L’arresto dei 12 membri della “Werwolf Division” aggiunge un’altra pagina al capitolo infinito di quel fascismo che ufficialmente non esiste, ma che continua a riaffacciarsi con la puntualità di un orologio rotto. Stavolta è toccato alla polizia scovare simboli, arsenali e piani eversivi: il repertorio consueto di chi, con il braccio teso, prova a trasformare nostalgie patologiche in minacce concrete. Non è una novità, ma ogni volta ci troviamo a ripetere le stesse domande e ad ascoltare le stesse scuse.
Il nome scelto dal gruppo, “Werwolf Division”, è un omaggio inquietante alla resistenza nazista che, negli anni ’40, sognava sabotaggi e guerriglia contro un mondo che credeva di aver voltato pagina. E invece eccoci qui: il fascismo non è mai andato via, ha solo imparato a nascondersi, a mascherarsi, a farsi più sfumato, ma non meno pericoloso. Si è infilato nelle pieghe del disagio sociale, nei vuoti di memoria collettiva, nei silenzi che concediamo per distrazione o per calcolo.
Non si tratta di un fenomeno isolato, ma di un sistema che prolifera nei canali digitali e nei discorsi pubblici, protetto dalla complicità di chi minimizza, di chi parla di “ragazzate” anche quando ci sono minacce armate. Il fascismo torna perché trova chi lo coltiva, chi lo giustifica, chi lo considera un fenomeno del passato e, quindi, non degno di attenzione. Ma il fascismo non è mai stato solo un reperto storico: è un pericolo che si adatta, si trasforma e si infiltra.
Ogni blitz, ogni arresto è solo una toppa su una falla più grande. Perché il problema non è solo la “Werwolf Division” o i 12 arrestati. Il problema è la retorica che li ha nutriti, il clima che li ha normalizzati, i discorsi d’odio che continuano a trovare ospitalità nei palazzi e nei social.
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