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Antimafia

Giulio Cavalli relatore a Piacenza nel convegno ““Come combattere il fenomeno mafioso. L’impegno della società civile come parte integrante della filiera antimafia”

Sabato 26 settembre 2009 a Piacenza in via moizo 2, Giulio Cavalli sarà tra i relatori del convegno ““Come combattere il fenomeno mafioso. L’impegno della società civile come parte integrante della filiera antimafia” a partire dalle ore 17.30 organizzato dal Lions Club Piacenza Ducale in collaborazione con il SIAP. Ecco il programma di massima:

“Come combattere il fenomeno mafioso”. L’impegno della società civile come parte integrante della filiera antimafia.

Tale evento organizzato presso il ristorante La Volta del Vescovo sito in Piacenza avrà luogo il 26 Settembre 2009 alle ore 17,30.
Per motivi organizzativi La prego di confermare la Sua presenza e quella di eventuali ospiti, unitamente ad eventuali necessità legate agli spostamenti e/o agli alloggi, al Presidente del Comitato Service del L.C. Piacenza Ducale Club Davide Bonanno al n° 335/6830498 o al Segretario Provinciale del SIAP Walter Verardi al n° 331/3724596 .
Lo scopo dell’ iniziativa è quello di sensibilizzare la cittadinanza affichè sempre più, si diffonda il messaggio di solidarietà verso coloro che si espongono in prima persona nel combattere la criminalità organizzata per affermare la legalità.   

Il ruolo di moderatore verrà rivestito dal Governatore del Distretto Lions
Prof. Dott. Renato Sambugaro

Hanno già confermato la loro partecipazione quali ospiti relatori:

Giulio Cavalli
Attore e scrittore
“il dovere per la cultura di informazione e alfabetizzazione nella battaglia antimafia al nord”

Dott. Leonardo GUARNOTTA
Presidente del Tribunale di Termini Imerese

On. Mario TASSONE
Membro della Commissione Parlamentare Antimafia

Dott.ssa Nadia FURNARI
Laurea in Informatica – Scienze dell’informazione
Associazione “Rita Atria”
l’impegno della società civile nella lotta contro le mafie.

I.M:D.
Autore del libro “Catturandi” edito da Flaccovio
“Come e perchè è fondamentale la ricerca dei Latitanti da parte della polizia
giudiziaria”

Pino MANIACI
Giornalista e Direttore di “TELEJATO”

Rosa FRAMMARTINO
Responsabile scientifica del Progetto “Percorsi di Cittadinanza e Legalità”
Consorzio “Oscar Romero”

Cavalli, attore sotto scorta che sfida la mafia

L’intervista – Il 31enne direttore del teatro Nebiolo di Tavazzano con Villavesco, è stato minacciato per i suoi spettacoli che deridono i boss. “Il teatro italiano è omertoso”
“Tengono sotto scacco una nazione grazie alla complicità della politica”
LODI- “C’è una certa fiction che ci vende i mafiosi come geni del male. In realtà sono persone senza credibilità che tengono sotto scacco una nazione solo grazie alle complicità con la politica e i colletti bianchi”.
Giulio Cavalli, 31 anni, attore milanese, molto conosciuto nel lodigiano per aver fondato una compagnia teatrale 8 anni fa e per dirigere il teatro Nebiolo di Tavazzano con Villavesco, è sotto scorta, dall’aprile scorso, caso unico nel panorama teatrale italiano. La sua colpa, agli occhi dei mafiosi, è quella di indagare i rapporti fra mafia (in particolare quella gelese che, secondo Cavalli, è ben presente nel lodigiano), politica e pubbliche amministrazioni, soprattutto per quel che riguarda il riciclaggio di denaro sporco e gli appalti pubblici al Nord.
L’attore ha messo in scena tutto questo nel suo teatro di narrazione. Come se non bastasse, Cavalli, fedele al vecchio slogan “Una risata vi seppellirà”, li ha presi pure per i fondelli i mafiosi nella sua ultima messa in scena “Do ut Des, riti e conviti mafiosi”. Nello spettacolo, scritto da lui insieme a Francesco Lanza, sbeffeggia Cosa nostra raccontando la storia di Totò Nessuno, giovane aspirante mafioso. Attraverso gli occhi di Totò, interpretato da Cavalli, lo spettatore scopre la ritualità della mafia e arriva a riderne in una pièce che è uno sberleffo tagliente e irriverente alla cultura mafiosa.
Quando ha iniziato ad occuparsi di mafia?
“Nel 2006, perchè in quell’anno il Comune di Lodi e di Gela avevano deciso di produrre un mio spettacolo che aveva come scopo quello di continuare l’attività di Peppino Impastato (il giovane ucciso dalla mafia a Cinisi 31 anni fa e diventato un simbolo della lotta alla criminaliltà organizzata, ndr). Per scrivere lo spettacolo ho collaborato con i magistrati e ho lavorato sui documenti giudiziari. I miei viaggi a Gela erano frequenti, così come i miei incontri con il sindaco di Gela. Sapevo che questo mio lavoro era tenuto sotto osservazione. Era passato dagli uffici e dal consiglio comunale. Tutti sapevano su cosa stavo lavorando”.
Ma lei, nello spettacolo, parla anche della mafia al Nord.
“Do ut Des è stato l’inizio di una mia immersione in un certo mondo. Da lì ho cominciato a capire la realtà di Gela, nel lodigiano, e ad occuparmi del fatto che a Tavazzano, dove gestisco un teeatro, una famiglia gelese, i Rinzivillo, ha ottenuto un appalto da quattro milioni di euro per i lavori della centrale termoelettrica (l’operazione, alla fine del 2005, finì nel mirino della procura antimafia, ndr). Parlare della mafia gelese, pensandola a Gela, sarebbe stato un errore. Lo spettacolo è l’occasione per risvegliare un territorio che delega il problema della criminalità organizzata alle regioni del sud”.
Quello che forse ha fatto più arrabbiare i mafiosi è la loro desacralizzazione.
“In “Do ut Des” prendo in giro Riina e Provenzano per l’ortografia che usavano nei pizzini. Lo spettacolo rivendica il diritto a disonorare un onore che, culturalmente, noi non accettiamo”.
E’ per questo motivo che lei è finito nel mirino della mafia?
“Si è partiti dalle minacce via mail, fino a cose molto più pesanti come le gomme tagliate alla mia macchina (ma anche il disegno di una bara, con accanto il nome Cavalli sulla porta del suo teatro e scritte sul furgone dell’attore, ndr). Sulla vicenda c’è un’indagine in corso. Tutto, secondo me, è legato al fatto che nell’ultimo anno e mezzo ci siamo dedicati alla ‘ndrangheta e ad indagare sugli appalti dell’Expo e su quelle famiglie, in Lombardia, che hanno troppa liquidità in un momento di congiuntura economica disastroso”.
Come vive sotto scorta?
“In un modo assolutamente tranquillo. Non amo il voyeurismo che si è sviluppato sulle scorte e poi penso a gente con cui lavoro, come Giancarlo Caselli, che è sotto scorta da decenni. Tuttavia questo è simbolicamente importante, perché significa che lo Stato crede ancora nel valore della parola”.
Cosa pensa, un attore sotto scorta come lei, di uno scrittore che condivide la stessa sorte come Saviano?
“Conosco Saviano e stimo molto il suo lavoro perché ha dimostrato che la parola è importante. Comunque non è la scorta che aumenta la nostra credibilità. Noi raccontiamo cose su cui hanno lavorato magistrati e giornalisti. Siamo i loro megafoni”.
Secondo lei c’è un rischio mafia elevato per quel che riguarda gli appalti dell’Expo?
“E’ la procura nazionale antimafia che dice che la criminalità qui da noi, ha un aspetto prettamente economico. Io racconto cose che sono state indagate, giudicate e magari dimenticate. La previsione futura è che nella zona dell’Expo faranno grandi affari i Barbaro, i Papalia e i Piromalli (famiglie della ‘ndrangheta calabrese finite più volte nel mirino dell’antimafia, ndr) che hanno il controllo della movimentazione terra in quelle zone”.
Lei è sotto scorta, ma il teatro italiano si occupa di mafia?
“Il teatro italiano vive di finanziamenti pubblici e quindi è un teatro omertoso su questi fatti. In questa situazione, una normalità dignitosa è sufficiente per essere eccezionali. Mi chiedo se il teatro civile, in Italia, debba essere per forza solo teatro di memoria senza essere calato nell’attualità. E’ bravo a raccontare quello che è già successo ma poi, dipende dalle amministrazioni di turno, si ferma su qualsiasi cosa che possa turbare i politici”.
Paolo Pergolizzi

La piece
Il picciotto capì che un decreto legge costa meno del tritolo
“Do ut Des, riti e conviti mafiosi” è il titolo dell’ultimo spettacolo di Giulio Cavalli, scritto insieme a Francesco Lanza. La messa in scena sbeffeggia Cosa nostra raccontando la storia di Totò Nessuno, giovane aspirante mafioso. Attraverso gli occhi di Totò, interpretato da Cavalli, lo spettatore scopre la ritualità della mafia e arriva a riderne grazie alla presenza in scena di un insolito Virgilio, il clownesco maestro di cerimonie mafiose Matteo Barbè. La piece diventa uno sberleffo tagliente e irriverente, una rilettura in chiave comica della storia della “parola di 5 lettere” che non esiste nei documenti ufficiali, non appare sulle lapidi, ma uccide. Le registrazioni delle voci di Peppino Impastato e Libero Grassi, ma anche di Totò Cuffaro si intrecciano alla vicenda di Totò Nessuno che da semplice aspirante mafioso di bassa lega arriva a intuire che “un decreto legge costa meno del tritolo” e si appresta a intraprendere una carriera tutta politica all’interno della società dalle 5 lettere, non prima di un pirotecnico comizio-talk show. Fra i collaboratori dello spettacolo Rosario Crocetta, sindaco anti-mafia di Gela, Giovanni Impastato, fratello di Peppino, Giuseppe Maniaci, giornalista di Telejato, tv locale con sede a Partinico che dal’99 informa con nomi e cognomi senza censure su tutto quello che succede in Sicilia.

DA LA LIBERTA’

L’ARTICOLO QUI

"Piccola città bastardo posto": il silenzio degli untori sulla Popolare di Lodi

lodi1Chiudete gli occhi e ascoltate.

“Indagini frenate dal silenzio”, “non c’è nessuno che abbia voglia di parlare con la procura, altrimenti tutte le indagini aperte sull’urbanistica nel capoluogo sarebbero già arrivate a conclusione”, “ci sono forti gruppi di pressione”, “sui fatti di quegli anni è scesa una cortina di silenzio”.

Non immaginate scenari criminali pelosi o apocalittici e nemmeno terre di omertà da letteratura: siamo a Lodi, chi parla è il procuratore capo Giovanni Pescarzoli che lancia un allarme che profuma nei modi e nei toni di una “mancanza di collaborazione” che dovrebbe accendere gli animi, smuovere la società civile e spingere la politica “buona” a prenderne le difese. E invece rimane una pagina di (buon) giornalismo sulle pagine del quotidiano “Il Cittadino”, e il giorno dopo è già finito nel cassetto.

Eppure Pescarzoli non parla di processi di criminalità a Lodi in trasferta ma del filone più lodigiano dei processi a carico del mai troppo poco ex amministratore dell’impopolare Banca Popolare di Lodi  (poi Banca Popolare Italiana): quello sui presunti rapporti tra l’ex rampante banchiere e il dirigente del settore pianificazione e gestione del territorio del Comune di Lodi Luigi Trabattoni. L’inchiesta è figlia delle dichiarazioni del Fiorani nell’interrogatorio del 5 ottobre del 2006 (nel pieno dello scandalo dei “furbetti del quartierino”) in cui Fiorani parlava della società CORES srl con la quale era stato acquistato un terreno in prossimità della filiale BPL in Lodi in via San Bassiano. Nei verbali si legge come dietro alla CORES ci fosse l’UNIONE FIDUCIARIA (collegabile secondo le dichiarazioni a Silvano Spinelli) e la ZONIVEST srl (riferibile alla famiglia Zoncada) nonché come soci occulti (questo sempre secondo le dichiarazioni di Fiorani, successivamente ritrattate perché “nate sotto la pressione del carcere”) egli stesso, Giovanni Benevento e appunto il Trabattoni che si sarebbe impegnato ad aumentare la volumetria ottenendo in cambio il ruolo di progettista e direttrice dei lavori per la moglie. Da qui l’inchiesta della Procura di Lodi e il blitz della Guardia di Finanza presso gli uffici del Comune per accertare le responsabilità (che lo stesso Trabattoni rifiuta con sdegno come si può leggere nell’articolo del Corriere della Sera del 1 giugno 2006).

Al di là degli esiti giudiziari dell’inchiesta (che, Pescarzoli tiene a precisare, non è “nè chiusa nè archiviata“) rimbalza stonato il silenzio della politica e della città nei confronti di un’omertà latente (per di più svelata da un procuratore) che da molti non è ritenuta propria di queste terre. E’ la prevedibile dinamica dei paesi dei signorotti dove il buon nome viene sfoggiato davanti ad uno spumantino in un adulterio di amicizie interessanti e interessate che attraversano indifferenti strati sociali, economici e politici: il silenzio come grumo per difendere l’orticello e il vicino. Una posizione ostinata di “disinteresse” assolutamente interessata per non dovere essere costretti a prendere una posizione. Una miopia su sé stessi degna del sospetto di premeditazione. Un delegare la narrazione dei fatti ai processi e solo nei processi come in un feudo mai sconsacrabile. Una liturgia del silenzio officiata come dovere per il buon nome.

Qualche professionista della moderazione dal lato dell’ottundimento vi dirà che è una cosa vecchia, archiviata almeno nella sensazione e nella memoria, e che comunque l’allarmismo sul passato è un’inquietudine inutile per il futuro: la risposta sta nella frase del procuratore “Lodi non è più omertosa del resto d’Italia, purtroppo, ma probabilmente su alcune vicende ci sono nel territorio forti gruppi di pressione che si stanno ricompattando.Si stanno ricompattando: futuro. Prossimo.

Forse sarebbe il caso che il pullman della prossima missione legalitaria-turistica a sfamarsi d’antimafia si fissi al pomeriggio; e al mattino si appoggino i nostri, di procuratori.

Calabria Ora intervista Giulio Cavalli

Il suo fortino è nei pressi di Lodi. La sua arma è il teatro. I suoi nemici i camorristi, i mafiosi, gli ’ndranghetisti. Il suo asso nella manica è l’umorismo. Quando parli con Giulio Cavalli sembra di parlare con un «marziano». E un marziano in qualche modo lo è.
Nato a Milano nel 1977, regista e attore, Cavalli fonda nel 2001 a Lodi la “Bottega dei mestieri teatrali”. Dopo aver raccontato la strage dell’aeroporto di Linate, dove morirono 118 persone, e la vicenda di Carlo Giuliani, si è messo in testa di raccontare la criminalità organizzata. Quella che al Nord non spara. Ma pulisce soldi. Fa affari. Mette mano nell’Expo 2015. Insomma, conquista. In silenzio. E così, quasi echeggiando le lotte di Peppino Impastato, a ottobre porterà in scena “A cento passi dal Duomo”.
Cavalli, con lo spettacolo “Do ut des”, coprodotto dai Comuni di Lodi e Gela, con la collaborazione del centro di documentazione “Giuseppe Impastato”, lei ironizzava sui riti mafiosi. Perché questa scelta?
«Per due semplici motivi. Innanzitutto l’onore di cui i mafiosi parlano tanto non è vero onore, ma solo paura. Ed è con quella che si fanno rispettare. Io voglio far passare il messaggio che noi non abbiamo timore di loro. Anzi, che ci fanno ridere. E ridendo arriviamo alla seconda conclusione. Non ci troviamo di fronte a eroi negativi come ce li dipingono le fiction televisive. Sono degli uomini, piccoli, piccolissimi. Come Provenzano. Che mangiava ricotta e cicoria. Che aveva problemi di prostata. E io mi chiedo come questi tipi tengano sotto scacco un intero Paese. O c’è qualcos’altro sotto sotto?».
Lei ha subìto delle intimidazioni. Le hanno imbrattato i muri del suo teatro a Tavazzano con Villanesco, nel lodigiano.
«Sinceramente, non amo parlarne molto. Nella lotta alla mafia non ci vogliono eroi solitari, ma l’impegno di tutti, come diceva Giovanni Falcone. Io mando dei segnali artistici e loro, diciamo, mi hanno risposto con dei segnali. Banali. Com’è loro consuetudine. Ma a me fanno paura altre cose»
Cioè?
«Che si crei una sorta di voyarismo. Io vivo sotto tutela delle forze dell’ordine. Ma non per questo le mie parole devono pesare di più».
Ma parlare, scrivere di mafia è così difficile a Milano?
«Qui ogni inchiesta su Cosa Nostra e sulla ’ndrangheta è un vero e proprio atto di svelamento. Senza contare che sempre più spesso ci dobbiamo scontrare con il negazionismo. Vedi il caso di Buccinasco. Una specialità milanese, mi verrebbe da dire».
Sta dicendo che sull’antimafia la Calabria è più avanti rispetto alla Lombardia?
«Assolutamente sì. Voi avete imparato l’antimafia. Avete giornalisti coraggiosi che ogni giorno fanno nomi e cognomi, non filosofia. Avete giovani. Avete tanta gente onesta. Noi dobbiamo imparare molto da voi. Lasciamo perdere quell’area di supponenza che il Nord ha nei confronti del Sud».
In questo c’entra qualcosa anche la Lega Nord?
«Beh, la Lega ha contribuito all’autoincoronazione come se qui abitasse la razza ariana. È anche vero, però, che il problema è generalizzato».
Un giudizio impietoso il suo.
«Come tutti sanno la ‘ndrangheta, che è l’organizzazione più pericolosa in Lombardia, vive di segnali. E le ’ndrine al Nord crescono tranquille grazie al concime dell’indifferenza. Una colpa grave per cui pagheranno i nostri figli, i nostri nipoti. Dobbiamo vergognarcene. Ci sentiamo immuni dalle infiltrazioni della criminalità organizzata non per ignoranza ma per presunzione».
In “A cento passi dal Duomo” lei parlerà anche di Expo 2015. Il grido che arriva da forze dell’ordine e magistrati è che l’occasione sia ghiotta per i clan calabresi. Dal suo osservatorio di artista come vede e vive tutto questo?
«(Ride) Guardi, siamo di fronte a una scenetta comica. La politica boccia la commissione Antimafia al Comune di Milano perché, questa la motivazione, a indagare ci devono pensare i magistrati. Peccato che c’è un procuratore antimafia, Enzo Macrì, persona seria e preparata che da anni studia la mafia, che non sa più come dire che bisogna svegliarsi, che siamo di fronte a un rischio serissimo».
Che cosa si prefigge con questo spettacolo?
«Premetto che l’ho scritto con Gianni Barbacetto. Racconto gli ultimi trent’anni di crimine organizzato a Milano. E voglio suggerire al pubblico che deve essere la politica a combattere la mafia. Da Momo Piromalli di ieri ai Barbaro, ai Piromalli, ai Bellocco di oggi le ’ndrine stanno investendo in Lombardia. Qui non si spara. Qui i conti correnti e le partite Iva sono pulitissimi, al di fuori di ogni sospetto. Qui ci si inabissa. Aspettando l’Expo.
Ma chi glielo fa fare?
«Siamo una nazione e i problemi sono nazionali. La mafia sta inquinando come un cancro non solo le città del Sud, ma il tessuto intero del Paese. Io confido nelle persone oneste. Che sono tante».

Agostino Riitano

L’ARTICOLO QUI

Salvo Vitale e la sincerità per niente smemorata

Tipologie dell’antimafia

di Salvo Vitale – 3 settembre 2009
Ci sono vari tipi di antimafia: mi soffermo su alcuni:

1) L’antimafia di facciata, è la più diffusa: manifestazioni formali, commemorazioni in occasione di ricorrenze (nascite, morti, partecipazione ad eventi, intestazioni di strade, convegni ecc.). E’ l’antimafia tutto fumo e niente arrosto, nel senso che basta impegnare pochi soldi (amplificazione, locale, spese di viaggio e di soggiorno per i relatori per promuovere l’immagine di un’amministrazione seriamente impegnata in questo campo, attraverso la diffusione della notizia sul giornale o in tv. Qualche presenza del politico di turno assicura più visibilità e più parole inutili. I risultati d queste attività sono pressocché nulli se non rafforzati da momenti di riflessione e da azioni d’intervento sul territorio. Da questa antimafia i mafiosi non si sentono disturbati, anzi condividono o promuovono la partecipazione di loro simpatizzanti alle iniziative, onde avere un alibi.

2) L’antimafia talebana: è quella di chi vede mafia e interessi mafiosi dappertutto, quella di chi su un saluto, su una parentela, su una frase avulsa dal suo contesto, scopre collusioni mafiose con i politici, loschi affari che nascondono chissà quali oscure trame. Si mettono assieme le più disparate notizie che possono avere una qualche connessione, per elaborare analisi indimostrabili, utili comunque a gettar fango sul proprio avversario politico o sul proprio nemico personale. Molti personaggi di primo piano, soprattutto a sinistra, hanno fatto parte di questa antimafia, finendo con il generalizzare in un unico calderone categorie sociali e persone che nulla avevano a che fare con la mafia. Personalmente ritengo di essere appartenuto anche io, in altri tempi, a questa categoria, quando, ai tempi di Peppino Impastato, ritenevo che “Scudo crociato- mafia di stato” o che ” D,C.+P.C.I= mafia”. C’erano allora certamente molti mafiosi nelle D.C. così come ora nell’UDC e nel PDL, alcuni anche nel PD, senza per questo dover concludere che tutti quelli che fanno politica sono mafiosi o collusi. “Se tutto è mafia niente è mafia”, diceva Sciascia. E questa sorta di smania di trovare “connessioni mafiose” dovunque, ricorda per certi aspetti l’integralismo dei talebani afghani. Quindi due tipi di “talebaneria”: quella sincera e radicale, chiusa in una completa intolleranza e nel rifiuto totale del sistema, quella che utilizza o strumentalizza presunte collusioni come mezzi utili a qualche strategia politica. E qua passiamo già alla successiva tipologia,

3) L’antimafia strumentale: l’uso dell’antimafia come strumento per far carriera. Sciascia, a suo tempo, bollò come “professionisti dell’antimafia” anche Falcone e Borsellino, accorgendosi, solo molto più tardi e dopo la loro morte, di avere sbagliato bersaglio. Per un magistrato che cura particolari inchieste, è facile costruire una cornice in cui l’impegno personale si media con la carriera professionale. Anche il politico può servirsi di quest’arma con intelligenza, favorendo le associazioni antimafia, assegnando loro beni confiscati, plaudendo alle operazioni delle forze dell’ordine quando smantellano organizzazioni malavitose presenti sul proprio territorio, o esprimendo solidarietà nel caso di attentati. Sull’esistenza di un autentica volontà antimafia si può avanzare qualche dubbio, anche se non mancano risultati eclatanti.

4) L’antimafia passiva, che comprende una “maggioranza silenziosa”, ostile alle prepotenze, desiderosa di vedere l’alba di una nuova Sicilia, ma che sopporta tutto e si adatta al sistema per mancanza di coraggio. “Pi amuri di la paci ognunu taci- e supporta la mafia in santa paci” , cantava Otello Profazio. Difficile catalogare come antimafia questa forma di accettazione passiva, specie quando è determinata dall’idea che nulla cambia o potrà cambiare l’attuale assetto di vita: non c’è miglior terreno di cultura della mafia che la conservazione dello stato di cose che ne costituisce il naturale brodo di coltura. Un passaggio più avanzato è l’accettazione determinata dalla paura: a nessuno piace subire la violenza, assoggettarsi al pagamenti del pizzo per evitare ritorsioni che possono arrivare alla rovina di un’attività. Lamentarsi non basta, ma c’è già qualche luce di ribellione, o comunque, di presa di distanza.

5)
Più consistenza ha l’antimafia militante, cioè quella di coloro che dedicano il proprio tempo e la propria vita a lavorare per l’eliminazione di questo triste fenomeno del sottosviluppo meridionale: quella di coloro che vanno nelle scuole, che scrivono inchieste coraggiose su alcuni giornali, che creano associazioni e promuovono iniziative di formazione e di lotta, anche spontanee, contro chi usa il potere per ricattare la gente impedendole di scegliere liberamente il proprio futuro. E l’antimafia di amministratori che si attivano per utilizzare i terreni confiscati ai mafiosi, quella dei docenti che elaborano progetti di educazione alla legalità ( non sempre efficaci), quella dei pochi giornalisti pronti a rendere note le collusioni con la politica e i giri d’affari illegali, mentre gran parte dei loro colleghi preferiscono scaldare le sedie con inutili servizi sulle vacanze, sui prezzi, sull’enalotto, sui meriti e i miracoli del loro padrone e dei suoi amici, ecc.

Tratto da: corleonedialogos.blogspot.com

Ferragosto. Due anni fa

strage duisburg

La strage di Duisburg è stata come un geyser. Uno zampillo ribollente e micidiale che da una fessura del suolo ha scagliato verso l’alto, finalmente visibile a tutti, il liquido miasmatico e pericolosissimo di una criminalità che partendo dalle profondità più remote della Calabria, si era da tempo diffusa ovunque nel sottosuolo oscuro della globalizzazione. (Francesco Forgione)

NDRANGHETA: STRAGE FERRAGOSTO, A 2 ANNI DA DUISBURG CERCHIO SI È CHIUSO/ADNKRONOS = IN 6 TRUCIDATI DAVANTI AL RISTORANTE ‘DA BRUNÒ, A MARZO POLIZIA CATTURA ULTIMO KILLER Reggio Calabria, 14 ago. – (Adnkronos) – È il 15 agosto 2007 quando Marco Marmo, Francesco Pergola, Tommaso Venturi, Marco Pergola, Francesco Giorni e Sebastiano Strangio, appena usciti dal ristorante italiano «Da Bruno» a Duisburg sono travolti da una raffica di proiettili che li falcia uno per uno. Un eccidio brutale che sconvolge l’Europa e costringe Berlino a fare i conti con la sempre più ingombrante presenza della ‘ndrangheta sul suo territorio. Un recente rapporto top secret della polizia federale tedesca, la Bka, pubblicato da Die Zeit stima che siano 229 le famiglie legate alla criminalità organizzata calabrese che vivono in Germania, dedicandosi al contrabbando di armi, al riciclaggio di denaro sporco, allo spaccio di droga e al racket, oltre ad attività legali di copertura, mentre sarebbero circa 900 le persone coinvolte in attività mafiosa. Tra queste proprietari di centinaia di ristoranti e protagonisti del mercato immobiliare nell’ex Germania dell’Est. La strage di Ferragosto è un eccidio maturato nell’ambito della faida di San Luca tra il gruppo dei Nirta-Strangio e il contrapposto schieramento dei Pelle-Vottari-Romeo al quale appartenevano le vittime. I sei morti di Duisburg sono infatti la risposta all’omicidio di Maria Strangio, uccisa il giorno di Natale del 2006 in un agguato indirizzato in realtà al marito della donna, Giovanni Luca Nirta, e a Francesco Colorisi, rimasto ferito in quell’occasione insieme al minorenne Domenico Nirta. Secondo gli investigatori, pur di vendicarsi Strangio sacrifica il tacito accordo di non alzare troppa polvere nei fatti interni alle cosche, rompendo quella che fino ad allora è stata una tradizione: Pelle-Vottari-Romeo da una parte e Nirta-Strangio dall’altra lasciano morti ammazzati con una certa discrezione. Dalla strage di ferragosto ricorrono domani due anni. Un secondo anniversario importante, che celebra anche un grande risultato della polizia italiana, che in meno di 24 mesi è riuscita ad assicurare alla giustizia tutti i componenti del gruppo di fuoco. L’ultima cattura messa a segno è quella di Giovanni Strangio, lo spietato killer della cosca Nirta-Strangio considerato l’esecutore materiale della strage. Occhiali da sole e cappello sempre in testa, Strangio, inserito nell’elenco dei 30 latitanti più pericolosi, si nascondeva in Olanda, a Diemen, un piccolo centro vicino ad Amsterdam, dove conduceva una vita «irreprensibile» per sfuggire alla pressione crescente degli investigatori.

IN DUE ANNI UNA RAFFICA DI ARRESTI – Con il 31enne di Africo il 12 marzo viene arrestato il cognato, Francesco Romeo, 41 anni, latitante da oltre 10 anni, e ricercato per traffico internazionale di sostanze stupefacenti. Prima di loro a finire nella rete della polizia è il superlatitante Giuseppe Nirta, 35 anni, anche lui nell’elenco del ministero dell’Interno sui 100 latitanti più pericolosi, anche lui cognato di Strangio. Ancora prima di Nirta, grazie alla controffensiva fatta scattare da parte delle forze dell’ordine italiane, sono molti gli arresti eccellenti legati alla faida di San Luca. In manette finiscono 4 presunti appartenenti alla cosca Nirta-Strangio: Antonio Rechichi e Luca Liotino, catturati in Germania, e Domenico Nirta e Domenico Pizzata catturati in Italia. Poi, a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro, le porte del carcere si aprono per Paolo Nirta, cognato di Maria Strangio, uccisa il giorno di Natale 2006, catturato il 7 agosto 2008, e Gianfranco Antonioli, ritenuto l’armiere di San Luca. Il 18 settembre è la volta del superlatitante Francesco Pelle, 32 anni, detto ‘Ciccio Pakistan’, arrestato in una clinica di Pavia specializzata nel campo della riabilitazione. Pelle perse l’uso delle gambe in un agguato il 31 luglio 2006. Un tentato omicidio di cui si vendicò, secondo gli inquirenti, proprio ordinando la strage di Natale e innescando così il fatale meccanismo che avrebbe portato alla strage di Duisburg. A finire in manette, il 16 ottobre scorso, il latitante Antonio Pelle, 46 anni, capo della cosca Pelle-Vottari, arrestato dagli uomini della squadra mobile della questura di Reggio Calabria e del Servizio centrale operativo in un bunker nelle campagne della locride. Le forze dell’ordine lo cercavano dall’agosto 2007, quando sfuggì alla cattura nell’operazione ‘Fehidà, predisposta dalla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria all’indomani della sanguinosa strage di ferragosto.

QUELLA SERA ‘DA BRUNÒ SI CELEBRAVA UN RITO DI INIZIAZIONE – È la notte tra il 14 e il 15 agosto del 2007, quando a Duisburg, cittadina della Germania occidentale già meta di tanti emigranti italiani, si consuma la strage. Tommaso Venturi, 18 anni, Francesco e Marco Pergola 22 e 20 anni, Francesco Giorgi, 17 anni, Marco Marmo, 25 anni, e Sebastiano Strangio, 39 anni, vengono uccisi a colpi di mitraglietta davanti al ristorante-pizzeria ‘Da Brunò di proprietà della famiglia Strangio. Una famiglia importante a San Luca, il paese della Locride divenuto celebre più che per aver dato i natali a Corrado Alvaro per una faida che ha fatto 15 morti in 17 anni, 11 dal Natale scorso a oggi. Faida che vede impegnati in una guerra senza esclusioni di colpi il clan degli Strangio-Nirta e quello dei Pelle-Vottari-Romeo. Quando vengono raggiunti dai killer, i sei calabresi sono appena usciti dal locale. Lì hanno cenato per festeggiare il 18esimo compleanno di Tommaso Venturi e, ipotizzeranno poi gli inquirenti, il suo ingresso nel clan. Quella sera ‘Da Brunò, prima del massacro, si è celebrato un ‘rito di iniziazionè, la cerimonia della ‘copiatà, conclusa, come da tradizione, con il giuramento proferito dal nuovo accolito mentre si lascia bruciare tra le mani un’immaginetta sacra, il santino di San Gabriele, patrono della polizia, che verrà ritrovato proprio addosso a Venturi. Sono da poco passate le due quando i sicari nascosti nel buio entrano in azione. Le vittime sono appena salite su due auto: una Golf e un furgoncino Opel. Contro di loro vengono esplosi oltre settanta colpi. Poi a ognuno, quasi a voler firmare l’omicidio, viene sparato un colpo in testa. All’arrivo dei soccorsi per cinque di loro non c’è più niente da fare. Il sesto muore in ambulanza durante il trasporto in ospedale. Per la cittadina della Germania occidentale è uno choc. La ‘ndrangheta colpisce anche all’estero. Non ha limiti.

DA REGGIO CALABRIA UN POOL DI INVESTIGATORI IN GERMANIA – Agli investigatori non ci vuole molto per capire che alla base del delitto c’è ancora una volta la faida di San Luca che insanguina la Calabria da oltre 16 anni. Subito scattano le indagini della Polizia tedesca, mentre nel paesino della locride si rafforzano le misure di sicurezza, e da Reggio Calabria parte per la Germania un pool di investigatori italiani. A fornire i primi elementi sono alcuni testimoni che raccontano di aver visto fuggire due persone dal luogo del delitto a bordo di un’auto. Grazie alle descrizioni fornite viene ricostruito l’identikit dell’uomo che si trova alla guida della vettura: «Altezza intorno a 180-185 cm figura slanciata, capelli scuri corti e basette fin quasi alla bocca, senza barba o baffi, con un grosso neo sotto l’occhio destro». L’identikit viene messo sul sito internet della polizia del Nord Reno Vestfalia con questo annuncio: «In base alle indicazioni di testimoni oculari sono stati visti nelle immediate vicinanze del luogo del deltto due uomini attualmente sconosciuti, che potrebbero essere ricollegabili ai fatti. Le due persone sono salite su un’auto parcheggiata al centro della Muehlheimer Strasse di Duisburg , una grossa berlina che si è allontanata a velocità in direzione dello zoo di Duisburg ». L’identikit viene inviato anche agli inquirenti di Reggio Calabria che lo analizzano per capire se possa corrispondere al volto di qualche persona collegata agli ambienti criminali della ‘ndrangheta. Ma dalla prima analisi non emerge nessuna somiglianza. Poi, sempre sul sito della Polizia tedesca viene inserito un filmato in cui compaiono due sospetti sicari in fuga, ripresi da una telecamera a circuito chiuso nei pressi di un distributore di benzina. Il 24 agosto la Polizia tedesca interroga sette persone che però non vengono trattenute. Scattano una serie di perquisizioni in alcune abitazioni di diverse località del land del Nord Reno-Westfalia, ma anche in altre regioni della Germania. Vengono sequestrate automobili e diversi oggetti che vengono acquisiti come elementi utili alle indagini. Ma dei killer ancora non c’è traccia.

PRIMA DELLA STRAGE UN VERTICE DEL CLAN PELLE-VOTTARI – Intanto le indagini cominciano a fare chiarezza su altri aspetti della strage di ferragosto. Quella notte, secondo gli investigatori, a Duisburg, subito prima della strage , aveva avuto luogo un vero e proprio vertice del clan Pelle-Vottari, come confermerebbe un’intercettazione nella quale una delle vittime, Marco Marmo, riferirebbe a un suo congiunto: «Abbiamo le armi». E dagli elementi raccolti nell’ambito delle indagini da Carabinieri e Polizia, in collaborazione con i colleghi tedeschi, emergono una serie di particolari sul massacro. A cominciare dalle testimonianze: è una donna, alle 2.24 del 15 agosto, a telefonare alla polizia per dare l’allarme da Muehlheimestrabe, nei pressi della stazione di Duisburg. La donna riferirà di essersi imbattuta, nel vicoletto a fianco al ristorante «Da Bruno», nella Golf nera con a bordo i corpi insanguinati di Marco Marmo, che era sul sedile di guida, di Francesco Giorgi, seduto al suo fianco, e di Francesco Pergola e Tommaso Venturi, seduti invece sui sedili posteriori. Le altre due vittime erano su un’Opel Combo: alla guida Sebastiano Strangio e al suo fianco Marco Pergola. È il 30 agosto, dalla strage sono passate due settimane, quando le forze dell’ordine assestano un violento colpo alle ‘ndrine in guerra. Vengono eseguiti oltre 40 fermi nei confronti di affiliati alle cosche mafiose Nirta-Strangio e Pelle-Vottari.

STRANGIO ARRESTATO DALLA POLIZIA PER UNA SPARATORIA DOPO I FUNERALI DELLA CUGINA MARIA – L’operazione prende spunto da un’informativa dei carabinieri redatta subito dopo l’omicidio di Maria Strangio, la moglie di Giovanni Nirta, considerato uno dei capi della cosca omonima, uccisa a colpi di kalashnikov sotto casa, a San Luca, a Natale del 2006. Tra i destinatari di quelle ordinanze di custodia della Dda di Reggio Calabria c’è Giovanni Nirta, considerato il boss della omonima cosca. E ci sono anche Achille Marmo, fratello di Marco, e Giovanni Strangio, fratello di Sebastiano, due delle sei vittime della strage di Duisburg. E proprio su Giovanni Strangio si concentrano le indagini. Cugino di Maria, Strangio era stato arrestato dalla polizia per una sparatoria scoppiata dopo i funerali della donna, svolti in forma strettamente privata nella chiesa di S. Nicola a Bovalino. Strangio aveva tentato di sparare al dirigente del commissariato di Polizia di Bovalino che, avendolo notato in chiesa insieme ad altre due persone, voleva identificarlo. Il funzionario reagì e Strangio rimase ferito a un polpaccio. Accusato di porto e detenzione illegale di una pistola, Strangio chiese ed ottenne il patteggiamento e fu condannato a quattro mesi. Quindi, rimesso in libertà, partì per la Germania. Strangio, 28 anni, nato a Siderno, in Calabria, ma residente a Kaarst, nel land del Nord Reno-Westfalia, dove gestisce due pizzerie, era ufficialmente ricercato in Germania come sospetto componente del commando killer autore della strage di ferragosto.

Mafie: l'impunità culturale tutta lombarda della politica del non fare

mafianonesistePassano d’agosto i circhi vecchi delle dispute politiche officiate dagli strateghi della politica dello “stare”: quelli per cui ogni comunicato stampa serve a tranquillizzare e tranquillizzarsi, e per i quali  l’azione politica si riduce ad un “tenere in bilico” la barca dalle onde di collaboratori troppo ingombranti o peggio ancora di magistrati e forze dell’ordine che osano esimersi dalle ronde (alcoliche e analcoliche) o dalle persecuzioni legittimate. Se perseverare è diabolico, la Lombardia, pure ad Agosto, sottolinea la propria perseveranza (diabolicamente incendiaria e cornuta) nell’arroccarsi tra codicilli e competenze pur di non prendere decisioni e tanto più negarne il diritto agli altri.

A Milano che “la mafia non esiste” o perlomeno “non appartiene a questa città” la sindachessa Moratti ha provato a ripeterlo ovunque dai consigli comunali, alle televisioni in prima serata fino ad abusarne favoleggiandoselo (probabilmente) la sera per addormentarsi. Non soddisfatta ha poi lanciato comunque la commissione comunale antimafia che è durata poco meno di uno starnuto (come un coniglio dal cilindro) per rimangiarsela subito dopo adducendo competenze prefettizie che non andavano scavalcate. Ora, saputo che nella sua “Milanoland delle fiabe” un’intera cittadella è in mano alla criminalità organizzata come segnalato dal pm Gratteri (che di ‘ndangheta un po’ ne conosce avendone studiato la storia, morsicato alcune locali e reativi capibastone e annusandone tutti i giorni l’odore tra gli stipiti blindati che il suo lavoro gli impone)  la sindachessa e la politica milanese tutta rimbalza responsabilità di intervento a non precisati enti o ruoli. Mentre La Russa si ridesta invocando l’esercito.  Intanto tutti felici e contenti concordano nel ritenere i 6 caseggiati popolari di Viale Sarca e via Fulvio Testi in mano agli onomatopeici fratelli Porcino (bossetti di periferia legati alle cosche di Melito di Porto Salvo), i nomadi Hudorovich e i Braidic semplicemente un “neo”, una pozzanghera piccola piccola in quel placido, enorme e ligresteo tappeto di cemento che è il capoluogo lombardo spiato dall’alto.

A Lonate Pozzolo (come descrive puntualmente nel suo sito il bravo Roberto Galullo) il leghista Modesto Verderio, dopo aver denunciato gli interessi della famiglia Filipelli tutta in odore balsamico di ‘ndrangheta all’interno dell’areoporto di Malpensa finisce accantonato come si compete al visionario del rione. Intanto una statua di San Cataldo arriva da Cirò Marina a Lonate Pozzolo per scalzare Sant’Ambrogio nella festa del patrono santo con prepotenza laica.

A Buccinasco perde la pazienza addirittura la Lega che sul proprio giornale cittadino (“El giornalin de Bucinasc”) scrive contro il sindaco Loris Cereda: “Nonostante il sindaco Cereda continui a prodigarsi per dichiarare che a Buccinasco la mafia non è un problema e non riguarda le istituzioni  i cittadini sono sempre più allarmati dalle notizie dei telegiornali che parlano di arresti e di commistioni fra politica e malavita organizzata. Noi siamo stanchi di sentire ripetere le solite litanie: la ‘ndrangheta è un’invenzione dei giornalisti, delle istituzioni, delle commissioni parlamentari, ecc. Come cittadini vorremmo finalmente capire cosa c’è e cosa non c’è di vero al di là delle strumentalizzazioni politiche. E non ci bastano le prese di posizione di alcuni consiglieri che dichiarano di ritenersi calabresi nel consiglio comunale aperto alla presenza dei magistrati Castelli e Pomodoro“.

A Desio (fine 2008) Il Consiglio comunale ha respinto un ordine del giorno contro la mafia (’ndrangheta, camorra e quant’altro) in Brianza. Hanno votato contro tutte le forze di maggioranza. L’o.d.g. era stato presentato in seguito alla scoperta delle discariche abusive di rifiuti tossici a Desio e a Seregno.

A Corsico diventa quasi una vergogna una targa di marmo in onore di Silvia Ruotolo, donna, moglie e madre innocente, uccisa durante una sparatoria tra clan rivali della Camorra, a Napoli. Lei rincasava. Loro si spartivano a pistolate due piazze di spaccio, che fruttavano 20 milioni a sera. Il Comune voleva affiggere la targa in ricordo di Silvia Ruotolo sotto i portici di via Malakoff, al civico 6: oggi sede di un’associazione che si occupa di disabili psichici, ieri supermarket gestito da un mafioso della famiglia siciliana Ciulla, confiscato dallo Stato e poi riassegnato a fini sociali, come prevede la legge 109. Durante l’ultima assemblea di condominio, l’ordine del giorno relativo a quella “etichetta” commemorativa (concedere o meno al Comune l’autorizzazione di affiggerla sulla parete esterna dell’edificio, ben visibile a tutti) era sul fondo della “scaletta”. Alla fine l’amministratore ha deciso da sé, perché se n’erano già andati quasi tutti. Il permesso non è stato concesso. E i famigliari di Silvia Ruotolo (il marito e il figlio di 17 anni) hanno assistito alla cerimonia di scopertura della targa da parte del sindaco Sergio Graffeo all’interno dell’immobile confiscato. Pochi i presenti. Cerimonia quasi intima. Come se i panni sporchi della mafia si debbano lavare nel silenzio. Di soppiatto. Quasi per effetto di una forzatura. Di coscienza civica, di fatto, ne gira poca nel supercondominio di Corsico, che a est si affaccia sul quartiere Lorenteggio di Milano. Duecentodieci famiglie. Qualche negozietto sotto i portici che continua a cambiare gestore, a parte due o tre che resistono a che cosa, bene, non si sa. Qualche cognome “importante” sui campanelli, soprattutto di siciliani.

Negli uffici della Direzione Nazionale Antimafia Enzo Macrì, sostituto procuratore nazionale antimafia, parla da profeta inascoltato. «Che la ‘ ndrangheta stesse colonizzando Milano lo dicevo negli anni 80. L’ ho confermato due anni fa e i fatti mi danno ragione. Ora c’è l’ Expo e non so più come dirlo».

Solo per citare alcuni esempi.

Stupirebbe questo atteggiamento impermeabile in un paese normale, dove normalmente i politici dovrebbero essere eletti per prendere posizione, dare segnali forti e non solo per banalmente amministrare capitoli di spesa e distribuire (scaricandosene) ruoli e responsabilità. Qui non si tratta di disquisire i ruoli di governo e ordine pubblico come stabilito dalla legge; qui si rimane a supplicare un segnale, un lampo in cui ci si illuda che Marcello Paparo non possa sentirsi “libero” di collezionare bazooka come nei peggiori scenari di desolazione metropolitana post industriale, o Morabito non sfrecci impunito a parcheggiare il ferrarino in un posteggio dell’Ortomercato con l’arroganza di uno zorro a quattro ruote, o che Andrea Porcino (classe 1972, giusto per identificarlo meglio là fuori dal suo fortino dove gioca a seminare terrore) possa addirittura inventarsi intermediario con arie da tour operator mentre raccomanda ai secondini del carcere milanese di San Vittore dei buoni servigi e una residenza confortevole per i suoi amici Nino, Ettore e Massimo.

L’impunità dentro le teste (oltre alle tasche) dei capibastone ‘ndranghetisti o dei prestanome camorristi o dei ragionieri di Cosa Nostra in Lombardia è una responsabilità politica. Risolvibile semplicemente con la voglia e l’onestà di  volere dare al di là di tutto un segnale. Per restituire dignità anche nella forma.

Una regione che controlla la carta d’identità di un mojito e cammina su fiumi di cocaina. Una regione che s’abbuffa alle conferenze stampa delle grandi opere e che inciampa al primo gradino del primo subappalto. Una regione che convoca gli stati generali dell’antimafia per ribadire di stare tranquilli. Una regione che ci convince di aver risolto tutto spostando i soldatini del Risiko con la scioltezza di un tiro di dadi. Una regione diventata maestra perspicace nel strappare con la pinzetta delle ciglia l’allarmismo mentre grida all’emergenza dei rom che scippano le nonne. Una regione che se il fenomeno criminale non emerge allora non esiste. Una regione che mette i moniti dei procuratori antimafia nei faldoni di “costume e società”. E intanto ride. Nel riflesso degli eroi diventati onorevoli che “la mafia l’hanno debellata decenni fa” e se così non fosse è semplicemente perchè non l’hanno mai trovata.

Una regione che è sacerdotessa della clandestinità diventata finalmente illegale e intanto finge di non sapere che l’illegalità pascola clandestina.

Ma c’è un tempo che è quello della memoria che supera le circostanze brevi della politica tutta a parare i colpi mungendo voti: la memoria sulla pelle dei nostri figli, delle prossime generazioni, quella che non entra nei libri di storia ma rimane sotto pelle come una traversata nella stiva mai raccontata. E allora pagheranno pegno davanti alla storia tutti i politici pavidi,  cravattari amministratori tra la casetta in centro e l’incenso delle sciantose; pagheranno i sindaci dell’ “insabbia et impera” e i tranquillanti per professione. Pagheranno l’ignoranza e la persecuzione di uno stuolo di attivisti messi al muro per discolparsi di uno sguardo fatto di fatti. Sorrideranno a leggere che qualcuno, metti per caso una sindachessa di Milano calpestando i cadaveri delle antiestetiche vittime milanesi delle mafie, sia riuscita a mettersi nella situazione di dover essere smentita per un allarme che da decenni è già rientrato perchè metabolizzato: endovena, silenzioso. Impunito, appunto.

Nel gioco dei segnali così caro alla pochezza criminale, se esistesse un santo dell’estetica contro il diavolo della politica per comunicati stampa, da domani partirebbero le ronde della legalità nei crani dei politici a cercare con il lumicino la responsabilità della dignità.

E intanto è ferragosto così cinico e vacanziero, mentre qualcuno, tra i pochi ostinati, scrive anche d’agosto di una storia che parla da sola come Gianluca Orsini sull’Unità:

ASSALTO ALL’EXPO

L’Unità – Edizione Nazionale – 10/08/2009 10/08/2009 29 Inchiesta Nazionale GIANLUCA URSINI Gli affari languono nel Meridione, per le imprese legate ai clan che negli anni hanno monopolizzato i mercati del calcestruzzo, del movimento terra e inerti, fino a essere presenti in ogni cantiere pubblico e privato in Calabria: nei prossimi anni la torta più grande verrà dalle opere legate alla Esposizione universale prevista a Milano nel 2015. È il tam tam che si sta diffondendo in quella ristretta comunità di ingegneri e costruttori che si contendevano gli appalti da Caserta in giù. «Dopo aver lavorato ai macrolotti Gioia – Palmi e di recente Palmi – Villa san giovanni dell’autostrada Salerno – Reggio – spiega un ingegnere veneto trasferitosi da un decennio- la mia ditta, emiliana, mi chiede se sono disposto a programmare i prossimi dieci anni a Milano: si apre un ufficio lì, ci saranno fin troppi appalti da gestire». I clan hanno capito che non c’è più da fare affidamento sui grandi appalti in queste regioni, e così come le ditte “pulite” direzionano la bussola degli affari verso l’altro polo. «Qui stanno smobilitando tutti – continua l’ingegnere, sotto garanzia di anonimato – fino a febbraio mi chiedevano ancora se avevo intenzione di restare perché c’erano grosse aspettative legate al Ponte sullo Stretto, ma poi si è capito che per 5 anni soldi non ne arrivano. Sono previsti 2 anni per il progetto esecutivo, ma sappiamo tutti che ce ne vorranno più del doppio. Cantieri a breve non apriranno,quindi tutte le ditte hanno una sola preoccupazione: non rimanere indietro a Milano. È lì che si lavorerà bene. Quelli del posto che ho visto per anni sui cantieri della Salerno- Reggio mi dicono da mesi: ci vediamo in Lombardia». È tempo di preparare i bagagli per il Nord: per i calabresi non è certo un mercato nuovo. Le imprese legate ai clan hanno messo radici da almeno due generazioni nelle terre tra il Ticino e l’Adda: già nel 1999 il magistrato milanese Armando Spataro avvisava la commissione parlamentare antimafia di Beppe Lumia come nel capoluogo padano «il 90 percento delle inchieste riguarda clan di ’ndrangheta: le mafie della Locride stanno penetrando il cuore finanziario d’Italia». Infiltrazione andata a buon fine dieci anni dopo, se nell’ultima relazione della procura antimafia, su 900 pagine si dedica un lungo capitolo a Milano e ai calabresi in Lombardia, passando a setaccio territori diversi. La metropoli e il suo hinterland sono «appannaggio delle cosche reggine, sia della costa Jonica che Tirreniche come pure le famiglie di Reggio città, che agiscono in sintonia con i siciliani di Cosa Nostra legati da antichi rapporti con i clan della Locride, in mano a loro la gestione del pizzo degli investimenti immobiliari e le infiltrazioni nel commercio». L’ortomercato si era rivelato terreno di casa dei Morabito di Ardore dopo un blitz della polizia nel 2007. E in provincia gli investigatori scoprono crotonesi e vibonesi sempre più presenti in alta Brianza e Valtellina, nelle provincie di Lecco Como e Sondrio. Già nel 2006 la procura di Lecco riesce a incriminare 20 persone legate ai clan Coco-Trovato che in zona hanno creato un loro “locale” (come vengono chiamate le nuove cellule) collegato con i clan Arena di Isola Capo Rizzuto a Crotone e con i potentissimi De Stefano di Reggio. I Farao Marincola, crotonesi di Cirò Marina, sono presenti nei cantieri e si occupano di recupero crediti, tra Varese Legnano e Busto Arsizio, a ovest del capoluogo, monopolizzando anche il traffico di cocaina. I Mancuso di Limbadi (Vibo) controllano Monza, nella periferia milanese di Sud ovest, tra Buccinasco, Cesano Boscone e Assago, le famiglie dell’Aspromonte si sono radicate da tre generazioni creando un «consorzio del Nord» che impone le proprie imprese in subappalto in ogni cantiere. Fanno capo ai Barbaro di Platì, che coordinano le famiglie Perre, Trimboli Sergi e Papalia, già inserite negli appalti per l’Alta velocità, come pure al raddoppio della Venezia-Milano, adesso aspettano Pedemontana lombarda e nuova Tangenziale est milanese. Lo scorso marzo tre pm del Tribunale di Milano hanno chiesto 21 arresti per i compari di Marcello Paparo, imprenditore edile che riforniva di bazooka i parenti di Isola Capo rizzuto dalla sua ditta di Cologno Monzese. Dalle 400 pagine del gip Caterina Intelandi emerge una «cabina di regia» unica delle cosche sugli appalti lombardi, che impongono «quale impresa lavora e quale no» e dividono la torta in parti uguali, anche per Tav a quarta corsia della A4. Nella stessa inchiesta emerge anche un fattore nuovo: queste imprese dai profitti elevati fanno gola generano una devianza insospettabile: i lumbard che si affiliano alle cosche. Almeno quattro nominativi di contabili, geometri e piccoli imprenditori del Milanese sono stati indicati dalla gip Interlandi. Cinque kalashnikov, tre mitragliette Uzi, tre pistole Sig sauer. «Su ordine del boss Trovato le consegnai ad un capofamiglia alleato nel ristorante “Il Portico” di Airuno in Brianza», confidava un testimone di giustizia al gip milanese Vittorio Foschini a inizio anno, «le forniture di armi erano iniziate nel 2002, dopo che clan rivali nel milanese avevano ordito un attentato contro Peppe De Stefano e Franco Trovato a Bresso (periferia nord di Milano, a ovest di Sesto San Giovanni)». Gli arsenali vengono preparati in vista della possibile guerra degli scissionisti, per il sostituto procuratore antimafia Pennisi «inchieste come la Over size del 2006 dimostrano il graduale affrancamento dei clan calabresi di Lombardia dalla regione d’origine, con la sostanziale autonomia dei nuovi clan brianzoli e milanesi», una novità segnata dal fatto che le nuove famiglie possono comprendere elementi che provengono da province, paesi diversi, sfuggendo «all’elemento di radicamento con la comunità originale», con un territorio calabrese ben definito, come aveva già segnalato il magistrato antimafia Nicola Gratteri. E queste nuove famiglie hanno fame di appalti, di altri soldi. Tanto da far temere che ben presto, con l’Expo, i kalashnikov si faranno sentire anche in Lombardia. «I sempre più rilevanti interessi nel settore dell’edilizia e dei subappalti per opere pubbliche, possono far saltare alleanze consolidate da tempo», avvisa la Direzione investigativa antimafia nella sua ultima relazione. Le avvisaglie ci sono già: il 27 marzo 2008 Rocco Cristello, ex alleato dei Mancuso caduto in disgrazia, viene ucciso in Brianza, il 14 luglio tocca a Carmelo Novella a San Vittore Olona, territorio dei Farao Marincola, che pagano con il sangue del loro affiliato Aloisio Cataldo, ucciso fuori Legnano il 27 settembre scorso.

Il silenzio colpevole uccide più delle mafie

pauraLettera di Carlo Pascarella, giornalista. Non servono commenti.

E’ proprio vero, il silenzio uccide e scriverò un libro sulla camorra per dimostrarlo: non si offenda nessuno, altro che Gomorra. Non mi importa se lo leggerò solo io, non mi interessano i soldi, lo farò per mia figlia Francesca, la mia dolce bimba di 4 anni che voglio cresca in un mondo migliore. Sarà il libro in cui racconterò le cose che finora non ho detto perché troppo preso a difendermi dagli attacchi della camorra e dal moralismo “aberrante” di uomini di potere che hanno tentato di chiudermi la bocca senza riuscirci.

Racconterò anche di come l’anticamorra per alcuni colleghi, anche di Pignataro Maggiore, sia diventata una moda più che un dovere. Qualche collega forse mi odia, qualcuno mi invidia, qualcuno mi vuole bene. E’ un periodo durante il quale mi sento isolato in una folla oceanica, anche se accanto a me in redazione sento stima ed affetto.

E il libro che scriverò sarà una sorta di mio testamento. Ho insegnato il lavoro a tanti colleghi, molti dei quali hanno fatto poi carriera. Ma ora di me non si ricordano più. Ci sarà un motivo. Forse perché sono rimasto l’unico della carta stampata che scrive ancora su Pignataro Maggiore? Comunque non fa niente, prendo atto di chi mi ha dimenticato.

Chiedo perdono a qualche mio collaboratore con il quale ho sbagliato, il mio carattere di merda che avevo prima mi ha fatto commettere degli errori. Adesso sono un uomo diverso da quello di tre anni fa. Anche i miei maestri sono diversi, si ricordano tuttora di me, che sono stato un umile loro allievo. Ora non mi sento in pericolo, nonostante la mia storia di denunce alla camorra sia finita su quattro libri, ultimo “Il Sud che resiste” di Pasquale Iorio. Nonostante il clamore mediatico scatenato dalla telefonata che mi fecero i boss della camorra casalese Michele Zagaria e Antonio Iovine che mi ha portato su tutti i giornali, anche nazionali. Nonostante “Porta a porta”, nonostante “Anno Zero”, nonostante le tante interviste da me rilasciate a l’Espresso, al Giornale, a Repubblica e a tanti giornali nazionali.

Nonostante tutto resto qui a Caserta a scrivere di camorra: spero ne valga la pena, lo spero davvero. Ma perché ora ho tanti dubbi? Non mi sento un eroe, sono un cronista, ora troppo solo.

Dopo 13 anni vissuti a Caserta da qualche mese sono tornato a vivere nel mio paese, a Pignataro, nel cuore della mafia che ho denunciato. Nulla è cambiato, noia, noia, noia e una cappa opprimente. E non è solo colpa dei camorristi, posso dirlo io che li combatto da anni, nel mio piccolo.

E’ anche colpa di chi ha voluto portare ad ogni costo sul fronte politico, con diatribe da quattro soldi, una battaglia antimafia che andava combattuta tutti insieme, senza il colore o il simbolo di una bandiera. E qualche errore forse l’ho commesso anche io, forse sono caduto in una trappola.

Presto andrò via per sempre da Pignataro, perché quelle poche volte che esco vedo la bellezza dei luoghi della mia infanzia, incontro i miei vecchi amici, ma sento dell’oppressione, dell’isolamento. E’ come se fossi un uomo scomodo. Devo tanto alla mia famiglia, che ha subito attentati, minacce, soprattutto per colpa mia. Ma mi hanno dato la forza di andare avanti. Fanno piacere le pacche sulle spalle di chi mi dice di aver fatto una bella carriera, di essere stato coraggioso.

Ma vi chiedo: è servito a qualcosa? Mi dicono di sì, ma io comincio a capire che la marea non è cambiata. Il sole c’è a Pignataro, ma ci sono ancora tante nuvole. Il sole c’è anche nelle terre del clan dei Casalesi, ma lì c’è ancora un temporale in arrivo. Perché la mafia si ricicla continuamente. Povero Giancarlo Siani, ucciso per amore della verità, per la passione innata per questo mestiere bello ma che talvolta distrugge l’anima.

La camorra va combattuta tutti insieme.

Non so se resisterò, ci proverò con tutte le mie forze a lottare, per 13 anni ce l’ho fatta. Adesso mi sento un po’ stanco. Come un guerriero ferito dall’indifferenza. Eppure sono vivo, ho la mia piccola Francesca e questo mi basta. Molti di voi no, io invece vi amo tutti. Anche coloro i quali pensano sia un mitomane, anche coloro che mi vogliono morto o altrove.

Carlo Pascarella

Radio Mafiopoli 29 – Edizione straordinaria: Nicchi sa scrivere!


Settimana a Mafiopoli di 40 in fila per sei col resto di 2: 40 gli anni rifilati, 6 i boss pisellati, il resto di 2 è di resto bum bum.

A Palermo 6 presunti appartenenti alla famiglia mafiosa di Carini (che non vuol dire per forza simpatici) sono stati condannati. Le condanne riguardano Antonino Pipitone (7 anni e 8 mesi), il padre Angelo Antonino Pipitone e lo zio Vincenzo Pipitone che hanno avuto sei anni a testa così come i fratelli Calogero e Giuseppe Passalacqua. Sei anni anche per Giulio Comello.

Nella maxi operazione “Cerbero” 37 fermi e ordinanze di custodia per i mandamenti di Brancaccio e Portanuova, nonostante tra gli arrestati ci fosse Francesco Palermo Montagna che oltre che avere 46 anni oltre che essere mafioso oltre che essere amico del boss Rotolo, raccontano che sia un ottimo bonificatore. “E’ il mago delle microspie” urlava sempre fiero Rotolo rotolante nella sua rotolante latitanza. E infatti, troppo impegnati sul tecnologico sono rimasti fregati dal buon vecchio pizzino. Arrestati gli uomini d’onore  si dice abbiamo gia’ cominciato a parlare. Voci di corridoio raccontano di un Rotolo con l’umore incagliato.

Una storia triste: a Washington Victoria Gotti, figlia del super Boss John Gotti, capo dei capi della mafia americana,  bionda discreta come un elefante rosa sul campanile, Victoria è costretta a vendere la sua lussuosa casa di Long Island. “Me la cavo a mala pena” ha spiegato in lacrime di coccodrillo (rosa) davanti alla villa da 5 milioni. A quanto pare suo marito Carmine Agnello che nonostante il nome e la mafiosità conclamata non è ancora stato messo allo spiedo, non le verserebbe gli alimenti. Che vergogna! urla il re ridens durante l’inaugurazione del ponte da Messina a Onna, una storia così meravigliosamente vergognosa che meriterebbe un reatity in prima serata su Beghe 4. Ma il re della disinformazione si svela disinformato: lo sceneggiato tv crescere Gotti è già stato un successo sulle reti americane. Un appuntamento quotidiano come un Kebhab farcito di soldi sporchi, mafia, tradimenti, balle e principi e principesse al ballo della mafia. Gli autori di Porta una porta stanno già chiedendo i danni. E Carmine Agnello? Dopo essere stato scarcerato e avere lasciato la Grande mela si è risposato con la figlia di Mourad Topalian, un capo storico del terrorismo armeno.

Una buona notizia! Mafiopoli esulta. Non solo il latitante Nicchi è vivo, non solo ha imparato con corso accelerato in video cassetta a scrivere la sua firma in modo leggibile, ma addirittura è riuscito con le proprie gambe e la sua gelida manina ad imbucare la lettera per nominare il suo secondo difensore per il processo Gotha. E’ incredibile hanno dichiarato le gemelle Kessler Lo Piccolo dal loro carcere con stanza matrimoniale ma con letti separati “l’avevamo lasciato insieme al Rotolo ad incollare saracinesche in via dei Mille con l’attac, e lo ritroviamo oggi dottore imparato di scrivere e imbucare”. Imbucaiolo imbucato maestro nell’imbucarsi, riferiscono le malelingue, che il Nicchi abbia preso il volo per sfuggire alla ricevuta di ritorno.

Giuseppe Raffaele Nicotra, sindaco di Aci Catena pese famoso per bolli e passaggi di proprietà, è stato nominato eroe dell’anti pizzo della settimana di mafiopoli. Come insegnano quei politici che prendono di petto i problemi per fare sponda col culo di qualcuno, il sindaco nega di essere vittima di un’estorsione e si becca un’accusa di favoreggiamento aggravato dalla DDA di Catania. Come insegna il suo partito il popolo della pubertà, se una cosa si nega non esiste e si è risolta. Al massimo se insiste si rispedisce a Malta.

A Messina nel centralissimo viale San Martino, la polizia trova negli appartamenti di Antonino, Alfredo, Giovanni, Salvatore e Franco Trovato un vero e proprio laboratorio di droga e circa un milione di euro in banconote. Durante l’ispezione, gli uomini della Squadra mobile hanno trovato in un appartamento 2 chili e mezzo di cocaina pura, 157 grammi di eroina e l’attrezzatura di una vera e propria raffineria: una pressa per il confezionamento delle dosi, ben 8 chili di sostanze da taglio, altro materiale sofisticato. Poi un letto sfatto, il frigo pieno, la tv accesa. Nell’altro appartamento dello stesso stabile, invece, gli agenti hanno rinvenuto 10 pacchi, ricolmi di banconote di vario taglio, per un totale di oltre un milione di euro, nascosti in un vano ricavato sotto un mobile fioriera.

“Non è giusto” hanno gridato in coro una parola a testa come qui quo e qua. “Il milione di euro l’abbiamo vinto al bar di sotto al mafia e vinci. E i due chili di cocaina sono la dose personale di nonna Assunta”. Bravi Bene Bum bum.

Il procuratore Centrone alla guida della direzione distrettuale antimafia dell’Umbria dichiara che alcuni processi evidenziano la presenza nella zona di camorra e boss casalesi. “Dicono” aggiunge il ministro della perversione minorile di mafiopoli “che tra poco arriverà da noi il più terribile famigerato pericoloso boss della seconda repubblica”. Qualcuno l’ha preso sotto il braccio e spiegandoli che quello era il G8 l’ha portato nelle segrete stanze del ministero di Topolinia.

Umberto Ambrosoli figlio dell’eroe borghese Giorgio, liquidatore della Banca Privata Italiana, con cui Sindona ripuliva i soldi della mafia, dichiara al Corriere della Sera che suo padre ancora oggi a Milano non avrebbe solidarietà per il suo sacrificio a servizio delle Stato. “Ambrosoli?” dichiara la sindachessa di Milano lieta ma con il parrucchino triste “con tutto il da fare che abbiamo per l’Expo non abbiamo certo bisogno delle rivendicazioni postume sindacali degli apicoltori”. E scoppia l’applauso. Grazie prego tornerò bum bum.

BIBLIOGRAFIA

Radio Mafiopoli 25 – Il negazionismo certificato e l’antimafia pregiudicata

Buongiorno a tutti. Da oggi Radio Mafiopoli viene trasmessa in video direttamente dal nostro studio, che non è ovale ma fecondo, a tratti spassosamente ovulatorio. Del resto a quanto pare basta spesso una cartellonistica di spalle, anche nella forma di una Disneyland in tetrapak, per arrogarsi il diritto di fare informazione e questo a Mafiopoli non è consentito. Ormai sono anni che il principe Cacchiavellico, monarca despocratico della repubblica di Mafiopoli, sta ripetendo che l’informazione è un’infezione virulenta, contraffatta dalla Cina, che sta uccidendo quella meravigliosa coscienza civile mafiopolitana sempre così delicatamente dormiente, assopita, pressoché comatosa: rivedendo l’ultimo decreto legge sembra che siano in molti tra gli eletti reggipancia del re a volerle staccare la spina. Il lupotto Fini ha dichiarato che “ormai l’informazione mafiopolitana non ha più speranze ed è meglio staccare il sondino”. Poi come al solito è stato sculacciato per avere detto una cosa troppo di sinistra. A Mafiopoli non passa una settimana senza che ci sia una di quelle novità che ti facciano addormentare con quel retrogusto al dixan che è tutto un gioco di scambio di fustini due meglio di uno.
Pino Maniaci è stato denunciato. Il che di per sé non sarebbe nemmeno una notizia buona per il settimanale dell’oratorio. È la sua 270esima denuncia, del resto, e non è un segreto da servizi segreti il fatto che Pino sia l’inventore di un nuovo modello di antimafia: l’antimafia pregiudicata. Questa volta è stato denunciato per abuso di professione, che è una forma particolare di reato esclusiva proprio della legislazione di Mafiopoli: tutti coloro che non si allineano agli albi dei soprusi per professione vengono portati davanti alla santa inquisizione della delazione pubblica. Una volta, nell’era paleomafiusa, la delazione era coltivata al bar insieme alle patatine e ai tramezzini dell’aperitivo, mentre al tavolo si davano lezioni sulla legalità rigorosamente quella degli altri. Ora, purtroppo, a causa della nuova legge delle intercettazioni che rende carta straccia qualsiasi dichiarazione che non sia fatta in una notte di luna piena con una coda di gatto nero e un occhio di topo, i delatori devono prendersi la briga di fare le portinaie per denuncia bollata. Arrivata la denuncia il magistrato, dicono, ha dovuto aprire l’inchiesta. Ci sono cose a Mafiopoli a cui la giustizia non può sfuggire: verificare le mestruazioni delle malelingue, prescrivere Andreotti o fingere di trovare 400.000 trascrizioni secretate dentro il calzino di Genchi nel comodino. “L’informazione deve essere fatta di pregiudizi e non di pregiudicati!” ha urlato il Ministro al Giudizio di Stato durante l’inaugurazione del ponte da Messina all’Expo, “ i pregiudicati stiano al loro posto!” ed è scattato l’applauso alla bouvette del Parlamento. Non tutti hanno applaudito, solo i capigruppo, per tenere libere qualche paio di mani a toccarsi i Maroni, senza nessuna allusione a quelli dell’Interno. E così a Pino ci toccherà portarci le arance e le sigarette. Per il caffè magari chissà si offrirà di portarglielo qualcuno dei Fardazza (soprannominati Vitale, famigliola immafusita di Partinico) o della Bertolino (famosa distilleria di querele al Maniaci e famosa per la sua grappa “Scacciacani” ecocompatibile) , il caffè specialità del posto, detto anche “il caffè alla Sindona”.
Intanto, si sono aperti i balli e scaldati i cotechini per la famosa sagra mafiopolitana della negazione: a Lodi in provincia di Mafiopoli la mafia non esiste, non è mai esistita, e non esisterà. Bum bum. Solo una volta all’anno arriva a Lodi vestita da befana per portare una bara ai bambini che sono stati cattivi. A Parma il prefetto Paolo Scarpis ha dichiarato: “da Saviano solo sparate”. Al verbo sparare Riina ad Opera è corso in mensa a giocare ai pirati mentre gli brillavano gli occhi. A Parma la mafia non c’è. Non c’è mai stata e non ci sarà mai. La Moratti sindachessa di Milano, provincia di Mafiopoli, appena sentite le parole magiche “mafia” e “non c’è” si è illuminata e con il parrucchino in erezione ha convocato una conferenza stampa all’urlo “tana libera tutti!”. Un trionfo. Bum bum. A Genova il questore Parenti dichiara “mafia a Genova? A noi non risulta”, ha ragione al massimo un paio di puttane. A Buccinasco intanto il sindaco Ceresa organizza a sorpresa una giornata contro la mafia, titolo dell’iniziativa: “la storia della mafia dai fasci siciliani ai primi anni 50 quando è stata debellata”.
L’onorevole Fini, promosso proprio in questi giorni a onorevole fermacarte sulla scrivania del Re, ha dichiarato “la mafia è una dittatura!”, soddisfazione inaspettata. Poi ha aggiunto “non votate per chi offre un posto di lavoro”, e il Popolp della Pubertà è sceso sotto il 5%. Poi ha aggiunto “non ci sono mafiosi alla Camera”, e a quel punto sono entrati dei signori con un camice bianco che in camicia di forza l’hanno portato via.
C’è stata davanti alle questure d’Italia una manifestazione di solidarietà verso Gioacchino Genchi. L’avete vista? Ne avete sentito parlare? No. Allora non è vero. Ricredetevi. Alla negaziopolitana.