Vai al contenuto

agoravox

Salerno – Reggio Calabria, la talpa e le ‘ndrine

Un gran bel pezzo di Federico Pignalberi per gli amici di Agoravox:

La procura di Reggio Calabria ha aperto un fascicolo d’indagine per favoreggiamento alla cosca Nasone da parte di almeno un infiltrato nelle forze dell’ordine che ha informato il clan di Scilla sulle indagini in corso per le estorsioni nei cantieri stradali. Lo dimostrano alcune intercettazioni ambientali inedite che AgoraVox pubblica per la prima volta. Intanto, tre giorni fa, il ministro Passera ha presentato il suo rivoluzionario piano per lo sviluppo: la Salerno-Reggio Calabria. “Pronta entro il 2013, ci metto la faccia”, ha detto. Ma su come affrontare le infiltrazioni criminali, nemmeno una parola. Per completare l’ammodernamento dell’autostrada mancano ancora all’appello quasi la metà dei lavori. E la ‘ndrangheta continua a comandare sui cantieri.

L’autostrada A3 non è solo il simbolo dell’inefficienza italiana nel realizzare le opere pubbliche: è l’esempio migliore di cosa vuol dire subire la tirannide delle organizzazioni mafiose e adeguarsi alla loro legge; 495 chilometri di asfalto e cantieri che collegano Napoli a Reggio Calabria, attraversando tre delle regioni più violentate dalle mafie nell’Italia meridionale. È il secondo tronco di quella che chiamano Autostrada del Sole, ma è solo una strada di morte. Dal 1997 al 2002 ha ucciso 47 persone in 2382 incidenti automobilistici. E poi gli operai: ne sono morti sei solo da maggio del 2008 a giugno del 2011. Tutti mentre lavoravano. Alcuni sono caduti dalle impalcature e sono morti per l’impatto col terreno o, nel caso di Salvatore Pagliaro, soffocati in una colata di cemento. Altri hanno avuto un destino non meno orribile. Valerio Vessuti, 21 anni, lavorava per un’impresa di Genova, la Carena, ma era originario di Potenza. Il 24 settembre 2009 stava lavorando alla costruzione di una galleria. Mentre era sul cestello elevatore, un blocco di argilla si è staccato dal fronte di scavo e lo ha colpito alla testa. È morto sul colpo. Un suo collega napoletano meno giovane, Vincenzo Gargiulo, è morto folgorato dalla stessa gru su cui stava lavorando. E tantissimi altri operai sono rimasti feriti, anche in modo grave.

I lavori per l’ammodernamento di questo inferno stradale sono iniziati quindici anni fa. Nel ’98 Enrico Micheli, allora ministro dei lavori pubblici del governo Prodi, prometteva deciso: «Nel 2003 siamo sicuri di completare l’aggiornamento di questa arteria fondamentale». Poi, insediatosi il governo Berlusconi, il Cipe spostava la data di fine lavori al 2005, mentreLunardi, più pessimista, prospettava il 2008, ma nel 2007 l’allora ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro prometteva che i lavori sarebbero stati completati entro il 2009. Nel 2009 i lavori continuavano ancora. Il ministro era Matteoli, che posticipava la loro conclusione al 2012, ma l’Anas lo correggeva: 2013. L’8 giugno scorso l’Anas ha confermato che, almeno in Basilicata, i lavori finiranno entro il 2013, ma c’è chi sostiene che per vedere davvero chiudere l’ultimo cantiere bisognerà aspettare addirittura il 2020.Intanto i costi sono quasi raddoppiati: da 5,8 miliardi di euro previsti nel 2002 a 10,2 miliardi nel 2010. Sergio Rizzo sul Corriere della Sera ha calcolato che per costruire ex-novo la Salerno-Reggio Calabria negli anni sessanta furono spesi 5 milioni di euro a chilometro. Oggi ammodernarla ci verrà a costare 22 milioni al chilometro.I risultati sono sotto gli occhi degli automobilisti: code continue, pochissime corsie di emergenza, cantieri infiniti che riducono la strada a una sequenza di strettoie, aree di servizio inesistenti. E voragini: basta un po’ di pioggia perché si aprano e impediscano ai viaggiatori di attraversare l’autostrada per ore. La protezione civile è di casa sulla Salerno-Reggio. Quasi tutto il territorio attraversato dall’A3 è a forte rischio idrogeologico. Quando piove, le frane sono all’ordine del giorno e le corsie si allagano.

Le responsabilità di questo disastro sono molte. Ci sono i rallentamenti sugli appalti e i subappalti, le gare truccate, i certificati antimafia che vengono revocati. C’è l’Anas che non paga le imprese. C’è un terreno argilloso che costringe a consolidare le gallerie di continuo metro per metro, via via che si scava, per arginare le infiltrazioni d’acqua. E soprattutto ci sono i clan che controllano ogni goccia di calcestruzzo versata. Chilometro dopo chilometro, per tutto il tragitto.

Lungo tutta l’autostrada, la ‘ndrangheta controlla appalti e subappalti. Persino il lavaggio delle lenzuola degli operai delle ditte del nord e del centro Italia che stanno eseguendo i lavori: anche quello finisce in mano alle aziende dei clan. E se una ditta vicino a una famiglia perde la certificazione antimafia e, quindi, il lavoro, subentra al suo posto quella di un’altra famiglia, che lascia i subappalti in mano alle stesse società di ‘ndrangheta che li avevano ottenuti prima.

Per gestire un controllo efficace su un’opera che attraversa confini criminali così diversi, c’è bisogno di mettersi d’accordo. Una sera a cavallo tra il 1999 e il 2000 le ‘ndrine si sono riunite in una contrada semideserta di Rosarno e hanno deciso: su ogni appalto avrebbero avuto diritto a una tassa ambientale, cioè a un pizzo, del 3 per centro. È una regola ferrea, che vale per tutti: appalti, subappalti, forniture. E gli imprenditori pagano. Quasi senza eccezioni. Il 3 per cento è il pizzo equo per tutti: dalle imprese più piccole ai colossi dell’edilizia come Impregilo Condotte. Sono stati proprio questi due giganti imprenditoriali a trovare il modo per pagare le ‘ndrine senza dover ricorrere a fondi neri.

Sulla Salerno-Reggio Calabria il pizzo viene iscritto a bilancio. Si chiama «costo sicurezza». Il dirigente di Condotte che ha inventato questa «strategia aziendale» (testuale) si chiama Giovanni D’Alessandro. «Io su quei margini che escono dai costi di gara, che sono stati forzati, ho inserito una nuova riga, cioè… in cui ho messo un costo fittizio di stima di un tre per cento sui ricavi e l’ho chiamato costo sicurezza Condotte-Impregilo».

Anche Impregilo pagava la ‘ndrangheta. Oggi è il general contractor che ha vinto la gara per il Ponte sullo Stretto di Messina, in altre parole l’azienda che dovrà materialmente costruirlo. E anche per il Ponte ha replicato l’alleanza con Condotte, un colosso delle costruzioni che nel bilancio consolidato del 2010 ha dichiarato un giro d’affari di oltre 740 milioni di euro e un utile netto di 7,6 milioni. Il prefetto di Roma gli avevarevocato il certificato antimafia proprio per le infiltrazioni mafiose nei lavori per la A3. Poi, però, Condotte ha vinto il ricorso al Tar, e oggi ha tutte le carte in regola per continuare a occuparsi dei più grandi appalti pubblici del Paese, Salerno-Reggio inclusa.

Nell’incontro di Rosarno i clan si accordarono anche su come spartirsi il bottino. Ogni ‘ndrina riscuote nel suo territorio di competenza. In provincia di Cosenza se ne occupano le famiglie di Sibari Ai clan del Capoluogo spetta la tratta che va da Tarsia fino a Falerna, all’altezza di Catanzaro. Poi subentrano i clan locali della zona di Lamezia, tra cui gli Iannazzo. Continuando a scendere, l’autostrada si riavvicina al mare all’altezza di Pizzo, dove comanda la cosca Mancuso.Quando si arriva nella piana di Gioia Tauro, si entra in un groviglio di interessi criminali e famiglie di ‘ndrangheta in cui la fanno da padroni i Pesce e i Bellocco di Rosarno, e i Piromalli, una delle più grandi cosche mafiose di tutta l’Europa occidentale. Ma è permesso prendere parte ai lavori anche a clan “minori”, come i Polistena.Da Villa San Giovanni in giù le famiglie locali dividono il loro 3 per cento con i gruppi di Reggio per evitare dissidi. Poco più a nord, invece, sotto Palmi, la spartizione dei soldi delle estorsioni ha causato molto più di qualche disputa. Ha scatenato una guerra di mafia. Una faida che ha visto da una parte i Bruzzise, dall’altra i Gallico che, insieme ai Morgante e agli Sciglitano, non accettavano che i loro avversari fossero stati autorizzati dal boss di Rosarno, Umberto Bellocco, a riscuotere il pizzo sui lavori nella zona di Seminara. Perché controllare i lavori dell’A3 a Palmi è più redditizio che in ogni altro luogo: ci sono ponti, gallerie, più lavori da fare. Un giorno qualcuno, forse il boss Antonino Pesce, disse a Giuseppe Gallico che alla sua famiglia era andata bene, che con l’autostrada a Palmi si sarebbero potuti «sistemare».

Furono gli Sciglitano a subire i primi attacchi, i primi due omicidi, nel 2004. Poi però reagirono, e i Bruzzise ebbero la peggio: cinque morti ammazzati in quattro anni. Solo per due di questi omicidi si è riusciti a dare un nome al mandante: il boss Giuseppe Gallico, oggi sotto processo a Palmi per concorso in omicidio.

Poco più a Sud, appena sotto Sinopoli, l’autostrada passa per Scilla, un paese di cinquemila anime di fronte allo Stretto di Messina. Lì a comandare è la famiglia Nasone. La loro specialità: le estorsioni. E la pirotecnica. Negli anni ottanta misero in piedi più di cento attentati dinamitardi: dopo ogni esplosione arrivava la richiesta estorsiva. E hanno continuato a farlo, anche per i lavori di ammodernamento della Salerno-Reggio Calabria.

Niente a Scilla deve sfuggire al loro controllo. Nemmeno i furgoncini dei panini. Rocco Callore voleva spostare il suo in una zona del porto dove i Nasone volevano mettere il loro. L’imprenditore aveva chiesto e ottenuto il permesso del Comune, ma non il loro. E la notte tra il 18 e il 19 febbraio scorsi i Nasone gli hanno bruciato il furgone.

Davanti alle forze dell’ordine Callore si è guardato bene dall’indicare sospetti su chi potesse essere stato. Ma suo figlio doveva saperlo bene, visto che pochi giorni dopo è andato a incontrare Francesco Nasone al bar della cosca nella piazza centrale del paese per «sistemare la situazione». In fondo suo padre e lui sono compari. Ma, per Nasone, Rocco Callore è uno di quelli che i legami di «comparato li usa al momento del bisogno». Nasone bussa tre volte per fare il verso a Callore: «Caro compare ho bisogno di questo! Ma poi il compare si dimentica». E minaccia: «Che non si senta che io brucio camion, o brucio macchine, o brucio porte o brucio cose: io affronto le cose faccia a faccia, fino a quando campo io! Fino a che campiamo noi, noi ragioniamo così!».

A fare le spese più pesanti del racket dei Nasone, però, è stata laFondazioni Speciali S.p.A., che ha ottenuto un subappalto per eseguire dei lavori di consolidamento per 850 mila euro sulla A3 all’altezza di Scilla. Hanno aperto i cantieri a luglio del 2011 e in meno di due mesi hanno subito tre danneggiamenti. Il 28 agosto a un impiegato della ditta viene danneggiata l’auto privata. Il capocantiere, che ha capito bene cosa sta succedendo, gli consiglia di «non parlare troppo», di non dire in giro che lavora per la Fondazioni Speciali. «Tu devi fare una cosa Salvo, quell’adesivo che gli hai messo cosi bello carino che si vede lì glielo devi togliere». Spiega, il capocantiere, che prima, quando non serviva, di fronte al recinto c’era una postazione dell’esercito, e che ora che servirebbe come protezione l’hanno rimossa.Poi, per diversi mesi, le acque sembrano essersi calmate. Non per merito, però, delle denunce contro ignoti ai carabinieri: pochi giorni dopo quelle intimidazioni, la Fondazioni Speciali ha accettato di rifornirsi dal bar dei Nasone in paese per la colazione degli operai. Fino a dicembre.Il 3 marzo scorso, allora, il giorno dopo avere messo in piedi un’intimidazione a un’altra ditta che lavorava su altri cantieri dell’autostrada, la cosca si riunisce al solito bar per progettare un nuovo attentato alla Fondazioni Speciali. Gli uomini del clan hanno già fatto dei sopralluoghi, hanno studiato i mezzi per scegliere quale danneggiare. Alla fine decidono di togliere i freni a un compressore e lasciarlo cadere giù per un dirupo. «Là ci sono le ruote, ci sono due pietre. Togli quelle pietre; di qua davanti ha una levetta (incomprensibile) freno a mano (incomprensibile) precipitano di sotto nella strada. Che cazzo ce ne fottiamo!».

Poi pianificano una via di fuga coi motorini, semmai qualcuno capitasse nei paraggi. E una scusa nel caso dovessero essere colti in flagrante. E se i carabinieri non dovessero credere loro, nessun problema: «Che mi interessa? Gli faccio scoppiare in aria!». L’obiettivo della missione è costringere l’azienda a trattare. L’intimidazione deve essere abbastanza grande da spingere gli uomini della Fondazioni Speciali a farsi vivi con i boss. «Io voglio almeno che andiamo al fine di farli venire. Non che io vado e loro dicono: sono stati ragazzini di due anni. Dev’essere un lavoro bello, in maniera da scendere», da farli venire a negoziare. «E se non vengono?». «E se non vengono glieli bruciamo».

Quella notte, il compressore liberato dai freni si schianta contro uno spartitraffico in cemento. La mattina dopo, gli operai della ditta lo trovano semidistrutto. Sopra c’è una bottiglia di plastica piena di una sostanza liquida, tutta avvolta da un nastro da imballaggio marrone. Sembra un ordigno pronto a esplodere, ma la miccia è finta. Serve solo a spaventare.Gli uomini della ‘ndrina però non sono soddisfatti. Quel macchinario non doveva finire sul guard rail: secondo i piani sarebbe dovuto cadere di sotto, nella scarpata. «Non valiamo nulla. Anzi, soprattutto tu non vali niente, perché io – ride, spaccone – io sarei andato. Che cazzo me ne sarebbe fottuto? Io non ho problemi con l’altezza. Io se mi devo buttare da una montagna, mi butto, non ho paura di buttarmi. Posso rompermi le gambe qualche volta. Lì sai cos’è stato? Non è caduto di sotto! Se fosse caduto lì sotto mi sarei divertito di più io!».
Quell’intimidazione non basta a ridurre la ditta a farsi viva. Bisogna tornare sul cantiere. La notte tra l’8 e il 9 marzo alla Fondazioni Speciali viene danneggiato un altro macchinario. Un semaforo finisce sotto la scarpata.Da un po’ di giorni, però, una microspia, che la Procura di Reggio Calabria aveva fatto installare nel bar, stava registrando tutti i colloqui dei boss. Gli inquirenti avevano potuto assistere in diretta al lavoro quotidiano di soprusi ed estorsioni della ‘ndrangheta. Potrebbero continuare a registrare per raccogliere altre prove. Ma c’è un imprevisto. Una talpa tra le forze dell’ordine ha avvertito i Nasone delle indagini in corso. A dire il vero, che ci fossero indagini in corso su di loro e che i magistrati fossero intenzionati a farli arrestare, i Nasone lo sapevano già da novembre. Lo era venuto a sapere Domenico Nasone e lo aveva raccontato a sua cugina Annunziatina che aveva avvertito suo fratello, Giuseppe Fulco, in carcere, dov’era andata a fargli visita accompagnata dalla madre.

Nel verbale di questo colloquio, finora inedito, avvenuto nel carcere di Benevento l’11 novembre scorso e filmato a loro insaputa, la madre dice al figlio detenuto che «è tutto registrato». «Pure in cella», aggiunge la sorella. «Non devi aprire né bocca né niente», lo avvertono.

ANNUNZIATINA FULCO: Quel fatto che ti avevo raccontato io!
GIOIA VIRGILIA NASONE: Tutto
GIUSEPPE FULCO: Uhm
ANNUNZIATINA: Quello che ti ho raccontato io! Che fanno … che volevano fare a Scilla?
GIOIA: (coprendosi la bocca con le mani profferisce) È tutto registrato! 
GIUSEPPE: Come cazzo devo fare i colloqui?
ANNUNZIATINA: Che mi arrestano pure a me! (ride)
GIUSEPPE: E chi te l’ha detto a te?
ANNUNZIATINA: Lo sanno tutti! (incomprensibile) a meno che … gliel’ho detto io non c’era niente di quello che abbiamo che… (omissis) Pure in cella! 
GIUSEPPE: Pure?
GIOIA: Sì, di non aprire né bocca e né niente!
GIUSEPPE: Chi te l’ha detto?
GIOIA: (gesticola facendo capire qualcosa al figlio)
ANNUNZIATINA: Tutti … eh … eh … noi non sappiamo!
GIUSEPPE: Chi l’ha detto?
ANNUNZIATINA: (parla vicino all’orecchio di Giuseppe) MIMMO! (omissis)
GIUSEPPE: E quindi c’è (gesticola con le mani come per dire che sono controllati/intercettati in qualsiasi modo e posto)
ANNUNZIATINA: Sì in tutto!

GIOIA: Sì!
ANNUNZIATINA: Completamente!
GIOIA: Dalla A alla Z!
Non è la prima volta che a Reggio Calabria si scoprono infiltrati dei clan nelle istituzioni. Quando nel 2008 fu trovata una microspia nell’ufficio del pm Nicola Gratteri, gli investigatori sospettarono subito che a nasconderla potesse essere stato un altro magistrato. «Di talpe probabilmente ce n’è stata più di una», aveva detto Ilda Boccassini alla conferenza stampa di presentazione dell’inchiesta Crimine. In quell’operazione sull’asse Milano-Reggio Calabria furono arrestati, per questo motivo, Giovanni Zumbo, un commercialista sedicente appartenente ai Servizi, ritenuto attendibile dai pm, e il gip di Palmi Giancarlo Giusti. Proprio il 26 marzo scorso i poliziotti della Squadra Mobile di Reggio Calabria hanno arrestato un loro collega accusato di avere informato un uomo ritenuto vicino alla cosca Caridi della presenza di microspie nascoste nella sua auto.
La conferma dell’esistenza di una talpa che teneva aggiornato il clan Nasone sull’evoluzione delle indagini, gli inquirenti la hanno il 23 febbraio, quando due affiliati, Pietro Puntorieri e Francesco Libro, si incontrano nel bar della cosca. Il primo racconta all’altro che il “capo”, Francesco Nasone, li ha avvertiti che gli inquirenti stanno li stanno indagando e controllando per poi arrestarli alla prima occasione utile. La microspia della Procura registra tutto. Ecco il verbale della loro conversazione, che AgoraVox pubblica integralmente per la prima volta.
PIETRO PUNTORIERI: (… Franco Nasone) mi fa: “Qualche giorno di questi … non uno … erano questo qua … questo di là … questo di qua … e ci menano … associazione. Fanno quell’articolo (incomprensibile) con il 416-bis ci possiamo andare a ricoverare!” (omissis) E ci ha spiegato tutto. Un bordello di cose ci ha spiegato! (…) Un bordello. E noi zitti Non abbiamo detto nemmeno una parola! Ha preso le cartelle … sue!
FRANCESCO LIBRO: Ah?
PUNTORIERI: Ha preso le cartelle sue: “Vedi? Vedi qua? Solo con (incomprensibile) e lettere(incomprensibile) qua … ed hanno scritto! (…) E che facevano? Niente, una parlata! Associazione! (incomprensibile) persone.” Uno (incomprensibile) sedici, uno (incomprensibile)ventidue… il minore è quattro anni! (incomprensibile) “Vi sto dicendo che dobbiamo stare calmi. Non è che non la dobbiamo fare una cosa, la facciamo. Però dobbiamo stare calmi! Non vedete il bordello che c’è?” (incomprensibile) una faccia!
LIBRO: (…) Vanno cercando questo. Vanno cercando questo: la miccia.
PUNTORIERI: “Vedi, che ti sembra, ora, perché non c’è niente, che puoi. Ti sembra che non sono usciti, che non stanno facendo niente? Stanno indagando qua, quattro (incomprensibile)!Questo con questo, questo con questo… e stanno vedendo i movimenti che facciamo. Loro ci vedono, pure che non ci sono (incomprensibile) dove cazzo vai? Poi scrivono… che cazzo se ne fottono! Tanto scrivono… mandato di cattura, e ti fai due anni. E poi lo vediamo se sei assolto o meno!”
A quanto pare, però, non si aspettavano una cimice proprio nel loro quartier generale. Dopo diversi giorni, gli investigatori decidono di sospendere l’ascolto ed entrare in azione. È troppo pericoloso. Gli ‘ndranghetisti potrebbero venire a sapere della cimice nel locale e scappare prima di essere arrestati. Lo scorso 30 maggio i Carabinieri del Comando Provinciale di Reggio Calabria hanno arrestato dodici persone del clan, comprese tutte quelle che avevano partecipato alle estorsioni e alle conversazioni nel bar di Scilla. E poi hanno sequestrato i beni della cosca: 32 immobili, conti correnti, polizze assicurative e altri prodotti finanziari per un totale di milioni di euro. I giudici hanno ordinato l’amministrazione giudiziaria anche per il bar della cosca in cui sono avvenute tutte le riunioni e dove è stata nascosta la microspia che le ha registrate.
Secondo le informazioni in possesso di AgoraVox, la Procura di Reggio Calabria ha aperto un fascicolo di indagine top secret per favoreggiamento al clan Nasone da parte di esponenti delle forze dell’ordine. Non è possibile sapere se, ad oggi, ci siano già state iscrizioni nel registro degli indagati o se si stia ancora procedendo contro ignoti. Gli inquirenti stanno conducendo le indagini per identificare l’infiltrato, o gli infiltrati, della ‘ndrina nelle istituzioni con il massimo riserbo e, data la situazione, con un’attenzione particolare alla segretezza, e non lasciano filtrare indiscrezioni.Intanto venerdì scorso, 15 giugno, alla conferenza stampa di presentazione del “decreto sviluppo”, il ministro dello Sviluppo Economico, delle Infrastrutture e dei Trasporti, Corrado Passera, annunciava giulivo la sua ricetta innovativa per riavviare la crescita economica del Paese: la Salerno-Reggio Calabria. E, per non essere da meno dei suoi predecessori, si è anche avventurato in una promessa: «Entro la fine dell’anno prossimo tutti i cantieri della Salerno-Reggio Calabria saranno completati. Ci metto la faccia». Non una parola su come affrontare le infiltrazioni criminali nei cantieri. E i dati ufficiali dell’Anas promettono meno bene di Passera: in quattordici anni dall’avvio dell’ammodernamento della A3 sono stati terminati appena il 56 per cento dei lavori. Il resto manca ancora all’appello. Più di un cantiere su dieci non è nemmeno stato avviato. E, nonostante le tante inchieste giudiziarie, la ‘ndrangheta continua comandare.

Le macerie dell’antimafia

Lettera dei sindacati di polizia (tutti!) al Ministro Maroni. O meglio: lettera della declinazione istituzionale e operativa dell’Antimafia (quella che respira anche nelle scuole, nei libri, nei comitati, negli incontri, negli studi) ad un Paese che (mentre sbadiglia, si svende e si arrocca) sta mangiandosi il cuore della sua storia migliore. Ma soprattutto: lettera da tenere in tasca in ogni angolo della vostra città in cui ancora danza impunito il mito di un Governo (e un Ministro) che ‘ha fatto’ contro le mafie.

Onorevole Signor Ministro,
ci rivolgiamo a Lei con fiducia nella Sua veste di massima Autorità politica quale Ministro dell’Interno e per quello che in questi anni ha dimostrato con coerenza d’indirizzo, ponendo sempre grande attenzione ai temi riguardanti il contrasto alle mafie.

Non avremmo mai voluto scrivere questa lettera ma gli ultimi avvenimenti che si sono verificati presso la Direzione Investigativa Antimafia ci hanno spinto a farlo. Dai primi giorni di luglio, come Lei sa, si è insediato il Direttore della D.I.A. “pro tempore”, di nuova nomina. Questi, come primo atto, senza concertazione alcuna, ha messo a disposizione del Dipartimento della P.S. l’indennità aggiuntiva che i dipendenti D.I.A. percepiscono dal 1992, come previsto dalla legge istitutiva: un taglio di circa 7 milioni di euro, che comporterà una decurtazione dello stipendio al personale pari al 20%; una “punizione” nei confronti di chi, fino ad oggi, ha costantemente raggiunto brillanti risultati di servizio.

L’indennità “incriminata”, peraltro, è notevolmente inferiore a quella percepita dai dipendenti delle Agenzie di informazione DIS, AISI e AISE e, nonostante sia a questa legata, non è mai stata adeguata a livello ISTAT. I circa 1300 operatori D.I.A., grazie alla loro professionalità, hanno conseguito risultati eccellenti nell’azione di contrasto. A titolo esemplificativo, in tema di aggressione ai patrimoni mafiosi, nel periodo 2009 – 2011 (primo semestre) sono stati sequestrati e confiscati beni stimati, rispettivamente, per un valore di 5,7 miliardi di euro e di 1,2, miliardi di euro. Tutto ciò rende la D.I.A., in termini aziendalistici, “un’impresa in attivo” che contribuisce in maniera significativa ad implementare le risorse del Ministero dell’Interno e della Giustizia attraverso il FUG.

Il vertice della struttura, prima di intraprendere azioni estemporanee, avrebbe potuto proporre risparmi di spesa conseguenti ad una gestione più oculata delle risorse: anziché mettere le mani nelle tasche dei dipendenti, avrebbe potuto operare sui costi di locazione delle sedi occupate dai Centri Operativi trasferendole in immobili demaniali oppure confiscati alla criminalità organizzata. A questo proposito citiamo l’esempio del Centro Operativo di Palermo che in questi giorni si trasferirà presso una villa confiscata alla mafia.

Altra nota dolente è il costo dell’immobile che ospita a Roma, in zona Anagnina, gli uffici centrali della Direzione Investigativa Antimafia, della Direzione Centrale Servizi Antidroga e della Direzione Centrale Polizia Criminale, il cui canone di locazione, esorbitante, ammonta a circa 17 milioni di euro annui.

Con il suo “atto d’imperio” il Direttore della D.I.A. sembra volersi sostituire a Lei ed al Legislatore, quindi all’intero Parlamento.

Come Lei può immaginare, l’iniziativa ha creato malumore e mortificazione in tutto il personale D.I.A., di ogni ordine, qualifica, grado e provenienza (Polizia di Stato, Arma dei Carabinieri, Guardia di Finanza, Amministrazione Civile dell’Interno), generando in esso un senso di mancata considerazione per l’opera prestata con impegno costante ed abnegazione, a volte mettendo a repentaglio la propria incolumità, nella consapevolezza e convinzione di rendere un servizio al Paese.

Sicuramente l’azione della D.I.A. ha dato prestigio allo Stato in campo nazionale ed internazionale ed ha riscosso il massimo consenso anche nell’opinione pubblica.

I risultati ottenuti sono tangibili: è sufficiente consultare le relazioni semestrali periodicamente inviate al Parlamento.

Tutto ciò con le difficoltà che Lei può immaginare, dovute a risorse economiche destinate alla D.I.A., sempre minori nel corso degli anni: dai 28 milioni di euro stanziati per la D.I.A. nel 2001 si è passati ai 15 milioni di euro attuali; a personale sotto organico, poco più di 1300 unità contro le 1500 previste; a continue emorragie di personale D.I.A. impiegato in “uffici doppione” presso la D.C.P.C. (i gruppi di lavoro sulle “Grandi Opere”, G.I.C.E.R., G.I.C.E.X., G.I.T.A.V.); alla disparità di trattamento nella progressione in carriera riservato al personale D.I.A. nelle rispettive amministrazioni di appartenenza non essendo mai stato istituito il previsto “ruolo speciale”.

Ci creda, Signor Ministro, tutto questo appare avvilente ed inaccettabile. Abbiamo il dovere morale di denunciare questo ennesimo tentativo di depauperamento della D.I.A., così fortemente voluta da Giovanni Falcone, attentando così anche alle sue idee.

Le nostre parole non sono una difesa corporativista della Struttura ove siamo onorati di prestare servizio ed a cui abbiamo dedicato con orgoglio gran parte del nostro percorso professionale: sono invece espressione del senso di sentita appartenenza allo Stato per il quale magistrati, uomini e donne delle Forze di Polizia e cittadini hanno dato la propria vita.
Signor Ministro, ci dia una risposta: è stato questo soltanto il frutto di un’iniziativa scomposta da parte di un alto burocrate del Dipartimento o è l’espressione di una precisa volontà politica?

In quest’ultimo caso, La invitiamo ad assumersi, innanzi al Paese, la responsabilità, chiara e trasparente, di “cancellare” l’Istituzione che rappresenta l’organismo antimafia per eccellenza. Se, invece, tutto ciò è avvenuto a sua insaputa, come noi crediamo, ci attendiamo un suo immediato, diretto e risolutivo intervento, capace di restituire a tutto il personale della D.I.A. la serenità necessaria ad operare in un settore così delicato della sicurezza.

Il manicheismo antimafia à la mode

C’è un mondo oltre il manicheismo à la “300”. Un mondo difficile da raccontare, nel quale dobbiamo necessariamente abbandonare la nostra stessa presunzione d’innocenza. Esiste una realtà impossibile da affrontare con il buonismo che spesso contorna le narrazioni dicamorra. Che oltrepassa l’ipocrisia dicotomica dei “buoni” contro i “cattivi”, e addirittura ”geniali” camorristi. In questa volgare lotta tra bande – per dirla con le parole di Falcone – non ci sono geni dell’economia ma solo pessimi criminali che sfruttano la connivenza e la rassegnazione. La camorra non è la mafia. La camorra non combatte lo Stato – o si accorda con esso – per il controllo di un territorio. La camorra è un mero modello culturale ed economico che unisce consumismo e immagini televisive. È la sublimazione del capitalismo e di ”Uomini e Donne”. La camorra “vince” e si radica nei comportamenti della cittadinanza perché collima con il modello social-affaristico di questa Italia da basso impero. Un gran pezzo di Francesco per riflettere (e non solo rifletterci).

Dal 17 settembre Giulio Cavalli e la Bottega dei Mestieri Teatrali presentano: “Radio Mafiopoli”

Dal 17 settembre Giulio Cavalli e la Bottega dei Mestieri Teatrali presentano:

“Radio Mafiopoli”

Una striscia settimanale sulle cronache dalla Repubblica di Mafiopoli. Dieci minuti irridenti, dieci minuti di satira sulla mafia e i suoi protagonisti.

Ogni mercoledì alle 14.00 in onda su AgoraVox Italia e LoStrillone.

Tutti i blogger e i cittadini possono ridiffondere la trasmissione attraverso i proprio siti e blog.

Venerdì 3 Ottobre, nell’ambito della presentazione di AgoraVox Italia, presso il Nuovo Cinema Aquila – Roma, Giulio Cavalli condurrà una puntata alla quale potranno intervenire i presenti  – l’invito è scaricabile cliccando qui -.

Una striscia che riprende la tradizione dell’indimenticato Peppino Impastato e l’esperienza della sua Radio Aut. Una voce che si prende gioco della mafia e delle sue connivenze per ricordarci che la mafia non è solo un problema siciliano.

Giulio Cavalli

Giulio Cavalli, Milano 1977, fonda a Lodi nel 2001 la compagnia Bottega dei Mestieri Teatrali. Firma il testo e la regia delle prime produzioni Il Cantafavole Muto, Tetiteatro e un chicco di caffè, Carro Poetico, Pulvere de Katabatù e Filo Spinato.
Nel 2006 mette in scena (Re) Carlo (non) torna dalla battaglia di Poitiers giullarata in occasione del quinto anniversario della morte di Carlo Giuliani
Il 27 marzo 2008 è stata presentata al Teatro alle Vigne di Lodi l’anteprima di Do ut Des, spettacolo teatrale su riti e conviti mafiosi, coprodotto dal comune di Lodi e dal comune di Gela, in collaborazione con la casa della memoria “Felicia e Peppino Impastato” ed il Centro Siciliano di Documentazione “Giuseppe Impastato”.
Dalla stagione 2007-2008 Giulio Cavalli è inoltre direttore artistico del Teatro Nebiolo di Tavazzano con Villavesco, nella provincia di Lodi.

AgoraVox

Nasce in Francia nel 2005 da un’idea di Carlo Revelli che “sentiva” una discrepanza tra l’opinione pubblica e quella dei politici e dei media mainstream in merito al referendum sulla Costituzione Europea. AgoraVox nasce, anche, da un avvenimento tragico : lo Tsunami 2004. Il flow d’informazione non era gestibile attraverso i media tradizionali e il mezzo di comunicazione privilegiato divenne il Web. Decise, quindi, di fondare un giornale partecipativo. L’edizione francese, oggi, conta un milione di visitatori unici al mese e 35000 “reporter” che sottopongono degli articoli. Tra loro circa 1000 moderatori, votano gli articoli off line e quelli più interessanti sono pubblicati.. In Francia AgoraVox il secondo medium più citato su Internet dopo Le Figaro. Da Giugno AgoraVox é una Fondazione indipendente per evitare possibili derive aziendalistiche e/o politiche consentendoci di preservare la nostra indipendenza. AgoraVox ha per vocazione la libera diffusione delle informazioni provenienti dai cittadini. La versione italiana, oggi, conta già più di 300 reporter

Lo Strillone

“Lo Strillone” vuole dare forma a una rete di soggetti informativi e culturali. Non un soggetto egemone, ma un soggetto di servizio. A servizio di chi vi aderisce, ognuno con pari dignità, e a servizio di chi ne fruisce. La nostra intenzione è quella di creare un luogo di produzione e di scambio di oggetti informativi e culturali prodotti da soggetti già attivi sul web (e non solo) e fra loro empatici. Dare informazione, creare dibattiti, distribuire prodotti (evitando il saccheggio che spesso avviene sul web delle produzioni intellettuali e dei materiali che ciascuno di noi mette in rete quotidianamente). Un nuovo media costruito da tanti media. Che non si annullano in un nuovo oggetto, ma lo utilizzano per moltiplicare la massa critica dell’informazione e della cultura prodotte fuori dal circuito tradizionale.

SCARICA IL COMUNICATO QUI