Una riflessione di Edoardo Pisani pubblicata su minimaetmoralia che vale la pena di leggere:
Il ruolo dello scrittore è stato spesso associato all’immagine di sentinella democratica o guida morale di un paese, di una cultura, di un’ideologia. Ancora oggi, anni dopo il crollo del Muro di Berlino e nel disincanto dalle ideologie e dalla letteratura impegnata, gli scrittori vengono interpellati su qualsiasi argomento, dalla politica allo sport, dal gossip alla disoccupazione, non tanto per le loro opere quanto per la loro bibliografia, ossia per quei due o tre titoli da accompagnare alla qualifica di scrittore e intellettuale, nei casi peggiori di opinionista. Già nel 1937 la Left Review esasperava Orwell con questionari del tipo: è favorevole o contrario al governo legittimo e al popolo della Spagna repubblicana? è favorevole o contrario a Franco e al fascismo? E lui rispondeva: “Volete piantarla, per favore, di mandarmi questa stronzata? È la seconda o terza volta che la ricevo. Io non sono uno dei vostri finocchietti alla moda come Auden o Spender…” Di certo, “finocchietto” o meno, uno scrittore engagé come Orwell era in grado di dire la sua sulla Spagna repubblicana e sullo stalinismo, però nelle opere, da Omaggio alla Catalogna a La fattoria degli animali, che né la Left Review né il Partito comunista britannico avevano voglia di leggere.
“Quando uno scrittore s’impegna in politica” scrive ancora Orwell in Gli scrittori e il leviatano, “dovrebbe farlo come cittadino e come essere umano, ma non come scrittore”. E tuttavia è proprio in quanto scrittori – in quanto intellettuali, o “guru e bonzi alla Robert Frost”, come temeva Saul Bellow – che le “firme” vengono chiamate in causa. Perché? Per quale motivo uno scrittore dovrebbe essere più lucido di uno scienzato o di un idraulico, politicamente? Dopotutto per ogni Mann e Orwell spuntano fuori altrettanti Hamsun e Céline, riusciti o meno, destinati all’oblio o alla posterità, alle note a pié di pagina o al catalogo della Pléiade. La letteratura straripa di folli, di mostri fragili o anche di uomini occasionalmente cinici, come il Pirandello che plaude all’assassinio di Matteotti o il Pessoa che pubblica l’articolo O Interregno, Defesa e Justificação da Ditadura Militar em Portugal. Lo scrittore difatti è un uomo come gli altri e talvolta peggiore degli altri, per ingenuità, per ambizione, per pazzia o per debolezza, e in quanto tale – in quanto uomo – vive le Meduse del proprio tempo, l’orrore e il brulicare dei tentacoli della Storia e delle ideologie, restandone spesso stregato o corrotto, se non indifferente. In fin dei conti il sostegno pubblico di Pirandello a Mussolini e la sua tempestiva adesione al fascismo sono infinitamente più colpevoli – proprio perché gesti intellettuali, non provocatori o estetici – della presa di Fiume e della “poetica dittatura” di d’Annunzio. Nel settembre del 1924, un mese dopo il ritrovamento del cadavere di Matteotti e nel pieno di una difficile crisi di governo, i giornali fascisti accolsero il telegramma di Pirandello come un intervento civile, patriottico, responsabile, fascista. “L’arte pirandelliana non ha nulla a che fare col fascismo, ma Pirandello sì” concluderà anni più tardi Sciascia.