L’editoriale di Martin Baron, direttore del Washington Post:
Durante la campagna per le presidenziali e poi durante il primo anno della nuova amministrazione americana, molti di noi nel mondo della stampa hanno cominciato a domandarsi perché le vecchie regole del giornalismo sembravano non essere più applicabili. Com’era possibile che quando riportavamo che quello che diceva un candidato (poi presidente) era falso, l’opinione pubblica sembrava non curarsene? Com’era possibile che così tante persone credessero in cose non vere, anche se eravamo in grado di documentare che erano false? Com’era possibile che siti creati dal giorno alla notte riuscissero a disseminare falsità e teorie del complotto deliranti senza subire conseguenze, ma al contrario guadagnando pubblico?
Alcune risposte le ho trovate in un libro del 1985, che mi hanno consigliato di leggere, Divertirsi da morire: il discorso pubblico nell’era dello spettacolo, del compianto Neil Postman. L’idea di Postman era che lo spostamento del consumo di informazione dalla parola stampata al segnale televisivo aveva trasformato le fondamenta del nostro modo di comunicare, alterando la nostra cultura e la nostra politica. Postman sosteneva che la cosiddetta Era dell’Esposizione – dove la gente si informava attraverso la parola scritta e argomentazioni fondate su evidenza e logica – era stata sostituita dall’Era dello Spettacolo. Le apparenze, in pratica, contavano più del ragionamento.
Non sto pronosticando che questa profezia si avvererà. Ma penso che dobbiamo riconoscere che è cambiato qualcosa di fondamentale nella nostra professione. Forse il giornalismo non funziona più come in passato. Forse il pubblico non elabora più l’informazione come faceva prima. Il presidente degli Stati Uniti centra un punto essenziale quando sottolinea i suoi indici d’ ascolto televisivi. O quando spiega il suo comportamento su Twitter dichiarando: « Bisogna tenere vivo l’interesse della gente » . È evidente che c’è una dose massiccia di show, di performance, in questa amministrazione. Donald Trump ha imparato qualcosa dai 14 anni in cui ha presentato il reality The Apprentice. Sul contesto mediatico e la comunicazione politica ai giorni nostri forse ha imparato più di quello che la stampa ancora non riesca a cogliere.
Non sto esprimendo un’ opinione sui risultati delle elezioni presidenziali o sulle politiche del presidente. Ho un profondo rispetto per il nostro sistema democratico e il diritto dei cittadini di scegliere chi preferiscono per guidare il Paese. Lasciare che la gente discuta di ciò che è giusto e appropriato: questo è il nostro sistema. Questa è la stessa democrazia che garantisce a noi della stampa americana il diritto costituzionale di pubblicare liberamente, senza interferenze del Governo, ed è un diritto che mi sta molto a cuore.
Ma i padri fondatori degli Stati Uniti crearono una democrazia dove il presidente non è un re. Occupa un ruolo centrale. Ma anche il Congresso. E anche i tribunali. E anche la stampa, che è il motivo per cui i fondatori stilarono il primo emendamento alla Costituzione. La libertà di espressione, che è uno dei diritti citati nell’emendamento, è un limite all’azione del Governo. E lo stesso vale per la libertà di stampa. Questi diritti erano disegnati per costringere il Governo a rendere conto del proprio operato.
Come sta funzionando tutto ciò in questo momento? Trump ha dato un contributo eccezionale al mescolamento tra fatti e finzione. Durante la campagna elettorale, non si è limitato a screditare la stampa: ha cercato di marginalizzarci, di disumanizzarci, definendoci « feccia » , « la forma più bassa di umanità » , « la forma più bassa di vita » . Quattro settimane dopo il suo ingresso alla Casa Bianca, ci ha etichettati come « il nemico del popolo americano » . Alla fine dell’anno definiva i mezzi di informazione « una macchia sull’America » . Il primo giorno della sua presidenza, è andato alla Cia a dichiarare guerra contro i media. E guerra è stata. Da quando ha annunciato la sua candidatura, nel 2015, Trump ha postato più di mille tweet critici verso la stampa. Durante la campagna, meditava di intentare cause contro i mezzi di informazione per sovraccaricarci di costi legali e multe. Ora invoca il licenziamento di giornalisti. In generale questo presidente, che fa un uso aggressivo della libertà di espressione, dice che il primo emendamento offre « troppa protezione » alla stampa. Il mese scorso ha definito le leggi sulla calunnia «una frode e una vergogna», promettendo di modificarle.
Qui al Washington Post ci ispiriamo ai principi formulati per la nostra organizzazione nel 1935: «La prima missione di un quotidiano è raccontare la verità il più fedelmente possibile». A giudicare dal traffico digitale, dall’impennata degli abbonamenti e dei commenti dei lettori, gran parte del pubblico pensa che sia quello che stiamo facendo. In mezzo agli incessanti attacchi della persona più potente del pianeta, la risposta per noi è chiara: fare il nostro lavoro. Dobbiamo anche essere più trasparenti, rivelare come svolgiamo il nostro lavoro, raccontare alle persone chi siamo.
Le tensioni tra la stampa e il presidente non sono cosa di oggi. Un film recente racconta un pezzo di questa storia e si chiama The Post. Il regista è Steven Spielberg e il film parla dello scontro fra la stampa e il presidente Nixon sulla pubblicazione dei “Pentagon Papers”, la storia top- secret del coinvolgimento Usa in Vietnam tra il 1945 e il 1967. L’amministrazione Nixon si mosse per bloccarne la pubblicazione, minacciando un’ azione penale. Il caso arrivò alla Corte suprema, che deliberò in favore della stampa e del suo diritto di pubblicare. Quell’opinione esprime nel modo migliore lo spirito che anima oggi la redazione del Washington Post e anche di altri importanti mezzi di informazione statunitensi. È la nostra anima.
Ma da parecchi mesi, ormai, noi giornalisti siamo costretti a ricordarci che non ci basta avere un’ anima. Dobbiamo avere anche una spina dorsale. E sono felice di riferire che abbiamo anche quella.