’immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale, in cui ha liberamente scelto di inserirsi, e di verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano e quindi della liceità di essi in relazione all’ordinamento giuridico che la disciplina. La decisione di stabilirsi in una società in cui è noto, e si ha consapevolezza, che i valori di riferimento sono diversi da quella di provenienza ne impone il rispetto e non è tollerabile che l’attaccamento ai propri valori, seppure leciti secondo le leggi vigenti nel paese di provenienza, porti alla violazione cosciente di quelli della società ospitante. La società multietnica è una necessità, ma non può portare alla formazione di arcipelaghi culturali configgenti, a seconda delle etnie che la compongono, ostandovi l’unicità del tessuto culturale e giuridico del nostro paese che individua la sicurezza pubblica come un bene da tutelare e, a tal fine, pone il divieto del porto di armi e di oggetti atti ad offendere.
Viene poi espressamente specificato il principio di diritto conseguente: “va affermato il principio per cui nessun credo religioso può legittimare il porto in luogo pubblico di armi o di oggetti atti ad offendere.”
La sentenza forse non è rigorosissima dal punto di vista lessicale, poiché induce a confondere i “valori” in generale con i valori del nostro ordinamento giuridico, che sono gli unici ai quali chiunque risieda in Italia si deve conformare.
Il concetto era stato espresso in modo migliore e più chiaro meno di un anno fa dalla stessa Corte sulla medesima fattispecie con la sentenza n. 25163/2016 “… dovendo la manifestazione delle pratiche religiose necessariamente adeguarsi ai valori fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano, coi quali non possono entrare in contrasto (così come riconosciuto dall’art. 8 secondo comma Cost.), nel cui ambito assume rango primario la tutela della sicurezza pubblica e dell’incolumità delle persone assicurata dalla disciplina delle armi e degli altri oggetti atti ad offendere, che non può certamente legittimare – in relazione ai parametri di luogo, di persona, di natura e funzione dell’oggetto, che sono stati sopra indicati – la condotta del ricorrente”.
Il principio è condivisibile e condiviso, ed è altrettanto ovviamente strumentalizzato dalla destra più becera, che subito ha cercato di far passare un concetto diverso, cioè che il migrante sia obbligato ad abbandonare tutti i propri valori, anche quelli compatibili con il nostro ordinamento (come il velo ad esempio) altrimenti debba “tornarsene” a casa propria.
(trovate tutto qui)