“Mi passò le dita sopra gli occhi e poi con quelle dita scese ai lati del naso, passando per la bocca, fino al mento. E mi posò le labbra sulla bocca mezza aperta dalla meraviglia.
“Meraviglia,” dissi quando si staccò, facendolo pianissimo.
“Questo era tuo. Te lo chiedo ancora, ti piace l’amore?”
“Be’ sì, se è questo, sì.” Pensai che avrei capito tutti i libri da quel momento in poi.”
Testo scritto e recitato in Via D’Amelio il 19 luglio 2009 per il diciassettesimo anniversario della strage di Paolo Borsellino e la sua scorta.
Ecco Leonardo,
questa sera per non addormentarsi mi viene con un nodo di raccontarti una storia. Una storia di quelle che non dormono, una storia che a guardarla di fretta, di passaggio, o da lontano ha la gonna della favola per un giro beffardo di sensi unici nel rione del destino. Una favola con i buoni, un re, una guerra e addirittura un castello. Una favola con tutti i trucchi e gli ombretti per finire dritta nei libri rilegati di azzurro e di rosa, sullo scaffale del conforto e della buonanotte. È che succede, caro Leonardo, che una mattina, sarà che c’era un umido che ci gocciolava tra le ossa, l’onestà e il cuore, o sarà stato che era una mattina che ci si era acceso a tutti il diritto di rivendicare un dubbio, un punto di domanda. Un punto di domanda che si stiracchia appena nato e morde il guscio. Un punto d domanda che è andato a riprendersi un libro, il libro della storia con i buoni, con i re, con la guerra e addirittura il castello. Ma una favola da rendere, restituire perché ce l’hanno venduta scassata: ci hanno venduto una favola in cui ci mancano i cattivi.
Prima c’è un buco: un buco e Palermo che gocciola tutto intorno. Dentro il buco c’è una fetta di mondo. C’è un figlio che è a un mezzo centimetro dal primo ciao di oggi per sua madre, C’è Emanuela, Vincenzo, Claudio, Agostino e Eddy che anche oggi sono a misurarsi per un mestiere con la pistola in tasca al posto delle ali. C’è quell’alone sempre stonato e che sa di metallo di costringersi ad illudersi che si possa veramente, anche per oggi, almeno per mezz’ora pure mezza festiva, si possa veramente, non essere un nemico, non essere un eroe, essere un figlio attaccato al citofono.
Ecco, Leonardo, io da padre non avrei mai voluto raccontarti che qui succede che le favole a volte comincino con un’autobomba, come uno schiaffo che è uno sputo di sangue e subito dopo un plotone di potenti con lo straccio in via D’Amelio a leccare gli ultimi avanzi. Ecco io non avrei mai creduto di pensare che ci siano leoni che pascolano nella memoria come per mangiarsela in un banchetto apparecchiato in mezzo alla savana. Ecco io non vorrei non farti addormentare raccontandoti che ci sono bombe che scoppiano in un silenzio sudato come un replay.
Non si era mai visto nelle favole rosa o azzurre un ladro come un bassotto con un’agenda in mano, mentre tutto intorno bolle come un rallentatore un brodo di pezzi e sangue. Ecco, io da padre, non so proprio come spiegartela a te che dovresti dignitosamente essere bambino che dentro all’intestino di quel buco con Palermo che gocciola tutto intorno c’è un guanto di gomma che si tura il naso e si porta via la memoria del buono, come un dente sul sangue che sanguina e si mette in tasca la memoria. Una memoria a forma di agenda. Un’agenda nella tasca insieme al fazzoletto usato del ladro, le chiavi di una casa a forma di castello e qualche pezzo di qualcuno, portato tra le scarpe come fosse una macchia di sugo. Un’agenda a forma di buco.
È una favola che non addormenta nessuno una favola che comincia con un’autobomba e finisce con un’agenda che non c’è. È Peter Pan in canotta e ubriaco che non vola più. Una storia che non meriteresti, da mio figlio poco prima di addormentarti, in questa sera che è l’anniversario di una storia che con le unghie mi si arrampica sul cuore.
Nelle favole che hanno fatto carriera c’è sempre un bel matrimonio, tutto fiori e parenti con strette di mano al buffet. Uno sposo e la sposa che ridono per ridere tra la panna e le bollicine. Vedi, Leonardo, perché ce l’hanno mandata scassata questa mezza storia stropicciata come una lista della spesa. Il matrimonio ci tocca andarlo ad annusare grattando via tutta questa vernice, questo smalto in giacca e cravatta che profila venti anni di storia tutta muta, farsa e condonata. Venti anni di storia a forma di bugia metallizzata. Ecco, qui il matrimonio l’hanno sepolto sotto un avverbio come si conviene per le figure oscene dentro ai libri per bambini. Un matrimonio con troppi padri per una sposa, le nozze invisibili celebrate dentro un confessionale. E allora vedi, caro Leonardo, che favole da ridere dove dentro si sposano i buoni con i cattivi e nemmeno un mezzo ciuccio che crede di essere un cavallo bianco. Non ci sono figli che si meritano favole taroccate, con Pinocchio che sposa Mangiafuoco o Cappuccetto Rosso che ha le provvigioni sulla cesta della nonna. È impossibile quasi trovarci le parole che è incredibile come l’abbiano scritta.
Una favole che inizia mentre scoppia, passa per un’agenda, e in mezzo un matrimonio a forma di buco.
Ecco, Leonardo, non avrei mai creduto di mettermi con la testa così alta a raccontarti un favola che non piace a nessuno anche se, come dice il buono di questa nostra storia in questa sera, sarà che proprio perché non mi piace ho cominciato ad amarla e il vero amore consiste nell’amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare. Sarà per questo che la ripeto tutte le sere per guadagnare i mio stipendio con la parola da raccontare.
Una favola taroccata con un castello e un campanello. E dietro al campanello non rispondono né principesse né draghi. Una favola con un castello che non risponde nessuno. Un castello con un cordone ombelicale che umido si sotterra nelle fogne di via D’Amelio.
Una favola schifiata con i protagonisti che hanno dimenticato la parte, e balbettano qualcosa, come alla recita d’asilo provata male, e s’imbarazzano nascondendosi in quinta.
Una favola con i buoni che finiscono per la colpa di volere iniziare, i cattivi sott’aceto e un funerale lavato con il borotalco.
Una favola stuprata, che per quattro monete il gatto e la volpe si sono rivenduti il finale.
Una favola coperta con il lenzuolo bianco, un lenzuolo che figlia muffa mentre soffoca il sole.
Una favola che si arrotola nei processi, che si mescola e impunita ride. Come un disegno che non si capisce da che lato guardarlo.
Una favola che non si sono nemmeno presi la briga di raccontarci e già speravano che si fosse addormentata.
Una favola tutta rutti e sorrisi, rigurgiti e strette di mano.
Una favola che sta scritta nelle cose non dette, con il principe chiuso a chiave dentro il cesso, la principessa a forma di macchia sul muro e il cavallo bianco cucinato alla griglia.
Una favola dove non si capisce chi ha posato i fiori e chi ha posato le bombe.
Ecco Leonardo, non è per niente civile farti addormentare questa sera raccontandoti la paura, la paura che nel paese fatato spegne le luci come una magia. Ecco, quando da papà ogni tanto mi scopro in tasca la paura penso sempre che sarebbe come offendere questa favola. Con la paura accartocciata che è sempre ora di buttare via.
E allora sarebbe il caso che venga qualcuno, a raccontarla questa favola ai nostri figli, a riprendersi quella sbeccata che vi ridiamo volentieri di resto. Sarebbe i caso almeno perché non è mica una questione di onore, non è mica una questione di gusto: almeno per un senso di quella pudica verità.
Sarebbe il caso di curarlo quell’occhio allucinato e stanco di un bambino davanti ad una favola che non riesce ad addormentare nessuno.
Una favole che inizia mentre scoppia, passa per un’agenda, e in mezzo un matrimonio a forma di buco.
Una favola con i buoni a pezzetti e senza cattivi in cui cercano comunque di sfilarci tutti. Con i tromboni della politica manieristica che recitano a mani giunte, con le finestre chiuse dei soliti fondali delle storie da non raccontare, con, per non farsi mancare niente in questo diciassettesimo silenzio che non vuole stare zitto seduto sull’orlo del buco, per questo diciassettesimo anniversario di una storia sotto spirito, anche l’onore basso di Riina U’ Curtu che si intrufola per gridare che non è stato lui e alzare la manina come nei castighi di classe.
Una favola zeppa di gente che non è stata, che non sa, che non ricorda, che non c’era eppure commemora. Una favola senza storia che ci finge di avere memoria. Un’isola che non c’è. A forma di buco.
Ecco, caro Leonardo, da papà ti dico e ti racconto che per questa sera la morale devi andarla a prendere, tirarla per una manica e salvarla da quel buco con una nazione tutto intorno. Ecco, ci sono favole che le senti da piccolo e c’è da digrignare i denti per capirle ormai vecchio. C’è il dovere di verità e giustizia dentro l’alito anche del più bucoso dei buchi.
Ci sono favole che alla sera, quando si smette di raccontarle, ti fanno venire voglia di tenere accesa la luce.
Mafiopoli, provincia d’Italia, è il paese dove siamo maestri a cominciare le storie sempre dalla fine. Senza una fine certificata non siamo capaci di leggere una storia, senza il brivido finale. Ci siamo disabituati a raccontarle le storie, siamo diventati maestri del confezionamento, facciamo i pacchetti con nastri e ceralacca più belli del mondo, abbiamo professionisti sempre in tourné che ci raccontano i morticome fossero un arcobaleno perché il bianco e nero invece ci dicono che è vecchio, il bianco o nero è addirittura troppo radicale, e si sa che a Mafiopoli c’è da essere chic.
Questa storia è una storia che inizia con la fine il 26 giugno, di domenica a Torino. Se fosse in bianco e nero il 26 giugno 1983 sarebbe grigio come la menta che è appassita, una domenica che ti suda addosso come una doccia fatta troppo di fredda. È la passeggiata aggrappata al marciapiede di un uomo, un guinzaglio e il cane. E che interesse può accendere una camminata dopo cena in bianco e nero con un cane? Per questo siamo dovuti andare a riprenderla nel cestino del corridoio.
Lui cammina mentre slappa il sapore fresco del caffè tra il palato e la lingua, il cane annusa la sua passeggiata che gli insegna che è sera e forse questo asfalto che cerca di scollarsi ci dice che è fine giugno. Le passeggiate dopo cena sono sempre un fruscio degno, un vento tra le orecchie e il cuore anche se non c’è vento, una sigaretta per assaggiare il retrogusto di anche oggi cos’è stato, una pausa con la parrucca della sigla di coda. Se fosse in bianco e nero quella passeggiata sarebbe un battere di palpebre.
Chissà cosa pensava, Bruno Caccia, quella sera, sempre così sacerdote delle giornate bianco o nero, mentre si sedeva con gli occhi sull’altalena del guinzaglio e della coda; se pensava al gusto stringente di chi ha deciso che è domenica, e la domenica sera con il cane appoggiando per un secondo sul comodino la scorta dovrebbe essere un diritto anche delle solitudini più malinconiche, o se pensava a come fosse a dormire comodo questo nord di Mafiopoli che succhia l’osso dell’immunità narcotizzato dalla sua stessa presunzione. Come un coccodrillo sdentato che si prende il sole. Chissà se aveva ancora voglia di pensarci, a quell’ora che si mette sul cuscino perché è poco prima della notte, a quei vermi liquidi che zampettavano sulle gambe e sulla schiena del Piemonte addormentato, sdentato e fiero che tra il bianco e il nero aveva scelto la cuccia e la catena.
A Mafiopoli ci insegnano sempre che è di cattivo gusto fare i nomi. Caro Bruno, hanno cercato di consigliartela spesso la buona educazione di Mafiopoli. Non fare i nomi. E allora facciamo finta che non ci siano intorno a questa storia che è passata come un brodino con un dado artificiale, facciamo finta che non ci siano a sapere e ascoltare i mastri della ‘Ndrangheta che si attaccano seccati alla suola delle scarpe di una regione a forma di coccodrillo, facciamo finta che non siano né gli Agresta, né i Belcastro, o Bonavota, Bruzzaniti, D’Agostino, Ilacqua, Macrì, Mancuso, Megna, Morabito, Marando, Napoli, Palamara, Polifrone, Romanello, Trimboli, Ursino, Varacolli, Vrenna. In ordine alfabetico, messi in fila per matricola: come lo scarico dei capi al mercato dei suini secondo la marca pinzata all’orecchio. E lasciando fuori, per adesso, i Belfiore, che in questa storia di marciapiede, bianco o nero, sono il concime.
Chissà se ci pensava Bruno Caccia a quanto marciapiede avrebbe dovuto mangiare per svegliare il coccodrillo e urlargli dentro i buchi delle orecchie che era tempo di cominciare a grattarsi, a farle scivolare queste zecche marce che succhiano e si nascondono tra i peli. Chissà se ci pensava il magistrato Caccia, mentre sul marciapiede seguiva il passo soffice del cane e del suo collare, a com’è impudicamente nuda una città con un palazzo di giustizia che è un arcobaleno acido di caffè, mani strette e corna pericolose. Lì dove uno dei capi dei vermi, quel Domenico Belfiore che nella storia è un tumore che appassisce, chiacchericcia con il procuratore Luigi Moschella. Un bacio umido con la lingua al sugo tra ‘Ndrangheta e magistratura. Chissà se non gli si chiudeva lo stomaco a Bruno Caccia, sempre così fiero del bianco o del nero.
Siamo al primo lampione, cane e padrone, sotto quella luce di vetro che solo Torino sa riflettere così grigia.
Se ci fosse la colonna sonora da destra a sinistra sarebbe: il cuscinettìo delle zampe del cane, lo spelazzo della coda, il cotone della solitudine intesta alla sera di lui e più dietro, quasi fuori quinta, una 128 che cigola marinaia come tutte le fiat il 26 giugno del 1983.
Chissà che pensieri evaporavano dentro i sedili di plastica di quel marrone secco della 128. Chissà se erano fieri a sganciare la leva del cambio anoressica e zincata, per questa missione da bracconieri della dignità. Chissà come brillava la faccia a Domenico Belfiore mentre ordinava quella 128 e la polvere da sparo come si ordina una frittura per secondo, chissà come si erano sniffati la potenza di avere ammaestrato i catanesi alla ‘ndrina, di avere preso anche Cosa Nostra come cameriera, chissà come avevano riso pensando che proprio loro, con Gianfranco Gonnella, alzavano la saracinesca del caffè sotto il tribunale, in una colazione che serviva a mischiare rapporti per l’interesse di stare sempre nel grigio, vendendosi il crimine e la giustizia e mischiare tutto con il cucchiaino.
Mi dico che forse Bruno Caccia non riusciva a fumarseli nemmeno nella passeggiata di coscienza alla sera quei nomi che aveva deciso di tenersi bene a mente, come succede per un titolo che rimane anni incastrato nel portafoglio perché prima o poi ci può servire. Ecco, forse, mi viene da pensare, Bruno Caccia è un magistrato con la schiena dritta ma soprattutto un uomo di memoria, ma la memoria attiva quella vera che ormai qui a Mafiopoli è andata fuori produzione. Quella che serve per leggere le storie mentre succedono e se hai un po’ di fortuna immaginare di prevedere anche la mattina di domani. Mica quelle memorie in confezioni da 6 da accendere come le candeline in quelle storie che si cominciano a raccontare partendo dalla fine. Una memoria in camicia e con un cane sotto il secondo lampione.
Chissà se avranno pensato di spararci anche al cane, quei manovali disonorati nel costume mai credibile degli uomini d’onore mentre si avvicinavano a Bruno Caccia, il suo cane e per stasera niente scorta, chissà come schizzava olio quel soffritto nel cervello per sentirsi capaci di meritarsi anche stasera un pacca dal boss, quella 128 farcita di codardi che 25 anni dopo non sono ancora stati pescati. Chissà se pensano di essere impuniti dimenticando di avere prenotato in una sera il posto riservato nell’inferno dei picciotto e degli omuncoli.
14 colpi ad ascoltarli di seguito in una sera di 26 Giugno in via Sommacampagna a Torino sono una fanfara della codardia che tossisce. 14 volte di sforzi dallo stomaco di un rigurgito a pezzettoni. La risata di potenza di Mimmo Belfiore e suo cognato Palcido Barresi che apre lo sfintere. 14 spari in una serata d’estate suonano come una canzone d’amore suonata con le pietre. Chissà cosa avrà pensato il cane, nel vedere quegli uomini a forma di stracci mentre scendono per finire con tre colpi Bruno Caccia, il suo padrone, e ripartire veloci a prendersi gli applausi della grande famiglia di vomito e merda. Chissà a che punto era arrivato il magistrato a passeggio a pensare a tutti i fili dei nei di una regione che dormiva.
Tutto proprio sotto al secondo lampione. Dicono che Torino ogni tanto sia funebre: quella sera era a forma di cuore schiacciato da una ruota all’incrocio.
Mafiopoli, provincia d’Italia, è il paese dove siamo maestri a cominciare le storie sempre dalla fine. Senza una fine certificata non siamo capaci di leggere una storia, senza il brivido finale. Ci siamo disabituati a raccontarle le storie, siamo diventati maestri del confezionamento, facciamo i pacchetti con nastri e ceralacca più belli del mondo, abbiamo professionisti sempre in tourné che ci raccontano i morti come fossero un arcobaleno perché il bianco e nero invece ci dicono che è vecchio, il bianco o nero è addirittura troppo radicale, e si sa che a Mafiopoli c’è da essere chic.
Che il magistrato Bruno Caccia sia stato ucciso il 26 Giugno 1983 da ignobili ignoti è rportato in qualche foglio tarmato scritto probabilmente con una stampante ad aghi. Ma gli avvoltoi tra le macerie della memoria si sono subito messi in tasca i soprammobili di quella storia con questa fine così cinematografica da non farsi scappare. E ti hanno regalato la memoria, caro Bruno, quella memoria di polistirolo buona per le sfilate per appiccicarci un nome al cartello bianco con sfondo bianco di una via. In questa Mafiopoli dove tutto va al contrario e bisogna prendersi la responsabilità di sperare in una fine certificata perché almeno si mettano a cercare cosa era successo prima.
Mi chiedo Mimmo Belfiore, cosa starai pensando adesso. Se un po’ non ti disturba che quella memoria che pensavi di avere rapinato tutta oggi è diventata una preghiera laica e quotidiana ogni mattina. Proprio qui, proprio dentro casa tua, nella tua cascina senza porcilaie ma che è stata piena di porci. Mi chiedo se ti brucia, mentre in carcere recitavi la parte dell’invincibile avere detto a Miano che Caccia l’avevi fatto ammazzare tu. Chissà come ci sei rimasto male, tradito da un infame e da un infermiere che il coraggio lo praticano per amore e non per una puttana a forma di maestà. Chissà quando te lo raccontano che a casa tua piano piano i guardiani del faro stanno strofinando via l’odore della tua famiglia e della vergogna. Chissà che magari, come tutti i tuoi compari non preghi di essere messo nelle mani di Dio e lui non ti aspetti sotto un lampione su una 128. Chissà se un giorno a voi mafiosi per un allineamento degli astri non vi succeda che riusciate ad avere un sussulto per vedervi allo specchio così anoressici d’indignità. Chissà se ci hai creduto davvero che tuo fratello Sasà riuscisse a continuare impunito mentre faceva girare in 4 anni 11 quintali di cocaina. Dal Brasile poi in Spagna fino a Genova e Torino nell’ennesimo giro del mondo dei soldi in polvere. E chissà se non ti dispiace che tuo fratello Beppe invece non sia proprio all’altezza, lui che si è buttato sul gioco d’azzardo e alla fine si è azzardato troppo anche se aveva le spalle coperte dalla ‘ndrina Crea. Chissà come ti suona stonato sentire suonare una memoria libera proprio qui nel tuo cortile dove travestito da boss del presepe ti compravi la benevolenza con le ricotte. Chissà se un po’ non hai sorriso sapendo che alcuni tuoi compaesani di San Sebastiano Po temevano i disagiati per la “sicurezza pubblica”, impauriti dai disagiati del gruppo Abele dopo che ti avevano lasciato pascolare e sporcare per tutti questi anni. Vorrei chiederti, caro Mimmo, se non stai pensando che si avvicini la data di scadenza del tuo onore.
Bruno Caccia e il suo cane sono quei due sotto al secondo lampione.
A Mafiopoli le storie si cominciano a raccontare dalla fine. Bruno Caccia doveva finire il 26 giugno, che dico, per uno scherzo del destino il 26 giugno io ci sono pure nato. Oggi c’è un cortile, un cortile scippato ai Belfiore, un cortile che è stato rapinato al rapinatore, un cortile che vuole diventare da grande un giardino e una memoria che con le unghie sta rompendo il guscio. E il magistrato severo, sono sicuro, non riuscirebbe a trattenere un sorriso.