Ne scrive Repubblica. Troppo mascolina. Poco avvenente. E quindi è poco credibile che sia stata stuprata, più probabile che si sia inventata tutto. È un ragionamento che già indignerebbe se ascoltato in un bar, ma che letto in una sentenza fa un effetto ancora peggiore. Per di più se a firmarla sono tre giudici donne. Che scelgono, così, di assolvere in appello due giovani condannati in primo grado a cinque e tre anni per violenza sessuale. E nelle motivazioni scrivono che all’imputato principale “la ragazza neppure piaceva, tanto da averne registrato il numero di cellulare sul proprio telefonino con il nominativo “Vikingo” con allusione a una personalità tutt’altro che femminile quanto piuttosto mascolina”. Poi la chiosa: “Come la fotografia presente nel fascicolo processuale appare confermare”.
Il verdetto è stato annullato con rinvio dalla Cassazione come richiesto dal procuratore generale che ne ha evidenziate alcune incongruenze e vizi di legittimità. Per cui il processo di appello dovrà ora essere rifatto. Ma intanto la sentenza bocciata ha fatto saltare sulla sedia più di magistrato della Suprema Corte. Perché leggendone il testo sembra che a influire sulla decisione delle tre magistrate sia stato proprio l’aspetto fisico della donna.
Un passo indietro. Ancona, marzo 2015. Una ragazza di origini peruviane, 22 anni (la chiameremo Nina, nome di fantasia) si presenta in ospedale con la madre dicendo di avere subito una violenza sessuale alcuni giorni prima da parte di un coetaneo, mentre un amico di lui faceva da palo. Il gruppetto frequentava la scuola serale, dopo le lezioni i tre avevano deciso di bere una birra insieme. Le birre diventano parecchie, la giovane e uno dei due compagni si appartano più volte, hanno rapporti sessuali. Per gli imputati erano consensuali, per la parte offesa a un certo punto hanno smesso di esserlo, sia per l’eccesso di alcol sia per una esplicita manifestazione di dissenso. I medici riscontrano lesioni, compatibili con una violenza sessuale, e un’elevata quantità di benzodiazepine nel sangue che la vittima non ricorda di aver mai assunto.
Dopo le indagini, si apre il processo di primo grado che il 6 luglio 2016 condanna uno dei due, quello che ha avuto i rapporti con Nina, a cinque anni, e il suo amico che ha fatto da palo a tre. Gli imputati ricorrono e il 23 novembre 2017 la Corte d’Appello dà loro ragione. Li assolve perché non ritiene credibile la ricostruzione della parte offesa. Fino a qui, nulla di strano: normale dinamica processuale. Quello che non fa parte della dinamica processuale, prima anomalia, è che la parte offesa venga definita dalle giudici della Corte d’Appello di Ancona, nelle motivazioni, come “la scaltra peruviana”.
Non bastasse questo, le tre componenti del collegio si lasciano andare a commenti e valutazioni fisiche forse dimenticando che il loro ruolo è sì quello del giudice, ma penale, e non di un concorso di bellezza. Tanto da arrivare a scrivere nelle conclusioni della sentenza che “in definitiva, non è possibile escludere che sia stata proprio Nina a organizzare la nottata “goliardica”, trovando una scusa con la madre, bevendo al pari degli altri per poi iniziare a provocare Melendez (al quale la ragazza neppure piaceva, tanto da averne registrato il numero di cellulare sul proprio telefonino con il nominativo di “Nina Vikingo”, con allusione a una personalità tutt’altro che femminile, quanto piuttosto mascolina, che la fotografia presente nel fascicolo processuale appare confermare) inducendolo ad avere rapporti sessuali per una sorta di sfida”. Insomma, gli imputati devono essere assolti, così avevano stabilito le tre giudici marchigiane. Perché Nina, secondo loro, non poteva essere desiderata: sembrava un maschio.
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