La paura di perdere il tocco per scrivere. Questa cosa qui. Nonostante tutta la letteratura che si spreca descrivendo coraggiosi, arditi, fulminanti, sempre certi. No, qui da queste parti, da noi, non esiste sicurezza così sicura e nemmeno la presunzione d’esser certi. E così ogni tanto succede che ti assalga il dubbio che sia sparita l’ispirazione: un momento come di depressione, ma al cubo. La paura di avere perso il palato, di avere avuto il privilegio di raggiungere parole molto più in alto della propria natura arrivate così, per una serie di coincidenze.
La mia preparazione prima dello spettacolo, ad esempio, mi accorgo che non ha più niente di tecnico ma è semplicemente la patetica ricerca di una ripetizione dei gesti. Niente tecnica ma tutta stregoneria. Pensando che l’energia sia una serie di incastri chimici e temporali e che quell’inaspettata voglia dell’ultima volta in scena sia figlia di gesti compiuti esattamente in quell’ordine. Ecco: se l’abitudine diventa vizio prima di nobilitarsi in rito allora io sono a quel punto lì.
E in fondo ho imparato a scrivere mica leggendo, studiando, ripetendo e nemmeno convincendomi di girare il mondo: scrivo l’alito che mi porto incollato ai vestiti quando mi capita di frequentare i miei posti peggiori. Scrivo le lacrime dei miei figli quando sono incapace di essere padre, scrivo il terrore di non assomigliare per niente all’immagine incollata addosso, scrivo il dolore di quando sono stato incapace di amare per davvero, scrivo la vergogna di essere inetto a qualcosa. Scrivo quelle cose lì.
Solo dopo, dopo, cerco di dare una forma potabile a un seme che è cresciuto nel letame. Non so se sono riuscito a spiegarmi.