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Processare le ceneri di chi si brucia per delle idee

Nell’epoca dell’utile sgomento il venticinquenne statunitense Aaron Bushnell è stato talmente maleducato da darsi fuoco di fronte all’ambasciata israeliana a Washington. Un aviatore dell’esercito americano che decide di urlare contro un genocidio usando il suo suicidio è un tilt per la stampa mansueta. Nelle riprese video Bushnell urla di non voler “essere più complice del genocidio” e dichiara di prepararsi “a un gesto estremo che non è nulla rispetto a ciò che vivono le persone a Gaza nelle mani dei colonizzatori”. 

I giornalisti pensosi si saranno domandati: come si scrive una storia così? Non scriverla o spuntarla fino ad arrotondarla deve essere sembrata la scelta migliore e così Aaron Bushnell l’indomani sul New York Times si merita un titolo che brilla per ciò che non dice: “un uomo muore dopo essersi dato fuoco davanti all’ambasciata israeliana a Washington, dice la polizia”. Un record di decontestualizzazione che è il contrario degli insegnamenti di ogni corso di giornalismo. E pensare che lo stesso giornale il 17 marzo del 1965 scriveva di “un’anziana vedova in condizioni critiche qui oggi dopo essersi data fuoco all’angolo di una strada la scorsa notte per protestare contro la politica estera degli Stati Uniti”. Smussarsi per sopravvivere. 

Dopo averlo taciuto qualcuno deve avere pensato che Bushnell anche da morto meritava di essere screditato. Così – come osserva l’editorialista Belén Fernández – il Time riesce a inserire la parola Gaza nel titolo ma ricorda nell’articolo che la “politica del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti stabilisce che i membri del servizio in servizio attivo non dovrebbero impegnarsi in attività politiche di parte”. Sono tempi così, dove protestare contro un genocidio è una posizione “di parte”. “Forse le ceneri di Bushnell potranno essere processate in un tribunale militare”, scrive Fernández. O forse siamo ancora al dito e alla luna, ancora peggio del 1965. 

Buon martedì. 

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