Il processo per la morte di Giulio Regeni dunque si incaglia sull’ennesimo intoppo. La verità del resto è un bene raro e prezioso, per questo qualcuno vorrebbe risparmiarla. Dopo il rapimento di Giulio, dopo la tortura, dopo la morte con indicibili sofferenze (come scrive la Procura di Roma), dopo la protervia di Al Sisi che dice di non “accettare lezioni dall’Europa sui diritti umani”, dopo i depistaggi di Stato ora è tutto da rifare.
La terza sezione della corte d’Assise di Roma ha deciso che gli atti devono tornare al giudice per l’udienza preliminare perché non ci sarebbe la prova che i quattro imputati (gli 007 egiziani Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, tutti accusati di sequestro di persona e l’ultimo anche per omicidio) siano a conoscenza del processo aperto in Italia a loro carico.
Nel dispositivo della sentenza si legge: “L’acclarata inerzia dello Stato egiziano a fronte di tali richieste del ministero della Giustizia italiano, certamente pervenute presso l’omologa autorità egiziana, seguite da reiterati solleciti per via giudiziaria e diplomatica nonché da appelli di risonanza internazionale, effettuato dalle massime autorità dello Stato italiano, ha determinato l’impossibilità di notificare agli imputati, presso un indirizzo determinato, tutti gli atti del procedimento a partire dall’avviso di conclusione delle indagini. Gli imputati, dunque, non sono stati raggiunti da alcun atto ufficiale“. I giudici sottolineano che “le richieste inoltrate tramite rogatoria all’autorità giudiziaria egiziana contenenti l’invito a fornire indicazioni sulle compiute generalità anagrafiche e sugli attuali residenza o domicilio utili per acquisire formale elezione di domicilio ai fini della notificazione degli atti del procedimento instaurato a loro carico non hanno avuto alcun esito”. Bisogna quindi ripartire dall’udienza preliminare.
«Riteniamo importante che il governo italiano abbia deciso di costituirsi parte civile. Prendiamo atto con amarezza della decisione della Corte che premia la prepotenza egiziana. È una battuta di arresto, ma non ci arrendiamo. Pretendiamo dalla nostra giustizia che chi ha torturato e ucciso Giulio non resti impunito. Chiedo a tutti voi di rendere noti i nomi dei 4 imputati e ribaditelo, così che non possano dire che non sapevano», ha commentato l’avvocato Alessandra Ballerini, legale della famiglia Regeni, lasciando l’aula bunker di Rebibbia al termine dell’udienza.
La nuova udienza del gup, infatti sarà fissata entro gennaio 2022. In quella sede il giudice dovrà intraprendere tutte le strade possibili che il tribunale potrà intraprendere, a cominciare da una nuova rogatoria in Egitto, per rendere effettiva e non solo presunta la conoscenza agli imputati del procedimento a loro carico. Entro 20 giorni tutti gli atti del processo, circa 15 faldoni, torneranno all’attenzione del giudice Pierluigi Balestrieri che dovrà quindi fissare una nuova udienza.
La decisione di ieri rientra nel campo del Diritto e l’Italia (a differenza dell’Egitto) ha dimostrato di essere una democrazia utilizzando uno strumento di garanzia per gli imputati e per un Paese che invece non ha mai dimostrato in questa vicenda nessuna collaborazione e nessun rispetto delle leggi.
Ma la vicenda di Giulio Regeni, nonostante in molti fingano di non capirlo, è una vicenda politica, fortissimamente politica. L’Al Sisi che non rende noti alla Procura di Roma i domicili dei suoi uomini accusati di avere rapito, torturato e ucciso il giovane studente italiano è lo stesso Al Sisi che è ritenuto un “partner ineludibile” dai nostri rappresentanti di governo (a partire da Alfano quando era ministro fino ai giorni nostri). Appare piuttosto ipocrita stupirsi dell’arroganza del presidente egiziano fingendo di non sapere che il combustibile della sua prepotenza sia nei rapporti dorati che i nostri ministri intrattengono con lui pur di fare affari con gli armamenti.
A proposito di armi: nel 2008, il Consiglio europeo ha adottato una risoluzione che definisce le norme per il controllo dell’export di armamenti e dovrebbe essere vincolante per gli Stati membri: sono otto criteri impediscono l’export di armi verso paesi che le utilizzano per la repressione interna o in regioni dove possono contribuire all’instabilità, oltre agli Stati che violano i diritti umani e le convenzioni internazionali. In Italia tra l’altro ci sarebbe una legge nazionale (la legge 185 del 1990) che viene regolarmente calpestata oltre al Trattato Onu del 2013, che tutti i membri dell’Ue hanno ratificato, Italia inclusa. Pochi hanno fatto caso alle parole del ministro Guerini il 28 luglio dell’anno scorso quando con molto candore disse: «in seguito all’omicidio di Regeni la Difesa, in completa sintonia e raccordo con le altre amministrazioni dello Stato, in primis con il ministero per gli Affari esteri e la cooperazione internazionale, ha prontamente diradato il complesso delle relazioni bilaterali con l’omologo comparto egiziano».
Il ministro della Difesa, sempre bravo a fingersi trasparente, si è dimenticato che nel 2016, l’anno della morte di Regeni, la Polizia italiana ha addestrato in diversi centri i poliziotti di al-Sisi oltre a spedire in Egitto un migliaio di computer e di apparecchi; che dal 13 al 16 novembre 2017, una delegazione del Comando generale del Corpo delle capitanerie di porto ha fatto visita ufficiale per incontrare la Guardia costiera egiziana; che nel gennaio 2018 l’Italia spediva in Egitto 4 elicotteri AugustaWestland già in uso alla Polizia di Stato e il ministero dell’Interno cofinanziava al Cairo un progetto di “formazione nel settore del controllo delle frontiere e della gestione dei flussi migratori”; che il Comando generale del Corpo delle capitanerie di porto si è recato nuovamente in visita ad Alessandria d’Egitto dal 25 al 27 giugno 2018 («L’Italia reputa l’Egitto un partner ineludibile nel Mediterraneo, affinché quest’area raggiunga un assetto stabile, pacifico e libero dalla presenza terroristica», disse l’allora ministra Trenta); che il 13 agosto 2018 era la nuova fregata multimissione (Fremm) “Carlo Margottini” della Marina militare a recarsi ad Alessandria d’Egitto per svolgere con la Marina egiziana “un breve ma intenso addestramento, che ha permesso al personale delle due fregate di misurarsi in un contesto multinazionale”; che il 22 novembre 2018 una delegazione della Forza aerea egiziana, accompagnata da rappresentanti del gruppo militare-industriale Leonardo S.p.a., si recava in visita al 61° Stormo e alla Scuola internazionale di volo con sede nell’aeroporto di Galatina (Lecce); «Italia ed Egitto hanno completato nel 2019 un programma congiunto per l’individuazione degli effetti dell’esposizione alle radiazioni in caso di un’emergenza nucleare e delle contro-misure e dei trattamenti che possono essere predisposti», come rivela un recentissimo dossier dello Science for peace and security programme della Nato; che a Roma dal 25 al 27 maggio 2016 si è tenuto un meeting in ambito nucleare-chimico-batteriologico tra Italia e Egitto tenuto segreto e rivelato da un dossier della Nato. A questo aggiungete (Guerini sbadatamente se n’è dimenticato, accidenti) le due fregate Fremm, le navi militari costruite da Fincantieri, preparate in Italia per il governo egiziano per un affare di circa un miliardo di euro.
E allora sarebbe da chiedere chiaramente, guardandosi dritti negli occhi, ai ministri Guerini e Di Maio e al presidente Draghi: davvero credete che la costituzione in giudizio come parte civile della Presidenza del Consiglio basti per “lavare” una relazione che si incaglia su quattro indirizzi mentre stringe le mani insanguinate per miliardi di euro? Davvero credete che qui fuori si sia tutti così tremendamente ingenui, quasi cretini?