Amano la storia solo quando gli fa comodo. La storia della cittadinanza italiana, ad esempio, è un racconto di cambiamenti graduali e, talvolta, repentini che andrebbe studiata per bene. Un’analisi di Pagella politica rivela come, nel corso di oltre un secolo, l’Italia abbia modificato significativamente i criteri per concedere la cittadinanza, passando da un approccio relativamente aperto a uno decisamente più restrittivo.
Da Giolitti al Fascismo: un secolo di apertura
Inizia tutto nel 1912, quando l’Italia era ancora un regno e Giovanni Giolitti guidava il governo. In quell’anno venne emanata una legge che avrebbe regolato la concessione della cittadinanza per i successivi ottant’anni. Le sue disposizioni erano sorprendentemente liberali per l’epoca: bastava risiedere in Italia per soli cinque anni per poter richiedere la cittadinanza. Anzi, in alcuni casi speciali, come per chi avesse reso “notevoli servigi all’Italia” o avesse sposato una cittadina italiana questo periodo si riduceva addirittura a tre anni. La legge sopravvive pressoché intatta anche durante il ventennio fascista. Nel 1934, il regime apportò alcune modifiche, ma i criteri fondamentali rimasero invariati.
Gli anni ’70 e ’80 videro alcuni aggiustamenti alla legge, più che altro di natura tecnica. Nel 1977, con l’abbassamento della maggiore età a 18 anni, si adeguò anche l’età in cui i nati in Italia da genitori stranieri potevano richiedere la cittadinanza. Un cambiamento più sostanziale avvenne nel 1983, quando una sentenza della Corte costituzionale estese il diritto alla cittadinanza per nascita anche ai figli di madre italiana, correggendo una disparità di genere che durava da decenni.
1992: la svolta restrittiva nell’era dell’immigrazione
La vera svolta, tuttavia, arrivò nel 1992. In un’Italia che stava iniziando a confrontarsi con flussi migratori in aumento il Parlamento approvò una nuova legge sulla cittadinanza che avrebbe cambiato radicalmente le regole del gioco. Il requisito di residenza per gli stranieri non comunitari venne raddoppiato, passando da cinque a dieci anni. Solo per i cittadini dell’Unione Europea si mantenne il criterio dei cinque anni.
Per comprendere la portata di questo cambiamento basta guardare i numeri. Nel 1991, gli stranieri residenti in Italia erano circa 350.000, meno dell’1% della popolazione. Oggi, a distanza di tre decenni, sono quasi 5 milioni, rappresentando quasi il 9% dei residenti. Un aumento che ha trasformato il tessuto sociale del Paese innescando il gioco politico della xenofobia.
Nonostante i numerosi tentativi di riforma negli anni successivi, la legge del 1992 è rimasta sostanzialmente immutata. Ora il vento potrebbe cambiare. Il 24 settembre 2024, un comitato referendario ha annunciato di aver raccolto 500.000 firme per indire un referendum abrogativo. L’obiettivo? Riportare a cinque anni il periodo di residenza necessario per richiedere la cittadinanza, come era prima del 1992.
Se la Corte costituzionale darà il via libera, gli italiani potrebbero essere chiamati alle urne nel 2025 per decidere se tornare, in un certo senso, al passato. Un passato in cui diventare italiani era, almeno sulla carta, più semplice.
Il confronto è lampante: per ottant’anni, dal 1912 al 1992, bastavano cinque anni di residenza per poter chiedere di diventare italiani. Oggi ne servono dieci. Un raddoppio che riflette non solo un cambio di politica ma anche una diversa concezione dell’identità nazionale e dell’integrazione.
La storia della cittadinanza italiana è, in fondo, la storia di come il Paese si è visto e si vede nel contesto globale. Da nazione di emigranti a terra di immigrazione l’Italia ha dovuto e dovrà ancora confrontarsi con la questione di chi può chiamarsi italiano. Un dato è incontestabile: perfino i fascisti appaiono più liberali di qualcuno del giorno d’oggi.
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