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agricoltura

Luigi de Magistris: «La Calabria non sarà più la periferia d’Europa»

Luigi de Magistris, a pochi mesi dalla fine del suo doppio mandato come sindaco di Napoli, è pronto a ributtarsi in un’altra sfida politica che appare impossibile: diventare presidente della Calabria così sempre uguale a se stessa e farlo da ex magistrato che proprio lì, in Calabria, ha vissuto i suoi momenti più difficili. Gli abbiamo chiesto sensazioni e prospettive.
De Magistris, perché questa decisione di candidarsi come presidente proprio in Calabria?
È stata una scelta imprevedibile e imprevista. Non era nei programmi. Poi, a dicembre dell’anno scorso, sono arrivate una serie di sollecitazioni da persone che conosco e che mi hanno conosciuto nel corso degli anni, da amici, e hanno cominciato a chiedermi se fossi disponibile. Devo ammettere che all’inizio non ci pensavo molto, poi ho cominciato a rifletterci. La condizione vera è il mio amore per la Calabria: una terra a cui sono legato fin da bambino, in cui ho vissuto dieci anni e in cui per nove anni ho lavorato come pubblico ministero. È una scelta di passione e di amore legata a un progetto politico, all’idea di un laboratorio che possa realizzare la rottura di un sistema e la costruzione di un buon governo credibile attraverso storie e persone con le quali ci stiamo connettendo giorno dopo giorno. La definirei una scelta di profondo amore legato alla Calabria.
Però vista anche la sua vicenda personale, ciò che la Calabria le ha portato in passato, vedendo anche i risultati delle tornate regionali, non le viene il dubbio, come dicono alcuni, che sia una terra irredimibile?
No. È una terra fertile che una certa politica ha voluto desertificare rendendola arida e incoltivabile. Io credo che la Calabria – l’ho visto con i miei occhi e quindi ne sono testimone – sia ricca di storie personali e collettive straordinarie; penso al mondo della cultura, dell’impresa, dell’agricoltura, dell’artigianato. Penso all’impegno forte nel campo dell’ambientalismo e della lotta alle mafie. È una ricchezza che non ha mai trovato, soprattutto a livello regionale, un’adeguata rappresentanza politica.
A proposito di lotta alle mafie, c’è in corso in Calabria un processo storico come Rinascita-Scott e la sensazione è che ci sia intorno un evidente calo di attenzione non solo da parte dei media ma anche da parte dei cittadini. L’antimafia è passata di moda?
Che ci sia un calo di attenzione lo registro soprattutto a livello politico nazionale, il tema non fa parte più di un’agenda prioritaria. Rinascita-Scott è un processo molto importante. Che per tanti anni si sia abbassata l’attenzione, lo dimostra il fatto che uno dei principali imputati di quel processo, l’avvocato Pittelli, fu da me coinvolto in maniera forte nelle due indagini che mi furono sottratte illegittimamente, Poseidone e Why not, e anche all’epoca avevamo ricostruito il suo ruolo di anello di collegamento tra settori della criminalità e settori delle professioni, delle istituzioni, della politica e della magistratura. Ora siamo a 13 anni dopo. Pensate quanto questo personaggio avrà fatto in questi 13 anni. Se 13 anni fa ci fu un potere che ci fermò significa che c’è stato un clima…

L’articolo prosegue su Left del 26 marzo – 1 aprile 2021

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Italia Viva pretende 4 ministeri: ma non aveva detto che le interessava solo il programma?

“Non è una questione di poltrone, non ci interessano le poltrone, quello che conta è il programma”: è stata la frase più ripetuta dall’inizio di questa crisi di governo e tutti si aspettavano (meglio, speravano) che davvero questi giorni di consultazioni fossero un’esplosione di idee sul futuro del Paese, sulle priorità da discutere e su innovativi piani per uscirne tutti presto, tutti meglio.

Del resto sarebbe stato il minimo sindacale non assistere alla sfrenata corsa a questo o a quel ministero, almeno per non farsi attanagliare dalla sensazione di perdere tempo prezioso per i piccoli egoismi dei piccoli capi di piccoli partiti. E invece la cronaca di queste ultime ore del mandato esplorativo di Roberto Fico è tutto un assembramento di posizioni, di ministeri, di rivendicazioni, posti da occupare e presunzioni di credersi determinanti.

Gli ultimi aggiornamenti del desolante quadro dicono che il PD vorrebbe mantenere tutti i suoi ministri, magari aggiungendone uno che dovrebbe essere Andrea Orlando; il M5S non vuole cedere posti anche se ormai da quelle parti sanno tutti che la missione sarà impossibile; Conte (nel caso in cui si vada verso il Conte ter) vorrebbe tenere i suoi uomini; poi ci sono i cosiddetti “responsabili” che ovviamente pur volendo passare da costruttori frugano tra le macerie per trovarsi un posticino, si bisbiglia che sia Tabacci e che potrebbe finire alla Famiglia.

E poi ci sono loro, quelli di Italia viva, quelli che non erano interessati alle poltrone e invece si accapigliano chiedendone addirittura 4. Gli sventolamenti di Maria Elena Boschi sono una significativa cartina di tornasole: ieri è stata data in mattinata come nuova ministra della Difesa, poi al Mise o alle Infrastrutture, poi si racconta che abbia furiosamente litigato con Renzi che intanto spingeva per Elena Bonetti al Lavoro o all’Interno o all’Università o all’Agricoltura.

Solo per intervento del Quirinale Italia viva non ha preteso il ministero all’Economia che dovrebbe rimanere saldo a Gualtieri. Il M5S intanto per i suoi equilibri interni spinge Buffagni, magari spostando Patuanelli e assiste all’autocandidatura di Vito Crimi (capo politico che avrebbe dovuto essere pro tempore e invece rimane saldissimo da mesi).

E il programma? Quello si abbozzerà di corsa, nel caso, pronto per essere declamato e per nascondere il mercimonio sui nomi. E poi ricominceranno la solfa del cambio di passo, della ripartenza, delle priorità e di tutto il resto. Sotto sotto, intanto, s’accapigliano sui nomi e sulle poltrone. Quelle poltrone che non interessavano a nessuno.

Leggi anche: 1. Basta assurdi egoismi, rendiamo pubblici i brevetti per produrre i vaccini anti-Covid / 2. Rendiamoci conto: con questa crisi si torna a parlare di Berlusconi presidente della Repubblica / 3. Conflitto d’interenzi (di Giulio Gambino)

L’articolo proviene da TPI.it qui

«Se pensiamo che l’uomo possa tornare a essere non il centro o il padrone ma «la misura di tutte le cose»

(un testo preziosissimo di Piero Bevilacqua)

Viviamo certamente e da spettatori spesso impotenti, nell’epoca dei paradossi. Se ne potrebbe stilare un elenco esemplare. Uno di questi, davvero clamoroso, è la foga di accumulazione di nuovi beni da parte dei contemporanei. Una bulimia consumistica che crede di acquisire, di impossessarsi, di conquistare, e invece non si accorge di quante perdite va accumulando nel suo vorace avanzare.

L’agricoltura del nostro tempo è un ambito eccellente per scorgere il vasto continente di beni perduti mentre ci si schiude al presente un’abbondanza da sovrapproduzione. Ricade nell’esperienza di tutti. Mai, in nessuna epoca del passato, i banchi dei mercati, al chiuso e all’aperto, erano stati così traboccanti di verdure, di legumi, di frutta. Un’abbondanza abbagliante. Eppure essa maschera un grave processo di impoverimento generale. L’abbondanza in bella mostra è solo di quantità, non di qualità e soprattutto non di varietà. Pensiamo alla frutta, che è il bene agricolo più familiare ai consumatori.

Certo, oggi la velocità dei vettori di trasporto e la rete del commercio internazionale ci mettono a disposizione anche i frutti tropicali che non crescono nei climi delle nostre campagne. Ma le mele e le pere che mangiamo correntemente, quelle che dominano il mercato, si esauriscono in quattro, cinque varietà, come le Golden, le Gala, l’Annurca, le Renette e, per le pere, l’Abate Fetel, le Decane, le William, le Kaiser e poche altre. Da tempo vivaisti e amatori hanno rimesso in circolazione un po’ di varietà antiche.

Quel che qui si vuol ricordare è che fino a poco più di mezzo secolo fa, le varietà sia di mele che di pere, susine, ciliegie, ecc, erano centinaia e centinaia, non solo sui banchi del mercato, ma nel paesaggio delle nostre campagne. Costituivano il frutto secolare della straordinaria produttività biologica della natura modellata dalla creatività e dal genio di infinite generazioni di contadini.

La perdita, però, non è solo di ordine materiale. Non è solo un vasto patrimonio genetico, accumulato in millenni di storia, che è stato rovinosamente intaccato per far posto a un’abbondanza seriale e senza qualità. Non meno grave è la mutilazione estetica e culturale che abbiamo subito. La varietà della piante coltivate costituiva anche la condizione della varietà e ricchezza del nostro territorio.

Sotto il profilo del paesaggio agrario il Bel paese – quello oggi in gran parte cancellato dalle uniformi e monotone piantagioni industriali – si identificava con l’agricoltura promiscua della società contadina. Un paesaggio vario e multiforme, in cui si alternavano i seminativi al frutteto, il pascolo all’uliveto, l’orto alla macchia. La varietà era componente intrinseca della bellezza.
In Italia la fuoriuscita dalla penuria e dalle fatiche della società contadina – mai abbastanza lodata per le sue componenti di umana liberazione – ha reso tuttavia insensibili i contemporanei di fronte alle gravi perdite di beni immateriali che si andavano nel frattempo accumulando.

Chi non ricorda la solitaria lamentazione di Pier Paolo Pasolini per la «scomparsa delle lucciole»? Oggi la rammentiamo soprattutto perché quella scomparsa era un segnale dell’inquinamento provocato dall’avanzare della chimica nelle nostre campagne. Ma Pasolini recriminava però una perdita più grande e struggente: la scomparsa di una visione del mondo notturno, il buio formicolante di migliaia di lumi che parlava alla fantasia di chi osservava, che aveva popolato per millenni l’immaginario delle popolazioni contadine.

Non costituiva una perdita rilevante la privazione di quella umana esperienza fatta di fascino, fantasticheria, incanto, poesia, che si dileguava per sempre?
Ma l’avanzare dell’agricoltura industriale ha prodotto una perdita culturale gigantesca e assai meno visibile di quella del paesaggio. Nel 1983 un autorevole storico inglese, Keith Thomas nel suo Man and the natural world (Einaudi, 1994) rivelò , e forse fu il primo storico a farlo, la mirabolante conoscenza che i contadini inglesi ed europei avevano della infinita varietà delle piante presenti nelle campagne in età moderna.

Prima della classificazione tassonomica operata da Linneo nel XVIII secolo, che esemplificava l’intricata foresta di nomi di piante e animali, designati con nomi locali, gli agricoltori possedevano una sapienza vernacolare delle piante che noi oggi stentiamo a percepire. Col tempo la riduzione della biodiversità naturale e di quella agricola si è accompagnata alla perdita del patrimonio di cognizioni e di parole che l’accompagnava e l’aveva trasmesso nel corso di millenni.

Insieme alle varietà della flora e della fauna si sono a poco a poco estinte anche le parole, il ricchissimo dizionario che aveva tessuto la lingua geniale che le aveva catalogate e che le faceva quotidianamente vivere nelle comunità. Un processo di perdita giunto fino ai nostri giorni, che non è stato solo di parole, ma come al solito anche di immaginario, di senso, di emozioni, di rapporto della mente con le cose, di relazione tra il corpo umano e le altre creature viventi.

Una vicenda di desertificazione del sopramondo fantastico che accompagnava la vita quotidiana che oggi possiamo certificare in tutta la sua ampiezza. Gian Luigi Beccaria, in un libro prezioso, un archivio della nostra memoria linguistica (I nomi del mondo. Santi, demoni folletti e le parole perdute, Einaudi 1995) ha ricordato che «Il mondo totalmente profano, il Cosmo completamente desacralizzato è una invenzione recente dello spirito umano. Sono cadute da pochissimo dalla memoria collettiva, insieme alle parole, le leggende di un ieri non lontano, radicate in una Europa cristiana fittamente gremita di racconti, con ogni momento della giornata, ogni data dell’anno che traeva con sé una folla di credenze e di parole che vi alludevano».

Di fronte alla sbornia consumistica, che fa da battistrada al nichilismo contemporaneo, non è oggi tempo di guardare, non con nostalgia a un passato non tutto da rimpiangere, ma alla ricchezza dello spettro dell’umana spiritualità, di cui dobbiamo sempre più tener conto in un’epoca unidimensionale di abbondanza e di sperpero? Se pensiamo che l’uomo possa tornare a essere non il centro o il padrone ma «la misura di tutte le cose».

(fonte: il manifesto, 25 maggio 2017)

Con i piedi sulla terra

Abbiamo discusso e discutiamo spesso sulla mancanza di peso politico del tema dell’agricoltura in Italia. Ora, che Formigoni ne sia il più alto rappresentante in Commissione non accende sicuramente gli entusiasmi ma basta avere a che fare con la pubblica amministrazione a livello regionale, nazionale ed europea per capire che anche su questo “campo” servirebbe un certo coraggio. Oggi riprende il tema Salvatore Barbera su HP:

Sono in tantissimi, soprattutto giovani, che guardano con rinnovato interesse all’antico mestiere del contadino. In una recente inchiesta pubblicata sul sito di Repubblica, vengono pubblicati i dati della Coldiretti che non lasciano dubbi: in controtendenza con l’aumento della disoccupazione che si registra in quasi tutti i settori, le assunzioni nelle aziende agricole hanno visto lo scorso anno un incremento del 3.6 per cento. E sono previsti 100mila nuovi posti di lavoro nei prossimi tre anni.

Se, come dicono i dati di Coldiretti, il 28% degli italiani sarebbero disposti a cambiare il proprio lavoro con l’antico mestiere del contadino, non si tratta solo di una tendenza economica, ma piuttosto culturale. La terra non è solo vista come una via d’uscita dalla crisi, ma anche come occasione per avere un lavoro indipendente, dignitoso, meno alienante di una scrivania d’ufficio e lontano dallo stress delle grandi città. Per questo sono tanti i giovani disposti a buttarsi in questa nuova avventura.

Ma i problemi non mancano, in primis il costo delle terre, che in Italia si aggira tra i 18 e 20mila euro ad ettaro, superiore alla media europea, e la generale difficoltà per i giovani ad accedere al credito delle banche.

Una soluzione ci sarebbe, concedere l’utilizzo dei terreni pubblici abbandonati. Tra Regioni, Comuni, Province, Asl, enti pubblici sono tantissime le terre inutilizzate che potrebbero trasformarsi in una risorsa per migliaia di giovani nuovi agricoltori. Se ancora non esiste un censimento nazionale, atteso da oltre un anno, sono tanti i gruppi di giovani che si stanno mobilitando per strappare un pò di queste terre all’incuria e all’abbandono.

Il rispetto ambientale (e la politica “verde”) potrebbe partire dal riuso non solo dei mille ammennicoli domestici ma delle terre, anche.