(di Fabrizio Gatti per l’Espresso)
Costato più di cinque miliardi di euro, mostra segni di cedimento prima ancora di entrare in funzione. E ora la grande opera che doveva salvare la Laguna deve essere salvata a sua volta.
La domanda vale i cinque miliardi e mezzo di euro che abbiamo speso: alla fine il Mose proteggerà Venezia? Insomma, funzionerà? Mancano appena duecento milioni alla conclusione dei lavori. E altri quattro anni prima dell’entrata in esercizio delle barriere contro l’acqua alta, dopo l’avviamento sperimentale che secondo il cronoprogramma dei cantieri è stato ulteriormente spostato al 2018. Ma già si vedono i primi acciacchi. Mentre la Serenissima affonda con costanza di pochi millimetri l’anno, le colossali strutture in cemento armato che dovrebbero proteggerla stanno già sprofondando nella sabbia al ritmo di quattro centimetri l’anno: una subsidenza record limitata alle zone dei cantieri di Lido, Malamocco e Chioggia che il progetto delle dighe mobili prevedeva in un secolo, non in pochi mesi.
Anche le prove delle prime paratoie già posizionate tre anni fa al Lido stanno facendo cilecca: per due volte o non si sono alzate completamente o non si sono riposizionate correttamente sul fondale. L’efficacia dell’infrastruttura è garantita per cent’anni, ma a Malamocco è bastata una mareggiata per mettere fuori uso per sempre la porta della conca che dovrebbe garantire il transito delle navi quando la bocca mare-laguna è chiusa: era troppo leggera per quel tipo di impiego, adesso ne devono progettare una nuova. Perfino alcune delle parti in acciaio inossidabile stanno dimostrando qua e là di essere al contrario un po’ troppo ossidabili.
Dal punto di vista giudiziario e amministrativo, il Mose dovrebbe essere ormai al sicuro. Dopo gli arresti e lo scandalo, la nomina degli amministratori straordinari Luigi Magistro, Giuseppe Fiengo e Francesco Ossola ha rimesso sui binari della legalità il Consorzio Venezia nuova, l’azienda concessionaria dell’opera costituita da imprese private. Ma per capire se il Mose sia davvero un sistema affidabile, servirebbe ora una sorta di commissariamento tecnico: una verifica affidata a enti internazionali per tutti i punti critici che stanno venendo letteralmente a galla.
Se ne parla molto in questi giorni a Venezia, a cinquant’anni dalla disastrosa marea del 4 novembre 1966 quando lo stesso ciclone autunnale dopo aver messo sott’acqua Firenze e la Toscana, investì la laguna. Se ne parla anche perché per molto tempo è stato vietato. Finché nel Consorzio e nella Regione Veneto regnavano i boiardi della tangente che gonfiavano le spese e derubavano lo Stato e tutti noi, chi dissentiva, anche con prove alla mano, veniva obbligato ad affrontare costosi processi per diffamazione. Ne sanno qualcosa Vincenzo Di Tella, Gaetano Sebastiani e Paolo Vielmo, progettisti colpevoli di aver osato suggerire all’allora sindaco Massimo Cacciari, contrario all’opera mangiasoldi, un progetto alternativo. I tre ingegneri sono stati poi assolti e raccontano oggi la loro esperienza in un libro appena pubblicato: “Il Mose salverà Venezia?”. Cinquant’anni e cinque miliardi e mezzo dopo, nessuno può rispondere con sicurezza.
L’impatto ambientale
I veneziani nati nel 1966 hanno cominciato a sentire parlare di “Moduli sperimentali elettromeccanici”, cioè di Mose, sui banchi di scuola. La difficoltà e i prevedibili costi esorbitanti dell’opera venivano giustificati con la necessità di nascondere la barriera per non compromettere il paesaggio lagunare, già guastato dall’inquinamento del petrolchimico di Porto Marghera. Da lì la scelta delle 78 paratoie sottomarine agganciate a cerniere: barriere cave da tenere coricate sul fondo e da riempire d’aria compressa, perché possano risalire e fermare l’ingresso del mare in laguna quando le previsioni meteo annunciano acqua alta.
Quell’idea discreta di progetto nella realtà è diventata una colata di 616 mila tonnellate di cemento armato che hanno stravolto il paesaggio nei tre punti di contatto tra laguna e mare: a Lido, Malamocco e Chioggia. Sono le basi sommerse, i fianchi visibili e le banchine che devono reggere e azionare le paratoie: ventisette cassoni di profondità attraversati da tunnel asciutti per i controlli e le manutenzioni e otto strutture di spalla, alte come palazzine, più un’isola artificiale. Non bastasse, il lato verso il mare è tagliato da chilometri di scogliere artificiali per dissipare l’energia e l’altezza delle onde quando soffia scirocco. Cemento e recinzioni arrivano fin dentro l’oasi delle dune degli Alberoni e la riserva naturale di Ca’ Roman.
I piedi di argilla
I disegnatori del Mose avevano previsto una leggera subsidenza, cioè un abbassamento delle strutture in cemento armato dovuto al compattamento del sottosuolo su cui poggiano. «Per ridurre i cedimenti assoluti e differenziali cui sono soggetti i cassoni – hanno scritto nel progetto -il terreno deve essere preventivamente consolidato tramite infissione di pali nei primi 19 metri al di sotto del piano di fondazione». In laguna però non si raggiunge mai la roccia: ci sono soltanto sabbia e caranto, un sedimento composto da limo e argilla. «Si prevede che i cedimenti dei cassoni siano compresi tra 30 e 50 mm a fine costruzione della barriera – ipotizzano quindi i progettisti – e che crescano nel tempo, presumibilmente fino a valori compresi tra 60 e 85 mm, a 100 anni da fine costruzione». Sono valori assoluti: cinque centimetri fino alla fine dei lavori, tra sei e otto centimetri e mezzo per tutto il secolo di operatività.
Quest’anno Luigi Tosi e Cristina Da Lio dell’Istituto di scienze marine del Cnr hanno pubblicato con altri due ricercatori uno studio sulle misurazioni inviate dai satelliti della rete Cosmo-Skymed e Alos Palsar. Riguardano il Delta del Po e la Laguna di Venezia. Gli scienziati rilevano intanto un movimento dei punti fissi a terra in Veneto di circa 2 centimetri all’anno verso Nord e 1,7 verso Est dovuto alla deriva tettonica della crosta terrestre. Ma la parte più delicata per il futuro di Venezia è legata al costante abbassamento del suolo: mentre in tutta la laguna viene indicato un rateo costante di circa due-tre millimetri all’anno, in tre punti si arriva a 40 millimetri l’anno: «I principali spostamenti», spiega Tosi, «sono localizzati alle tre insenature della laguna dove le strutture del Mose in costruzione provocano un ampio consolidamento dei depositi superficiali, costituiti prevalentemente da sabbia non consolidata. Un fenomeno dovuto al carico delle strutture».
Tecnici del Consorzio e periti esterni stanno ora cercando di capire cosa fare. I cassoni di cemento armato sono già tutti posati. Ma soltanto alla bocca del Lido sono state installate le prime paratoie. A Malamocco attendono in banchina il montaggio delle grosse cerniere, mentre a Chioggia i lavori sono più indietro. Se la subsidenza continua di questo passo, in appena tre anni verrà superata la previsione di progetto che doveva valere per l’assestamento iniziale e tutto il secolo di operatività. Le conseguenze sono facilmente ipotizzabili: con l’affondamento incontrollato dei cassoni nella sabbia e il contemporaneo innalzamento del livello del mare, le maree eccezionali e le onde potranno facilmente scavalcare le barriere. Ma ci può essere di peggio. Una velocità diversa di assestamento tra le parti oltre i margini di tolleranza metterebbe in crisi i giunti che collegano i tunnel sottomarini a tenuta stagna: il loro allagamento metterebbe fine a questo rocambolesco e costosissimo tentativo di fermare l’acqua alta.
Il collaudatore tuttofare
Modificare in corsa il progetto? Impossibile. Gli ideatori del Mose (e i governi che lo hanno finanziato) hanno scelto di ignorare la legge sulla salvaguardia di Venezia che come requisiti richiedeva «gradualità, sperimentalità, reversibilità” delle opere. Considerare graduali e reversibili in laguna oltre seicentomila tonnellate di cemento rinforzato da chilometri di ferro è piuttosto complicato: anche in caso di successo delle barriere mobili, chi tra cento anni dovrà adeguare o demolire la struttura, penserà molto male di noi. Perché per la rimozione e lo smaltimento dei cassoni dovrà spendere cifre molto vicine a quelle di costruzione. Per prevenire ulteriori incidenti di percorso, diventa fondamentale la severità dei collaudi già in corso.
Purché siano fatti da professionisti distaccati e con competenze specifiche: continua invece la prassi di frazionare i collaudi in tante commissioni che non dialogano tra loro e di premiare con incarichi di collaudatori funzionari amministrativi del ministero delle Infrastrutture, senza nessuna preparazione in ingegneria. A giurisprudenza non si insegnano i fenomeni di risonanza e instabilità dinamica: uno studio francese commissionato anni fa dal Comune dimostrava addirittura che con onde sopra i due metri e un periodo di 8 secondi le paratoie di Malamocco, così come sono state concepite, comincerebbero ad agitarsi senza controllo, lasciando passare la marea e mettendo a rischio l’intera struttura.
«Anche se in un contesto rinnovato di correttezza amministrativa dovuto ai commissari del Consorzio», dice Vincenzo Di Tella, per anni progettista della società “Tecnomare” del gruppo Eni, «il potere politico deciderà di accettare il fatto compiuto e portare a compimento il progetto, per avere una utilità dalla grandissima quantità di risorse spese. Noi crediamo invece che per poter essere completato e messo in esercizio, il Mose dovrebbe comunque essere finalmente verificato da esperti qualificati per tutti gli aspetti tecnici per i quali esistono tuttora dubbi di funzionalità, sicurezza e costi futuri. Non si tratta di un’opera civile tradizionale, ma di un sistema innovativo e complesso, per la cui funzionalità non esistono esperienze precedenti».
La concezione sottomarina della struttura aumenta di molto i costi di manutenzione: sono partiti da una stima di 40 milioni l’anno, che imprevisti hanno già fatto raddoppiare. Si comincia dalle prime paratoie posate nel 2013. Ancor prima di entrare in funzione, entro il 2018 vanno tutte sostituite e avviate alla revisione quinquennale. «Chi dovrà spendere 40 milioni all’anno di manutenzione del Mose?», chiedeva nel novembre 2006 l’allora sindaco Massimo Cacciari, supplicando lo stop e la revisione del progetto. Sono passati dieci anni. E manca ancora la risposta.