Un “carnaio” cui si finisce per abituarsi (la recensione di Francesco De Palma)
(fonte)
Un romanzo surreale, grottesco, crudo, inquietante. E che rimanda all’attualità. E’ “Carnaio”, di Giulio Cavalli.
Una città sulla costa, DF, è travolta da ondate di morti, tutti uomini, tutti giovani, tutti di pelle più scura. Migliaia, decine di migliaia, centinaia di migliaia. Metafora potente delle migrazioni di questi anni, l’emergenza finisce per stimolare la creatività degli abitanti della cittadina, che impareranno a sfruttare nei modi più vari i corpi che il mare continua a riversare sulla costa e poi sulla barriera fatta costruire dal sindaco, per farne occasione di guadagno e di apparente prosperità. Almeno fino all’epilogo finale, che ovviamente è meglio non rivelare.
A svilupparsi pagina dopo pagina, però, non è solo la creatività umana. Pian piano si assiste a un racconto corale che registra una deriva di umanità. Che il lettore troverà senz’altro familiare, e che passa dalle prediche assolutorie del parroco – “Quando la bontà diventa un idolo si cade nell’isteria. Gesù ci chiede di amarci, ama te stesso, dice il sacro comandamento, quella è la nostra natura” -, all’inaridimento dei cuori, alla crudeltà crescente: “Speravo che qualcuno fermasse questa discesa verso il baratro, confidavo che il mondo non avrebbe permesso che la città in cui vivo con mia figlia si trasformasse in una miniera d’odio”, dice una delle protagoniste, una delle poche a dissociarsi dal cattivismo imperante.
“Carnaio” è uno schiaffo. Uno schiaffo a chi, avanzando lungo una trama volutamente esasperata, esagerata, irreale, confida nel fatto che vicende del genere sono troppo oltre il possibile. E’ uno schiaffo perché, come leggiamo, “camminando camminando, ci si fa l’abitudine. Perché ci si abitua a tutto”.
Francesco De Palma