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Buon Natale, dalle casette al gelo dei terremotati

Un reportage da leggere di Gabriella Cerami per HP:

C’è la neve sui tetti e c’è il ghiaccio lungo le strade. Nelle zone terremotate è arrivato il secondo Natale dal sisma e tuttavia gli abitanti si sentono come precipitati in un villaggio estivo. Di quelli con casette leggere. Qui invece siamo a meno 8 gradi e in certe contrade si arriverà nei prossimi giorni a meno 15. “Hanno costruito le casette per il mare”, dice Federica, della frazione di Sommati, a due passi da Amatrice. In questa parte d’Italia niente è rimasto in piedi: “A farci compagnia ci sono solo i topi, che mangiano i tubi delle caldaie. Quelli che non si sono congelati a causa del freddo”.

Nei paesi del centro Italia, distrutti dai terremoti del 24 agosto e del 30 ottobre 2016, le feste giungono in uno stato di emergenza che sembra non avere fine. La metà della casette, circa 1800, deve ancora essere consegnata e così ci sono famiglie costrette a vivere in container o in albergo. “Gli altri anni desideravo tanto il Natale, quest’anno no”, e la signora Pierina Paolini, 88 anni, nella sua fragile casetta di Accumuli, dove il riscaldamento spesso si blocca, scoppia in un pianto.

Da Amatrice passa un camion, Federica inizia a sbracciare, il conducente si ferma, lei lo saluta: “Doveva chiamarti la signora Anna, ti ha chiamato? Le si è bloccato il boiler, lo scaldabagno”. Un sospiro e poi racconta: “È il manutentore, ormai siamo diventati amici. Lo chiamiamo un giorno sì e l’altro pure. Qui ce n’è sempre una”. Risata amara mentre fuma una sigaretta in pausa pranzo. Lavora in banca, che poi è un container montato a duecento metri dalla zona rossa, dal cuore antico del borgo che ormai non esiste più. “Noi siamo dipendenti e abbiamo ricominciato a lavorare, i negozi e i ristoranti sono stati riaperti nel triangolo commerciale. Se il commercio esistesse ancora il commercio. Qui non viene nessuno, di inverno poi non ne parliamo”, dice un’altra signora, che preferisce non rivelare nome e cognome: “Se parliamo si arrabbiano, ormai abbiamo il sindaco Pirozzi in campagna elettorale…”.

 

Nel borgo di Amatrice ci sono un paio di squadre di operai che lavorano nella zona rossa, il corso è stato riaperto tra cumuli di macerie da dove è spuntato fuori un alberello con palline rosse rimaste intatte nonostante le ripetute scosse: “Fa un po’ Natale”, dice un operaio. “Non è un simbolo di speranza, ma è il simbolo della nostra resistenza”, aggiunge una signora che cammina sotto la neve. Militari e vigili del Fuoco pranzano nell’area dei ristoranti, di fronte c’è la scuola e poco più in là un campo di casette. L’impressione è che tutto ciò sia una simulazione di vita in mezzo alle macerie circostanti. Si consumano caffè al bar Risorgimento e per riscaldarsi a volte basta una genziana e quattro chiacchiere per fingere normalità in un contesto da dopoguerra, dove nessuno crede nella ricostruzione di Amatrice, quello che era uno dei borghi più belli d’Italia, come recita un cartello stoicamente rimasto in piedi. Basta fare qualche passo per vedere che il disastro è immane, le macerie sono ancora quasi tutte qui, una data precisa in cui ricomincerà la resurrezione non c’è. Le frazioni attorno sono un deserto gelato, una foresta pietrificata anzitutto nelle speranze. “Qui siamo entrati dritti, e da queste casette usciremo a piedi pari. Morti”, si duole Giulio Del Re, un anziano che ha perso il quel 24 agosto il suo bestiame. I turisti non ci sono più, tante persone sono andate via. Chi resta combatte con le casette.

In pratica le temperature sotto lo zero gelano il tubo che trasporta l’acqua calda, quindi il riscaldamento si blocca e l’acqua scorre fredda. Questo perché lo scaldabagno è stato collocato sul tetto e viene alimentato dai pannelli solari, “ma qui il sole non lo vediamo, neanche a ferragosto riusciamo ad alimentare una caldaia con i pannelli solari”, è l’amara ironia di Maria Luisa Fiori, seduta al tavolo nel suo simil-salottino di Arquata del Tronto, con il riscaldamento che va e non va e le pareti che potevano essere dipinte meglio.

E così, “a forza di litigare con tutti, con la Regione, con le istituzioni”, gli operai sono al lavoro per isolare i tubi e staccare il pannello solare dalla caldaia. “Volete un caffè?”, chiede Maria Luisa al ragazzo sul tetto: “Ormai qui viviamo noi e loro”. Molte delle piccole dimore consegnate, 1871 su 3666 richieste sparse nel Lazio, Umbria, Abruzzo e Marche, sono da sistemare. Nonostante i collaudi ci sono pavimenti da riattaccare e porte da tagliare, più di ogni altra cosa ci sono tubi e cabine elettriche da isolare perché queste ultime all’interno sono piene di acqua: anche in questo caso non sono stati fatti i conti con la neve e l’umidità. La signora Alice lì in fondo al campo di Arquata ha i termosifoni spenti e la ditta arriverà soltanto il 27 dicembre. “Ormai siamo sotto le feste. Degli altri”, si sente dire nonostante alle porte e alle finestre ci sia qualche simbolo che ricorda il Natale, come un alberello, qualche lucina o un piccolo presepe: “Ce li hanno regalati i volontari, una volta a settimana vengono anche a portarci il pane. Le istituzioni all’inizio venivano, ora non si vede nessuno”. Difficoltà quotidiane sono la norma, come le piscine che si creano davanti ad alcune case quando piove poiché non è stata calcolata bene la pendenza.

Ma c’è chi sta ancora peggio. Nella frazione di Cossito c’è un campo su una collinetta, che si intravede appena, tre container per sei persone, uno spazio comune e cani che abbaiano quando sentono i cinghiali arrivare. “Se spegniamo la stufetta per cinque minuti moriamo congelati. La notte di Natale? Andiamo a dormire, qui è una notte come un’altra”, dice Giovanni Nibbi in giacca a vento e cappello di lana in testa. Si è in attesa della casetta, che arriverà a marzo: “Ma non potevano iniziarli prima questi lavori?”.

(continua su Huffington Post)

Pirozzi, Amatrice e l’indignazione “pro domo sua”

A Roma in molti sono sicuri: per il sindaco Pirozzi è già pronto lo scranno in Parlamento sotto la bandiera di Fratelli d’Italia, con la benedizione di Giorgia Meloni e lui, il sindaco simbolo di Amatrice (che faticosamente cerca di sollevarsi dal terremoto), ha capito bene che per iniziare la “campagna elettorale” (qualcuno dice anche in vista delle prossime elezioni regionali nel Lazio) serviva la “notizia” che attraversasse tutti i giornali.

Così alla festa di Atreju ha urlato tutta la sua indignazione dicendo che «nessun euro degli sms solidali» era arrivato ad Amatrice, ha parlato di «gestione sciagurata» da parte della Protezione Civile e per di più ha giudicato «poco saggi» i membri del Comitato dei Garanti che ha stabilito la destinazione dei fondi. Poi, per il solito gioco perverso del giornalismo e un po’ per il giochetto del telefono senza fili, la notizia è stata storpiata in “spariti i soldi degli sms per i terremotati”. Così. Nuda e cruda.

E poi? Poi è intervenuta la Procura (ovviamente) e Pirozzi capisce che è meglio correggere il tiro. «La Protezione civile non c’entra nulla. Non ho mai detto che i fondi degli sms sono spariti», dice Pirozzi, che aggiunge: «Ho detto, e lo ribadisco – aggiunge il sindaco di Amatrice – che in merito alla gestione di quei fondi è stata fatta una scelta scellerata che non ha tenuto conto degli italiani».

E la Procura? «Secondo quanto abbiamo appreso dai giornali si va secondo me verso l’insussistenza della notizia di reato, perché se i fondi raccolti sono confluiti nelle casse della Protezione civile il fatto si rivelerà una grossa bolla di sapone» dice il procuratore di Rieti Giuseppe Saieva che smonta così il caso dei fondi raccolti per Amatrice e Accumoli con gli sms solidali.

E per vedere dove sono finiti quei soldi basta leggere un articolo del 31 luglio scorso su Vita, a firma di Gabriella Meroni che elenca, centesimo per centesimo, tutti i progetti: «Gli sms sono infatti destinati essenzialmente a progetti che vanno a favore di intere comunità, e non di singoli o famiglie (non servono, per intenderci, a ricostruire le case distrutte), e l’utilizzo dei fondi raccolti in questo modo viene accuratamente monitorato da un Comitato di Garanti. Restauro di otto scuole, un centro commerciale, due centri di comunità, una strada, recupero di beni artistici e costruzione di sette piazzole per elisoccorso: a questo, in sintesi, serviranno i quasi 23 milioni destinati dagli italiani ai terremotati via sms, così come è stato deciso nell’ultima riunione del Comitato, svoltasi il 17 luglio».

E Pirozzi? Pirozzi non partecipò alle riunioni del Comitato istituzionale per la ricostruzione post-terremoto: dai verbali, infatti, si evince che non ci fu nessun voto contrario alle decisioni prese. Nessun voto contrario. Nemmeno Pirozzi.

Così i problemi (veri) della ricostruzione finiscono sotto la polvere di una polemica che desta più di qualche perplessità. «Oggi il fuoco nemico non mi darà pace, perché io sono un personaggio scomodo che dice sempre la verità»: dice Pirozzi. E anche questa è la frase tipica da campagna elettorale. Avanti così.

Buon martedì.

(continua su Left)

Sms solidali? Ad Amatrice mai arrivati, nemmeno un euro.

Sisma, la denuncia di Pirozzi: “Mai visto un euro dei soldi raccolti con gli sms solidali”
Nemmeno un euro dei 33 milioni che erano stati raccolti con gli sms solidali all’indomani del terremoto che il 24 agosto 2016, sono finiti nelle casse dei comuni colpiti dal sisma. E’ quanto ha denunicato il sindaco di Amatrice Sergio Pirozzi dal palco di Atreju, la festa di Fratelli d’Italia.

“Io penso che tutte le persone che in quel momento hanno versato due euro, li hanno versati per Amatrice, per Accumoli, per Arquata, per Norcia, per Sant’Angelo in Nera, per Pieve Torina, per tutti quei comuni che hanno subito danni con il terremoto del 24 agosto”. Poi però, continua Pirozzi, hanno deciso “di non dare niente né ad Amatrice, né ad Accumoli… facendo delle scelte totalmente diverse”.

“Io comunque ho avuto la fortuna”, ha aggiunto poi Pirozzi intervistato dal giornalista Franco Bechis, “di avere tanta solidarietà diretta da parte degli italiani. Però con la gestione di quelle donazioni degli sms si sta dando un messaggio profondamente sbagliato. Perché io penso che tante persone in quelle giornate e quelle settimane intendevano dare un aiuto diretto a quelle persone e a quei paesi che vedavano devastati. Il fatto di non indirizzarli là è devastante, perché poi la gente non crede più a nulla. La destinazione di quei fondi è stata decisa da una commissione di saggi che tanto saggi non sono. Io credo che dopo averli usati così bisogna chiedere scusa agli italiani…”.

(fonte)

L’altrove per gli abitanti di un paese terremotato è il sinonimo della resa e dell’abbandono

Non è una bazzecola quella di pretendere che i funerali delle vittime delle vittime di Amatrice si svolgano a Amatrice e non a Rieti come sconsideratamente deciso dalla Prefettura che poi, sotto la pressione dei sopravvissuti appoggiati da Renzi, ha dovuto fare marcia indietro. E non è nemmeno una questione di pelosa organizzazione di sicurezza, atterraggi di governo e nemmeno di condizione atmosferiche: il funerale a Amatrice è la prima pietra della ricostruzione.

L’antidoto al terremoto (e più vastamente alla disperazione) è la speranza, ma non la speranza che uccise Monicelli («la speranza è una trappola inventata da chi comanda» ebbe a dire il maestro) quanto piuttosto la speranza che mai come dopo un terremoto assume la forma tattile della ricostruzione. Dopo la paura, il dolore e la conta delle vittime un paese terremotato ha diritto di sentire, presto e bene, un vigoroso progetto di ricostruzione. La speranza post terremoto è un credibile progetto di rivivere (dopo essere sopravvissuti) nella propria comunità fedele alla memoria e progredita nella sicurezza.

L’altrove per gli abitanti di un paese terremotato è il sinonimo della resa e dell’abbandono: c’è un’enorme dignità nel rivendicare il diritto di contare e raccogliere le macerie e vigilarle per ciò che erano. Per questo la decisione di celebrare i funerali a Rieti (e soprattutto di spostare le bare) è violenta oltre che stupida: qui non stiamo parlando di un assembramento abitativo abusivo accrocchiato in cima a qualche montagna ma di comuni che la storia ha insediato qui. La differenza, attenzione, è sostanziale.

La decisione di Renzi di riportare il momento del pianto “a casa” è quindi una decisione pienamente politica poiché se la cura e l’attenzione si pesano dai gesti oltre che nei numeri gli amatriciani hanno avuto il sentore di essere confortati nelle proprie esigenze. I cittadini di Amatrice (e dei paesi vicini colpiti dal sisma) hanno la preoccupazione di dover diventare “altro” per ipotizzare un futuro; di doversi sbriciolare anche loro per radicarsi altrove. L’altrove è la soluzione peggiore che si possa prospettare a chi è accampato tra i frammento del suo passato.

(il mio editoriale continua qui su Fanpage)

Ricostruire

Io devo confessare, dopo questa giornata passata a scrivere e leggere dei morti sepolti e dei vivi sfilati alle macerie, che se c’è una forza che mi commuove è quella di chi si dice pronto a ricostruire mentre ancora non ha finito di contare i danni. Questi che decidono di rispondere ai giornalisti con una dignità che gli gocciola per tutto il corpo nonostante non abbia più nemmeno un pezzo di cassetto di un comodino, questi per cui il destino è l’obbligo di trovare la forza di continuare, che sembrano avere già considerata passata la disperazione.

Li ammiro mentre rimangono solidi mentre tutto intorno si sbriciola. Ecco io davvero volo via davanti a questi naviganti con lo sguardo lunghissimo nonostante si muova anche la terraferma. È una magia, la dignità.