In commissione Esteri iniziano ad arrivare le dimissioni in massa per provare a chiudere il caso Vito Petrocelli, il presidente senatore espulso dal Movimento 5 Stelle che è balzato agli orrori delle cronache per la sua vicinanza a Putin e per la sua aderenza a tesi negazioniste della guerra in Ucraina.
Vito Petrocelli è balzato agli orrori delle cronache per la sua vicinanza a Putin e per le tesi negazioniste sulla guerra in Ucraina.
Petrocelli dal canto suo fa spallucce e annuncia di voler fare ricorso alla Corte costituzionale: “Sentirò il mio legale di fiducia”, dice serafico ai giornalisti confondendo la politica con la giustizia. La tesi di Petrocelli sarebbe quella di essere stato “bollato” come filo-Putin solo per avere votato contro l’invio delle armi all’Ucraina, fingendo di non sapere (o di non capire) che qui non si tratta di “far decadere un esponente della maggioranza che non si riconosce più della maggioranza”, come ci dice, ma di avere contezza del proprio ruolo politico e della responsabilità che la politica, ahilui, comporta.
Non serve nemmeno andare troppo per il sottile sulle tesi di Petrocelli sulla guerra per capire che un ruolo come quello di presidente di una commissione (o qualsiasi altro ruolo in cui un parlamentare svolge un compito dirigenziale a nome di un partito) resta vincolato alla fiducia che quel partito gli riconosce.
L’autorevolezza delle presidenze di commissione, in un Paese normale, dovrebbe derivare proprio dal partito che si rappresenta. Ogni parlamentare risponde alla propria coscienza e al proprio mandato ma che un espulso dal proprio partito pretenda di presiedere una commissione rende perfettamente l’idea dello scriteriato narcisismo.
Davvero può pensare Petrocelli (e i tanti Petrocelli che affollano il nostro Parlamento) di avere la credibilità e la rappresentatività politica di guidare la commissione Esteri al Senato? Dai, non scherziamo. Sarebbe curioso seguire un processo in cui Petrocelli spiega alla corte di essere rappresentativo di un pezzo qualsiasi di Paese senza essere passato per le elezioni solo con il proprio cognome.
Il punto, bisogna avere il coraggio di dircelo, è che in un Parlamento di parvenu (di tutti i partiti, di tutti i parlamenti, di tutte le legislature) ci ritroviamo ciclicamente di fronte a gente che non avrebbe mai sognato di arrivare lì dov’è arrivata e mica per niente ha come prima e unica preoccupazione quella di mantenere intatte le proprie posizioni acquisite, completamente concentrata sull’autopreservazione fregandosene del ruolo pubblico e della funzione sociale. Immaginate Petrocelli senza la sedia da presidente, rinchiuso nel suo profilo Facebook a lanciare strali contro il suo ex partito o a concimare la sua fanbase.
Tornerebbe uno dei tanti appesi ai like senza nessuna rilevanza politica. Sbaglia Petrocelli quando definisce la sua situazione una “questione politica”. La politica se n’è andata nel momento in cui il capo del suo partito l’ha salutato invitandolo alla porta. Ora siamo nel campo dell’etica e della morale. Se non ci si sente più rappresentati dal proprio partito semplicemente si torna in una dimensione personale (il Gruppo Misto sta lì per quello) rimboccandosi le maniche per costruire una nuova comunità intorno alle proprie idee.
Petrocelli si dimetta da presidente e poi si ricandidi. Le elezioni sono vicine.
Tutto il resto è una risibile giustificazione che sfida la decenza. Immaginate domani un parlamentare che si autoproclami portatore dello spirito originario del Pci di Berlinguer e reclami una presidenza. Non lo prenderebbe sul serio nessuno, ci strapperebbe al massimo un triste sorriso. Esattamente come Petrocelli. Si dimetta da presidente e poi si ricandidi. Le elezioni sono vicine.
(da La Notizia)