(Un articolo da incorniciare di Stefano Bartezzaghi su Repubblica di ieri. La donna in questione, tra l’altro, ha già spiegato bene l’accaduto sul Guardian qui)
Una giovane donna velata cammina sul ponte di Westminster, subito dopo la strage del Suv. Ha uno smartphone in mano, vicino a lei c’è un corpo a terra e un capannello che lo soccorre, ma lei procede senza guardare. È stata fotografata e poi accusata di essere indifferente allo scempio e sospettata persino di approvarlo. Per fortuna le era stato fatto un altro scatto, in cui il volto tradiva più evidentemente lo sgomento. Lei stessa è intervenuta, si è dichiarata sotto choc per i commenti malevoli e ha raccontato che aveva il telefono in mano perché aveva appena mandato un messaggio ai suoi cari a proposito di quanto era appena successo.
L’episodio è solo il prodotto più recente di una tendenza su cui non si discute mai e, indiscussa come appunto è, diviene sempre più allarmante: siamo, tutti, obbligati a reagire in modo riconoscibile e appropriato. Altro che politicamente corretto, altro che cantare fuori dal coro! Il nuovo imperativo paradossale è: «Sii, spontaneamente, sconvolto». Chi non si indigna prontamente (o al contrario non si rallegra) in reazione a ciò che è considerato degno di indignazione o gioia parimenti automatici ottiene l’istantaneo disprezzo collettivo. E questo avviene nelle occasioni più diverse. Un presagio marginale se ne era avuto anni fa per l’inezia del canto dell’inno prima delle partite della Nazionale: i giocatori che non partecipavano, magari oriundi (e quindi poco memori dello «stringiamci a coorte»), erano deprecati per deficit di affezione alla maglia nazionale. Ora cantano tutti, in coro. Su argomenti ben più importanti lo «sconvolgiamoci a coorte» non si elude e la mancata adesione ai lavacri collettivi delle coscienze è tollerata, paradossalmente, solo quando è polemica e sprezzante. Chi non è Garrone sia almeno Franti.
La ragazza velata aveva ovviamente tutto il diritto di passare dal ponte senza esibire manifestazioni apprezzabili di turbamento e orrore. Poteva essere, come probabilmente è, altamente pudica. Ma poteva anche avere in quel momento ragioni private per desiderare soltanto di allontanarsi da lì, non potendo oltretutto fare nulla per soccorrere le vittime. Persino la prima foto non è quella di una persona distaccata, ma i commenti sferzanti si sono sedati solo dopo la difesa da parte del fotografo e dopo che lei stessa ha dichiarato che si era appena offerta di aiutare i soccorsi Roland Barthes diceva che il fascismo non è la censura, non impedisce di dire: obbliga a dire. È certamente necessario che i dirigenti di comunità religiose, come quelli di movimenti e partiti politici, fino a quelli delle squadre di calcio, compiano esplicite e nette distinzioni dai criminali che si dicono ispirati dai loro stessi valori. È questa, la «responsabilità »: il dovere di rispondere. È inoltre possibile concordare con il Gramsci di “Odio gli indifferenti” e pensare che una diffusa noncuranza per ciò che avviene sia uno dei tanti mali che stanno cambiando il volto e il valore della nostra democrazia. Ma nulla di ciò può comportare, e per chiunque, l’obbligo di dimostrare in modalità visibili, istantanee e convincenti che indifferenti non si è.
La società dell’enfasi richiede di caso in caso le nostre lacrime o i nostri applausi. Ma il rispetto per i nostri sentimenti ci richiede, al contrario, di astenerci dal fare della loro manifestazione la partecipazione coatta a rituali collettivi di pregnanza dubbia e nulla spontaneità.
Giudicare, tanto più da una foto, sull’altrui sensibilità personale è avventato (e anche iniquo). Specie quando è collettiva, l’ipocrisia è invece assai più palese.