Una mia intervista (presa da qui)
In Italia c’è un teatro diverso. Un teatro che prende per mano lo spettatore e lo accompagna in una trama fatta di persone, volti conosciuti, realtà familiari. Storie non necessariamente positive o negative perché nel teatro – come nella vita – a volte a far sì che un racconto si caratterizzi in un modo o nell’altro è lo sguardo dei presenti che assistono al racconto. Quello che c’è di certo in questo teatro diverso in Italia, sono gli interpreti, quelli che la storia non solo l’hanno vissuta, ma la raccontano. Ecco, fra questi, uno dei migliori è Giulio Cavalli. Attore, regista, scrittore, Cavalli passa con la stessa facilità dalla stesura di libri alla recita sul palcoscenico, passando – spesso, ma non solo – attraverso il tema comune della lotta alla mafia.
Iniziamo dal teatro. Uscendo dai tuoi spettacoli, subito fuori dalla sala, si avverte immediatamente un senso di catarsi, un lungo respiro seguito quasi subito dal peso delle parole e delle storie che racconti. E forse è meglio che le seconde seguano il primo.
“Credo che il teatro debba essere il luogo delle domande, piuttosto che delle risposte e quindi mi immagino il teatro come il luogo dove ci si allena a porsi le domande che per disabitudine, per ignoranza, per superficialità o per troppo dolore non ci siamo mai posti”.
Il tuo è un teatro di narrazione che racconta quelle che tu definisci “storie che crescono senza essere raccontate, a volte perché puzzano, a volte perché stanno sotto la cassa di un negozio perché la vetrina deve essere rassicurante”.
“A differenza della televisione in teatro l’umanità della storia è l’ingrediente fondamentale per la credibilità, mi ritengo molto fortunato nell’avere un pubblico che mi affida il proprio ascolto e per questo scelgo con cura quasi ossessiva le storie (e i particolari di quelle storie) da raccontare”.
Da “Do ut Des” in poi tema centrale del tuo teatro diventa la mafia. O forse sarebbe meglio dire l’antimafia, perché la sensazione che si ha stando sul marciapiede immediatamente all’uscita da un tuo spettacolo, è che le tue siano opere contro la mafia e non “sulla” mafia.
“Certo. I miei spettacoli sono “contro”, spesso. E comunque desidero un teatro che prenda posizione, che abbia una posto all’interno della storia. Altrimenti sarebbe cronaca. Non è il mio lavoro”.
Se tu ti interessi alla mafia, anche la mafia si interessa a te. E lo fa perché “dà fastidio la polvere che si alza dagli spettacoli teatrali”. Quando poi alza il tiro, tu fai i nomi e i cognomi dei mafiosi del Nord e del Sud, ma soprattutto inizi a girare per le scuole, raccontando un’altra Italia ad alunni ed insegnanti.
“Se davvero la mafia, come dicevano Borsellino e Falcone, è un fenomeno culturale è semplice cogliere quanto siano importanti gli “operatori” culturali in questa battaglia e l’educazione è la radice della cultura. Davvero credo che a scuola si costruiscano i lettori, gli spettatori che saranno”.
C’è una frase del tuo repertorio che voglio segnalare ed è quella per cui “l’antimafia si fa innamorandosi dello Stato e non dei salvatori”. Eppure, la sensazione, è che ci sia ancora bisogno di un eroe che guidi fuori dalla palude, anche – forse – per un forte senso di disillusione nello Stato.
“La mitizzazione facilita la delega: “questo è un mio mito e affido a lui questa battaglia” è l’errore più comune e pericoloso in cui si possa incorrere”.
Uno di questi eroi, che forse non dovrebbe esserlo, è il magistrato palermitano Nino Di Matteo. Insieme ad altre 7000 persone hai lanciato un appello – ancora firmabile – per chiedere a Renzi di intervenire garantendo maggiore protezione tramite la concessione di un bombjammer al giudice. Un appello che si apre con un “facciamo finta che il tritolo acquistato e nascosto nei bidoni su ordine di Matteo Messina Denaro (così come la racconta un pentito) sia esploso…”
“Di Matteo è la personificazione di un isolamento che serve per preparare il terreno alla delegittimazione. Difendere lui significa difendere le buone pratiche dell’antimafia, significa avere imparato la lezione della storia”
Alla base del tuo lavoro resta un impegno civico che fa eco alle parole dello stesso Nino Di Matteo quando dice “non pensate mai, non cedete nemmeno alla tentazione di pensare anche per un solo momento che la vostra passione civile sia inutile o tradita, per favore non lo pensate mai…”.
“Non credo che sia possibile scindere i comportamenti sopra o sotto il palcoscenico. Il teatro “civile” (espressione che proprio non amo) implica una linearità di comportamenti”.
Capitolo Mafia Capitale. Se per il Procuratore DNA, Vincenzo Macrì “Milano è la capitale della ‘ndrangheta”, Roma non sembra essere da meno. Politici, malviventi di lungo corso, infiltrazioni di ogni genere. Sembra un film già visto, sempre lo stesso.
“Non credo che sia un film già visto: credo che sia lo stesso film e noi ci siamo fatti convincere che fosse giunto alla fine; del resto anche i personaggi sono gli stessi Mafia Capitale racconta anche quanto siamo stati scarsi nell’allenamento della memoria”.
C’è un capitolo di questa storia che non viene raccontato ed è quello che colpisce il terzo settore, quelle persone che, scrivi, sono “uomini e donne che hanno scelto di sacrificare (anche economicamente) la propria vita in nome di un valore da professare nel proprio mestiere”.
“Il terzo settore in Italia ha sostituito il welfare che avrebbe dovuto garantirci lo Stato. Lucrare sul terzo settore è un reato ancora più odioso dal punto di vista etico: significa arricchirsi sulle fragilità degli altri”.
Chiudiamo con una sentenza di questi giorni. La Corte di Cassazione ha confermato i quattro ergastoli per l’omicidio di Lea Garofalo, una storia che hai seguito dall’inizio alla fine.
“Bene. Lo aspettavamo tutti. Adesso mi piacerebbe anche sentire un po’ più di coraggio quando raccontiamo perché Lea sia rimasta sola fino alla morte. Chissà che qualcuno non riesca a dire che Lea Garofalo è stata abbandonata dallo Stato e anche da un bel pezzo dell’antimafia, prima di morire. E poi è stata riadattata da morta”.
Dimenticavo. Su quel marciapiede, davanti al teatro, c’è un terzo sentimento che si avverte, forte, ed è il sorriso che regala uno spettacolo che fa ridere riuscendo a parlare al cittadino prima e alla persona poi.
“Ed è il sorriso che mi dà la forza di cercare compulsivamente la meraviglia”.
In questo momento, Giulio Cavalli è impegnato in un raccolta fondi per il suo prossimo spettacolo, con una storia che potete conoscere e sostenere qui.