(Alessandro Robecchi per Il Fatto Quotidiano, fonte)
Nel paese dell’emerganza-lavoro solenne e costante, di lavoro si parla poco, e soprattutto male. Ognuno di noi è abituato al balletto delle cifre ogni volta che esce un dato Istat, una sberla Ocse, una previsione sballata. Sotto – sotto la coltre fumosa dello snocciolamento quotidiano di parole e propaganda – c’è il baratro, cioè la condizione del lavoro oggi in Italia. Marta Fana, giovane dottore di ricerca in economia a Science Po, a Parigi (la leggete ogni tanto anche su questo giornale) si mette a scavare lì dentro. L’avevamo conosciuta come puntuta scrutatrice di cifre, allorché – col Jobs act operativo da pochi mesi – il ministro del lavoro Poletti aveva sparato cifre paradossali, lei le aveva pubblicamente smentite, e dal ministero arrivarono balbettanti richieste di perdono.
Ma qui Fana fa un’altra cosa, ci racconta quel che del lavoro non si dice quasi mai: non solo i suoi numeri, già deprimenti, ma la sua qualità, anzi la sua perdita di qualità. Esce in questi giorni Non è lavoro, è sfruttamento (Laterza), e il titolo dice la tesi. Ma è la sua dimostrazione che lascia basiti. Perché Fana mette in fila tutti i vagoni di un trenino che corre velocissimo – da decenni – verso l’impoverimento del lavoro: un preciso, costante e lucidissimo disegno di proletarizzazione dei lavoratori italiani. Deregolamentazioni, esternalizzazioni, privatizzazioni di servizi, perfetta aderenza del lavoro precario alle esigenze contingenti delle imprese, ricatti, rimodulazioni al ribasso dei contratti. Dai modernissimi stabilimenti di Marchionne, con Renzi in gita scolastica, alla fabbrichetta piccola o piccolissima. Fino al lavoro gratis. Fino al grottesco, gogoliano paradosso dei lavoratori della Biblioteca Nazionale di Roma, che, pagati in rimborsi spese, racimolano scontrini al bar per avere i loro quattrocento euro di non-salario. Fana ci mostra che dietro le legislazioni, i commi, le riforme cantate con enfasi epica, ci sono le storie e le vite. C’è Chiara col contratto da cassiera all’ipermercato che dopo il turno deve pulire i cessi, e lo fa per tenersi il lavoro. C’è l’inferno del settore della logistica che contrappone i diritti del consumatore (l’ho ordinato oggi e lo voglio domani!) a quelli del lavoratore sempre più strizzato da contratti prendere-o-lasciare.
Chiunque legga questo libro può scegliere in quale vagone del trenino accomodarsi: quello del lavoro a chiamata, quello degli straordinari non pagati, del demansionamento, del ricatto contrattuale, delle cooperative aperte e chiuse per dribblare le leggi. Il massimo ribasso è l’unica carta che vince e a ribassare sono salari e diritti. Se cercate paradossi e anime morte siete nel posto giusto, fino all’assurdo: il grande call center Almaviva che trasloca in Romania e licenzia in Italia, ma continua a vincere commesse pubbliche.
Detto così sembra uno stillicidio, ma visto il disegno complessivo – anche per la scorrevolezza e l’ordine con cui l’autrice mette in fila numeri ed esempi – è chiaro che si tratta di una strategia. Un assalto del capitale alla dignità del lavoro, dove i governi, tutti, e gli ultimi più di tutti, hanno tifato per una parte (le aziende); da un lato caricandole di soldi, sgravi fiscali, regali, sanatorie, dall’altro sgravandole di doveri e obblighi.
Corre più o meno il ventennale di quel governo Prodi (1995-98, ministro del lavoro Treu) che per primo parlò di flessibilità. In vent’anni quella parola si è gonfiata in modo abnorme, e la discesa agli inferi del lavoro è stata sempre più veloce.
I famosi voucher, sperimentati nel 2008 “nell’ambito dell’esecuzione di vendemmie di breve durata” (ahahah, ndr) sono stati progressivamente liberalizzati per ogni sorta di occupazione fino al record (regnanti Renzi e Poletti) di 69 milioni. Niente male per una vendemmia di breve durata. Poi, tranquilli, se il voucher zoppica o viene ridimensionato, ecco che aumenta il lavoro a chiamata, perché le modalità di flessibilizzazione e di scippo dei diritti sono infinite, loro sì, flessibilissime.
Non è (solo) un libro per economisti, questo combattivo pamphlet di Marta Fana, ma un libro per lavoratori. Nel paese che cita il lavoro nel primo articolo della sua Costituzione, il canto costante è che il lavoro “non c’è”. Però è lo stesso posto dove si chiede e si impone di lavorare gratis: stages, simil-volontariato, alternanza scuola-lavoro, per cui le cifre della disoccupazione fanno tremare le vene ai polsi, ma il panino all’autogrill magari te lo scalda uno studente dell’istituto tecnico, qualche stipendio risparmiato per l’azienda he lo “ospita”. Il tutto con spaventevoli ricadute culturali, ovvio, sul lavoro come merce degradata e degradabile, una svalutazione professionale e umana che riguarda tutti. Una fotografia, insomma, lo stato dell’arte qui e ora, dove la parola “sacrifici” risuona instancabile da Lama alla Fornero, da Berlusconi a Renzi nella vera continuità politica del paese: quella di umiliare il lavoro.