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Antimafia

Radio Mafiopoli 24 – Giuochiamo alla Mafia (ma per finta!)

Ascolta la 24a puntata: Giuochiamo alla Mafia (ma per finta!)

Ricca la settimana Incom giù a Mafiopoli: settimana di resti, arresti e giocatori.
Gli arresti: a Trabia, Sciara e Termini Imerese bussano di notte i carabinieri di Monreale. E di notte, con il neurone tipico mafiuso che svegliato di soprassalto sbadiglia cannolicchio, in quindici vanno ad aprire con le ciabatte da boss e lo sbadiglio seduto sulla spalla. Un antico proverbio mafiopolitano dice “se di notte bussa il carabiniere sono calci nel sedere” e, infatti, sono guai per i clan di Trabia, Sciara e Termini Imerese. Pisellati di soprassalto in un mattino senza oro in bocca sono volati a fare compagnia nelle patrie galere con i loro capetti Giuseppe Bisesi, Vincenzo Salpietro e Giuseppe Libreri. Aperta una raccolta fondi per l’iniziativa “Regala anche tu una sveglia con il busso carabiniero al boss del tuo quartiere!”. Appena saputo dell’accaduto quella vecchia volpe di Domenico Raccuglia (della stirpe dei Caccuglia) si dice che nel cuore della notte lieve e latitante sia sceso dal letto per strappare il cognome sul campanello.
A Caserta, provincia di Mafiopoli, alla mattina insieme al latte e al giornale sullo zerbino ci hanno trovato anche le guardie. 28 ingabbiati del clan di Antonio Farina, che nonostante il nome, non vuota il sacco. “ma è una vergogna!” – ha urlato il Farino (per gli amici 00) “a quest’ora del mattino mi si fanno le borse sotto agli occhi!”.  A Marcianise e Casal di Principe ai Casalesi ora tocca trovare altri cassieri con cui spartirsi al 50 il mercato ricco delle estorsioni. Appena saputo il topo Semola per gli amici Setola (sanguinario rosicchia formaggio della zona) si è alzato dal letto ma si è ricordato di essere in gabbia. Aperta una raccolta fondi per denunciare i topi in cattività.
A Cologno, provincia di Mafiopoli, cittadina colognese famosa per gli studi televisivi di Beghe4 e Banale5, la ‘ndrangheta in trasferta ci lascia 22 castrati sul campo. Medagliato sul campo il capetto Marcello Paparo in trasferta da Crotone. Il Paparo e la sua figliola Luana si erano specializzati nella movimentazione terra ed erano così bravi e così veloci che a suon di minacce si sono presi anche il cantiere dell’Alta Velocità nella tratta Pioltello-Pozzuolo Martesana. Tra gli arrestati anche il maresciallo finanziere Giuseppe Russo campione italiano della disciplina olimpica mafiopolitana di “chiudere un occhio”. E con l’occhiolino strizzato ci ha guadagnato una quota del ristorante “Taverna d’Isola” di Villasanta (famoso per il menù fisso  con l’occhiolino e senza scontrino) e un soggiorno vacanziero omaggio a Capo Rizzuto (località nota per il nome afrodisiaco). Per questa mania tutta ‘ndrina di rizzarsi tra una manetta e l’altra gli inquirenti hanno trovato una lanciarazzi in dotazione alla Nato. “E’ una vergogna!” – ha gridato Giancarlo Paparo fratello onomatopeico del suo fratello Marcello – quell’arma ci serviva per importare democrazia!” il giudice per il soggiorno in gabbia ha ordinato di spegnere la televisione agli arrestati.
Intanto a Lodi (cittadina ridente famosa per le Banche Impopolari) due ragazzini, finito il torneo di calcetto all’oratorio, hanno deciso di dedicarsi a giochi nuovi; erano indecisi tra il “lancio dell’opa secondo San Fiorani” oppure il più laico “suona il citofono e poi scappa”. Ingrigiti nella scelta dall’ombra delle logistiche si sono buttati proprio all’ultimo al “Giuoco della Mafia” acquistando via internet un paio di prostate di ricotta per assomigliare a Zu’ Binnu Bernardo Provenzano. Si sono fatti poi prendere la mano e hanno cominciato ad inviare anche lettere anonime per raggranellare un po’ di racket. Arrestati, condannati, derisi e compianti in una delle lettere chiedevano testualmente «la riscossione di una tangente, cioè di una piccola tassa che pur non segnalata tra le tangenti legali dello Stato dovrete lo stesso oblare.» Prima di essere incarcerati sono stati premiati dal Giampy nazionale per la creatività finanziaria. “Faranno strada!” ha urlato il Popolare di Lodi dalla sua nuova attività di serre floreali (Non Fiorani ma opere di bene) “arrestare dei ragazzini che promettono bene già da piccoli di essere i re della finanza!”. Ma la città condanna. Poco, modestamente, quasi niente, com’è nelle corde dei borghi dove la mafia non esiste. Del resto è solo una ragazzata: come quella dei fratelli Antonio e Marcello Reitano che nel 1992 nel lodigiano chiedevano all’imprenditore Daniele Polenghi, per scherzo, 200 milioni. La Sony è già pronta a lanciare sul mercato il gioco “Mafia anche tu!” disponibile per playstation. Bum bum.
Nel gioco dei segnali che non si devono prendere sul serio gli allegri graffitari a Monreale scrivono sui muri “Sonia Alfano infame” mentre Sonia a cento passi perdeva tempo a parlare di legalità. “Ma è uno scherzo!” ha urlato il Principe Macchiavellico mentre inaugurava la prima pietra del ponte da Messina a Infame “è stato scritto in rosso come la temperatura sugli autogrill! Non può essere sul serio! E poi, infame è maschile e Sonia è a e quindi femminile!” è partita la pubblicità e tutti si sono addormentati.
Non tutti si sono addormentati: qualcuno, sovversivo e pericoloso, ancora continua:
Però se continuo a farlo vuol dire che credo – e lo credo fermamente – che le nuove generazioni, le generazioni che verranno, riusciranno a sentire quel fresco profumo di libertà di cui Paolo parlava e per cui Paolo è morto.
Alla Borsellino.

BIBLIOGRAFIA

http://www.repubblica.it/2009/01/sezioni/cronaca/camorra-7/operazione-caserta/operazione-caserta.html

http://archiviostorico.corriere.it/1992/maggio/05/racket_tre_manette_co_7_9205051075.shtml

http://milano.corriere.it/milano/notizie/cronaca/09_marzo_12/ragazzini_estorsione_lodigiano_lettere_minacce_commercianti-1501081045223.shtml

http://milano.corriere.it/milano/notizie/cronaca/09_marzo_16/arresti_ndrangheta_cologno_monzese-1501091237612.shtml

http://www.antimafiaduemila.com/content/view/13936/78/

Radio Mafiopoli 23 – Salvatore Borsellino e che Stato è stato

Ascolta la 23a puntata: Salvatore Borsellino e che stato è stato

Salvatore Borsellino è uno di quei fiori rari di memoria attiva, di quelli per cui una perdita è soprattutto il dovere di un inizio. Lo incontro che è mattina già matura, nel suo ufficio, dove sorridono in foto suo fratello Paolo insieme a Giovanni Falcone.

Salvatore, in uno stato civile i famigliari delle vittime che sono morte per servire lo stato non dovrebbero avere l’obbligo e l’emergenza di continuare a lottare ma dovrebbero avere il diritto semplicemente di preservarne la memoria. Invece questo con tuo fratello Paolo Borsellino non è successo…

– Non è successo anche perché, purtroppo, quello che si tenta di fare in Italia è di limitare la commemorazione di Paolo, facendola diventare proprio commemorazione, cioè pensando a Paolo come una persona morta. Invece la verità è tutt’altra: io vado tanto in giro in Italia e mi accorgo che la figura di Paolo è una figura ancora estremamente attuale, una figura estremamente viva. La gente la sente proprio come qualcosa che gli manca e che vorrebbe. E allora noi ci siamo dovuti prendere questo compito soprattutto per un fatto: per il fatto che di quella strage non è stata fatta giustizia, cioè non si sa ancora nulla, i processi vengono bloccati e le indagini su alcuni punti chiave come quello dell’agenda rossa [l’agenda su cui Paolo Borsellino segnava gli sviluppi e le ipotesi sulle sue indagini, misteriosamente sparita dalla borsa del giudice prelevata subito dopo l’attentato di via D’Amelio ndr]o del Castello Utveggio non vanno avanti.

E c’è proprio un patto a qualche livello che sancisce che queste cose devono essere dimenticate dall’opinione pubblica. Di queste cose non si deve parlare, le deve coprire il silenzio. A fronte di questo atteggiamento è nostro dovere, dei famigliari di Paolo, cercare di tenere viva nelle persone la memoria che qualcuno invece cerca di occultare.

Secondo te, perché c’è questa sonnolenza di gran parte della società civile, per cui ogni tanto, anche andando in giro parlandone, facendo incontri, ci si accorge che, inconsciamente, la gente sembra che dia per chiuso o per risolto il problema dei colpevoli della morte di Paolo?

– Perché quello che è stato fatto è proprio cercare di fare passare l’assassinio di Paolo e di quei ragazzi che sono morti in via D’Amelio come una strage di mafia. E purtroppo credo che a livello di opinione pubblica si sia abbastanza riusciti in questo intento. Hanno messo in galera un po’ di persone – tra l’altro condannate per altri motivi e per altre stragi – e in questa maniera ritengono di avere messo una pietra tombale sull’argomento. Devo dire che purtroppo una buona parte dell’opinione pubblica, cioè quella parte che assume le proprie informazioni semplicemente dai canali di massa – televisione e giornali – è caduta in questa chiamiamola “trappola” ed è stata, potremmo dire, partecipe inconsapevole di questo disegno. Quello che noi invece cerchiamo in tutti i modi di far capire alla gente – e un certo numero di persone, cioè quelle che assumono informazioni anche dai libri e dalla rete, questa cosa la capiscono sicuramente e c’è anche una forte attività sul voler dire la verità – è che questa è una strage di stato, nient’altro che una strage di stato. E vogliamo far capire anche che esiste un disegno ben preciso che non fa andare avanti certe indagini, non fa andare avanti questi processi, che mira a coprire di oblio agli occhi dell’opinione pubblica questa verità, una verità tragica perché mina i fondamenti di questa nostra repubblica. Oggi questa nostra seconda repubblica è una diretta conseguenza delle stragi del ’92.

Al di là degli esiti processuali (che in realtà non ci sono nemmeno poiché qui si procede per archiviazione) ci sono degli elementi incontrovertibili che fanno credere che ci sia una relazione tra la strage di via d’Amelio e una certa parte di Stato in quel tempo?

– È vero che si procede per archiviazione, ma la gente si dovrebbe rendere conto che archiviazione non vuol dire che una persona o delle persone sono state assolte, ma semplicemente che le indagini non hanno potuto nei tempi necessari arrivare al punto in cui avrebbero dovuto arrivare. E se la gente si andasse a leggere tutti i procedimenti di archiviazione, per esempio di Caltanissetta, che tra l’altro spesso sono archiviazioni magari forzate dal capo della procura – come per esempio nel caso dei Tescaroli come ben si legge nel recente libro “I colletti sporchi” di Tescaroli e di Ferruccio Pinotti – si capirebbe che l’archiviazione non è un’assoluzione e nemmeno significa che le indagini ad un certo punto si sono fermate perché non c’erano elementi. Spesso gli elementi ci sono ma non hanno potuto essere sviluppati a sufficienza oppure addirittura qualcuno ha fatto sì che il processo ad un certo punto venisse bloccato. Quindi gli elementi ci sono sicuramente: basta andare per esempio a leggere negli atti del Processo ‘Borsellino Bis’ la relazione di Gioacchino Genchi quando scrive quale può essere stato l’unico punto da cui può essere stato attivato il telecomando che ha fatto esplodere l’esplosivo preparato in via D’Amelio, basta andare a vedere – sempre nella stessa relazione – quali telefonate sono partite in un senso e nell’altro da Castel Utveggio verso numeri intestati a componenti dei Servizi Segreti, per capire come gli elementi ci sono e sono fortissimi. Basta andare a vedere le fotografie dell’Arcangioli [colonnello dei carabinieri ndr ] che si allontana dalla macchina esplosa con la borsa dell’agenda rossa in mano e chiedere come davanti ad una prova incontrovertibile come questa le indagini siano state nuovamente bloccate per capire come sia evidente come non è che non ci siano elementi sui quali avviare dei procedimenti, ma c’è la precisa volontà di bloccarli nel momento in cui arrivano a toccare certi fili che non devono essere toccati, quando arrivano a certe persone che sono – adesso anche per legge dello Stato, anche se è una legge incostituzionale – intoccabili.

Ho letto quello che hai scritto sul procedimento di archiviazione legato alla vicenda della sottrazione della borsa e mi sono chiesto qual è stata la tua sensazione da famigliare nel vedere la borsa contenente la famosa agenda rossa (una delle memorie più importanti di Paolo) in mano ad una persona che nella fotografia è ritratta con piglio molto sicuro in una situazione assolutamente tragica, in mezzo a cadaveri, con tutto quello che stava succedendo in quel momento: ti ha scoraggiato o ti ha dato nuova linfa per continuare a pretendere la verità?

– In un primo tempo – l’ho anche scritto sul mio sito – è stata di scoraggiamento. Addirittura, scrissi: “non so se riuscirò a resistere a questo ulteriore colpo”. Poi purtroppo mi sono accorto di non potermi permettere questi atteggiamenti, anche se momentanei, perché la gente che mi segue e che segue la mia lotta è rimasta un po’ smarrita rispetto a questa mia affermazione e ha pensato che allora non ci fosse più niente da fare. Io mi sono ripreso immediatamente e ho preso anzi da questa vicenda ulteriore linfa come faccio da sempre. Ormai mi sono imposto un’operazione mentale quasi cosciente: a fronte di questi scoraggiamenti ne adopero i motivi per buttarli dentro la fornace e far sì che producano ulteriore rabbia. Ed è quello che mi è successo anche in questo caso: a fronte di questo ennesimo insabbiamento addirittura in questo caso di una prova assolutamente evidente. Prima tu dicevi che basta guardare la fotografia per vedere con che faccia sicura si muove. È proprio questo che mi fa rabbia, che mi ha provocato prima scoraggiamento e adesso ha aumentato la mia rabbia: l’ambiente in cui si trovava e il fatto che l’Arcangioli si muovesse calpestando cadaveri, camminando in mezzo a pozzanghere di sangue. Questo al contrario è stato adoperato nella sentenza di archiviazione del GUP proprio per giustificare il fatto che si assolveva l’Arcangioli che ha giustificato le dieci versioni diverse sui suoi movimenti e sulle persone a cui avrebbe consegnato la borsa, dicendo proprio che era così sconvolto dall’aver dovuto calpestare pezzi degli agenti della scorta di Paolo e dello stesso Paolo, che in quella condizione non può ricordare. E io credo che basti che una qualsiasi persona guardi l’atteggiamento dell’ Arcangioli che si allontana con passo sicuro guardandosi intorno tranquillamente – forse per verificare se qualcuno lo stesse osservando – per capire che questa motivazione della sentenza è addirittura assurda e che in base a quella motivazione Arcangioli non può essere assolto e non si può bloccare il processo. Io questa motivazione – benché non l’accetto neanche da lui trattandosi di un magistrato – la posso accettare da Ayala, il quale dice di non ricordare se effettivamente quella borsa gli è stata consegnata e se l’ha presa o non l’ha presa. Ma Ayala era anche amico di Paolo e quindi aver dovuto – come ha detto lui – “scavalcare il troncone di Paolo” penso che possa avergli provocato uno shock. Arcangioli in quel caso, guardando le riprese, mi sembra una persona che sta compiendo un’operazione di guerra. In guerra di cadaveri se ne vedono e se ne calpestano, tant’è vero che Arcangioli sembra proprio che stia compiendo una missione che qualcuno gli ha affidato.

Tornando su quell’appunto sull’agenda di Paolo in riferimento all. On. Mancino (secondo cui Paolo Borsellino sarebbe rimasto sconvolto da un incontro con Mancino proprio alcuni giorni prima dell’attentato), tu che idea ti sei fatto? Sapendo che lì è terreno minato…

– Di quell’incontro io ritengo che sia evidente – anche davanti alle giustificazioni puerili di Mancino – il fatto che ci sia stato e che in quell’incontro deve essere successo qualcosa di importante. Mancino adduce delle giustificazioni così puerili, che io chiamerei vergognose più che puerili, dicendo “io non conoscevo fisicamente Paolo Borsellino e quindi non posso ricordare se tra le altre mani che ho stretto ci fosse anche la sua”. Queste sono le frasi ignobili che adopera, come se la mano di Paolo Borsellino fosse una mano qualsiasi quando Paolo Borsellino in quei giorni era una persona della quale tutti erano sicuri che la morte fosse vicina. Che un ministro dell’interno possa non essersi interessato di chi era Paolo Borsellino e possa non aver visto neanche quel giudice che trasportava la bara di Falcone vestito della sua toga e che quindi possa affermare di non conoscerlo fisicamente è veramente una cosa che si può definire puerile, direi anche che si possa definire ignobile che un allora ministro della Repubblica parli in questa maniera nei confronti di un giudice come Paolo Borsellino. Anche le sue giustificazioni addotte tirando fuori quell’agendina in cui non c’è scritto assolutamente nulla per cercare con quella di contrastare l’agenda che io gli avevo presentato dove di pugno di Paolo c’è scritto “ore 19.30 Mancino”. A fronte di una testimonianza autografa di Paolo lui tira fuori da un cassetto un planning qualsiasi dicendo: ecco qui non c’è scritto l’appuntamento quindi io non ho avuto nessun appuntamento con Paolo. In quell’agendina non c’è scritto, e io l’ho vista molto velocemente nella ripresa televisiva, ma ci sono scritte tre righe in tre giorni diversi. Se quella è l’attività di un ministro della Repubblica, che si può concentrare in tre righe scritte in fondo all’agenda per un’intera settimana, penso che tutti devono capire che questa sia una giustificazione di una persona forse in difficoltà e che quindi cerca in qualche maniera di trovare delle prove. Io sono convinto, e tante cose me lo fanno pensare, che in quell’incontro a Paolo abbiano prospettato quella trattativa tra mafia e Stato che adesso sta emergendo in tutta la sua evidenza dalle dichiarazioni di Massimo Ciancimino. E se ne sta parlando in quel processo nascosto che si sta svolgendo a Palermo, proprio sulla trattativa in cui sono imputati il colonnello Mori e tutti i componenti del Ros, che hanno portato avanti questa trattativa per conto dello Stato.

Secondo te il fatto che dalle bombe si sia passati invece ad un’azione mafiosa fatta di decreti o di comunicazione “di distrazione” vuol dire che Loro hanno meno paura? si sentono più impuniti? o noi siamo meno efficaci nella nostra opera di pretesa di legalità e giustizia reale?

– Io penso che faccia parte tutto della stessa strategia, per cui da un lato la cupola mafiosa ha deciso di inabissarsi e quindi di essere meno evidente all’opinione pubblica per tornare allo status quo precedente agli anni Ottanta, quando c’era una connivenza tra stato e mafia che non balzava agli occhi, poi c’è stata la stagione stragista dei corleonesi e a questo punto si è ritornati – ed è stata una scelta ben precisa – alla situazione precedente. In più le persone che oggi detengono il potere sono molto esperte dal punto di vista della comunicazione e dell’impatto sulle persone, perché sono dei maestri a gestire la loro immagine attraverso gli organi di comunicazione che tra l’altro hanno in mano. Sono dei maestri a gestire l’impatto sull’opinione pubblica. La strategia ben precisa è stata – a fronte del fatto che la reazione della coscienza civile rispetto alle stragi di Capaci o di via D’Amelio e a fronte dell’uccisione di Carlo Alberto Dalla Chiesa e di tutte le altre innumerevoli stragi di Stato che l’hanno preceduta è tale da costringere lo Stato a simulare una reazione e da rendere necessario il prendere, almeno di fronte all’opinione pubblica, dei provvedimenti che poi a poco a poco nei tempi successivi vengono rimangiati – quella di non adoperare più il tritolo per eliminare i giudici ma di eliminarli in maniera ancora peggiore come è stato fatto con De Magistris e come è stato fatto con la Forleo e con Apicella. Proprio perché questo tipo di azione comporta in ogni caso la messa a tacere, l’eliminazione di quella persona che deve essere eliminata. Però non provoca per contro quella reazione dell’opinione pubblica che costringe lo stato a simulare una reazione nei confronti della criminalità organizzata, visto che in effetti una reazione autonoma e una lotta autonoma dello stato nei confronti della criminalità organizzata in Italia possiamo dire a voce alta che non c’è mai stata.

Ti faccio una domanda un po’ scomoda. Falcone diceva che “per combattere la mafia serve non l’impegno straordinario di pochi ma l’impegno ordinario di tutti”. Questo fronte comune dell’antimafia sembra impossibile da realizzare: l’antimafia diventa in qualche caso uno strumento politico, magari per un’opposizione che manca di altri contenuti, e comunque sconta al suo interno alcuni dissapori per questa presunzione di qualcuno di essere il detentore unico dell’antimafia . Tu hai trovato, hai vissuto dinamiche di questo tipo? credi che ci possa essere un momento per cui l’urgenza riesca veramente ad unire tutti?

– Io non so perché mi dici che è una domanda scomoda: questo è quello che io ho sempre pensato. Il fatto è che nelle organizzazioni antimafia da un lato si insinua della gente che cerca di sfruttare questo filone anche per le proprie mire personali e dall’altro ci sono delle vere e proprie infiltrazioni nell’organizzazione antimafia di gente che arriva esattamente dall’altro lato. Faccio l’esempio del consigliere di Francesco Messina Denaro – il signor Vaccarino – che nonostante sia stato condannato a nove anni per traffico di droga sta cercando di rifarsi una verginità e addirittura di infiltrarsi, di porsi come una persona che fa parte di organismi antimafia e che promuove delle organizzazioni antimafia. Questa persona l’ho addirittura querelata perché ha cercato di infangare la memoria di mio fratello dicendo addirittura che Paolo si era presentato in carcere tre giorni prima di morire dicendo che su di lui si era sbagliato e che quindi l’avrebbe fatto mettere in libertà, cosa assolutamente assurda per un giudice come Paolo fare un’azione del genere, tant’è vero che poi ho cercato di documentarmi andando a cercare proprio nell’unica sua agenda che ci è rimasta, l’agenda grigia, e ho visto come nei movimenti di Paolo in quei giorni non sia assolutamente menzionata una visita alle carceri dove era detenuto questo personaggio. In più io ritengo che ci siano delle organizzazioni antimafia di grandi dimensioni e, io non ho paura di parlare, faccio riferimento a Libera, che potrebbero fare molto di più. Libera si presenta come l’associazione di tutte le associazioni antimafia. Io dico: non sono neanche stato invitato l’anno scorso a Bari alla manifestazione nazionale antimafia. Probabilmente non ci sarei andato proprio perché quando queste organizzazioni assumono queste dimensioni forse non fanno abbastanza attenzione a guardare chi viene invitato e se le persone invitate sono degne di stare lì dove si manifesta contro la mafia. Le posizioni che assumo da un po’ di tempo necessariamente devono andare non contro le istituzioni, ma contro chi le occupa, perché io ritengo che il più grosso vilipendio alle istituzioni sia il fatto che certe persone non degne di occupare quelle istituzioni, le occupano. Allora il fatto che io debba necessariamente, per forza di cose, per quelle che sono le mie convinzioni sulla strage del ’92, andare ad attaccare delle persone che occupano le istituzioni viene visto da certe organizzazioni come qualche cosa di dirompente, qualcosa che non può essere mostrato. E di conseguenza io non sono stato invitato a quella manifestazione ed è successo un caso quest’anno quando dopo essere stato invitato a Crema – non mi ricordo se Crema o Cremona – a parlare nell’ambito della Carovana Antimafia è arrivato il volantino senza il mio nome. Probabilmente perché non ero abbastanza presentabile, proprio per questo mio atteggiamento. Io credo che queste cose fanno veramente pensare: forse ad un certo punto le organizzazioni antimafia quando crescono troppo devono salvaguardare certi equilibri e io queste cose le ho dette anche recentemente ad un incontro che ho avuto con Nando Dalla Chiesa, e l’ho detto in maniera franca. Io mi aspetterei da Libera che assuma certi atteggiamenti molto più forti in certe situazioni a fronte di certi fatti che accadono in Italia, invece siamo sempre i soliti: io, Sonia Alfano, Benny Calasanzio, l’organizzazione Dei Georgofili, che assumono atteggiamenti netti e decisi. Non voglio dimenticare anche mia sorella, tant’è vero che non mi risulta che mia sorella attualmente sia in rapporti idilliaci con Libera.

Non ti capita mai di sentirti solo in questa battaglia?

– Ma io, probabilmente per il fatto che vado tanto in giro e incontro tanti giovani e tante persone che della lotta alla mafia hanno fatto un loro impegno ben preciso e costante – e io vengo invitato in tutta Italia non sicuramente dalle istituzioni ma da gruppi autonomi di ragazzi, da ragazzi dei licei, ragazzi delle scuole, dai meet up di Grillo – mi sento meno solo, cosa che forse se non avessi questi incontri costanti con questo tipo di persone probabilmente mi potrebbe succedere.

Quale potrebbe essere il consiglio che ti sentiresti di dare alla gente che vive di televisione , alla gente che ogni 19 luglio prova una commozione autentica nel vedere al TG, se lo faranno quest’anno, il servizio sulla morte di Paolo? Qual è lo scatto che manca per avere veramente una nuova partigianeria, nel senso di prendere in modo deciso e netto e intellettualmente onesto una parte?

– Guarda, quando faccio questi incontri con i giovani e anche con gli adulti alla fine qualcuno mi viene a dire: “mi sono commosso”. Io forse in maniera troppo brusca gli dico che se si è commosso allora io non sono riuscito a fare quello che intendevo fare. Perché io in questi incontri con la gente intendo far indignare le persone, intendo fargli suscitare una rabbia contro quello che è lo stato del nostro paese. Quello che invece qualcun altro vuole fare è proprio di limitare le memorie di Paolo alla commozione una tantum in occasione delle cerimonie di commemorazione o altro. Questo è quello contro cui mi ribello, questa è una ben precisa strategia e proprio a fronte di questo io ho organizzato questa manifestazione quest’anno in via D’Amelio il 19 luglio per impedire che la gente vada lì a commuoversi, per impedire che i soliti avvoltoi vengano lì a celebrare la morte di Paolo Borsellino. Il consiglio che posso dare alla gente è quello di spegnere la televisione e di non leggere i giornali e invece di informarsi in maniera autonoma come infatti per fortuna fanno oggi tanti giovani. È vero che esiste anche la massa di giovani che guarda il Grande Fratello e purtroppo questo mi viene detto da quei giovani impegnati che incontro, dicono di sentirsi certe volte un po’ isolati perché cercano di diffondere queste cose e si sentono rispondere: “no guarda che devo registrare il Grande Fratello”. Purtroppo è vero che questo problema esiste, però io dico che nelle nuove generazioni soprattutto c’è una tendenza a non accettare questa informazione così come viene propinata per cercare di addormentare l’opinione pubblica, per addormentare le menti, e a cercare invece di informarsi direttamente. Il consiglio che posso dare alla gente è proprio questo: leggere, leggere il più possibile, informarsi in maniera autonoma e quindi in questa maniera conoscere quella che è la verità. Poi certe cose verranno autonomamente, verranno come diretta conseguenza del fatto che la gente sa, che la gente conosce. Io mi accorgo che c’è una grossa ignoranza in giro, c’è la strategia di fare dimenticare, addirittura di cancellare le nostre memorie, che è quello che viene fatto: si cerca di cancellare la memoria della Resistenza, si cerca di cancellare la stessa Costituzione o per lo meno di stravolgerla. La strategia, purtroppo, è una strategia che sta dando i suoi frutti e che in questo momento purtroppo è vincente. Bisogna incitare la gente a reagire a questa strategia, a non perdere la propria memoria, a informarsi. Quando vado in giro a parlare oggi di agenda rossa e di Castel Utveggio spesso la gente rimane stupita. Mi confessa di non conoscere assolutamente queste cose. Se la gente conoscesse che cosa c’è dietro la strage del ’92 forse reagirebbe in maniera diversa. E forse oggi non saremmo nel terribile stato in cui siamo.

Ma tu sei ottimista?

– Io non mi posso definire ottimista, nel senso che se non altro penso che della mia lotta per la giustizia e per la verità credo che non riuscirò a vedere i risultati. Io credo che me ne andrò da questo mondo ancora continuando a lottare, e lo farò fino all’ultimo giorno, per la verità e per la giustizia. Ma credo che non riuscirò a vedere i risultati di questa mia piccola lotta che spero non sia solo mia. Però se continuo a farlo vuol dire che credo – e lo credo fermamente – che le nuove generazioni, le generazioni che verranno, riusciranno a sentire quel fresco profumo di libertà di cui Paolo parlava e per cui Paolo è morto.

Radio Mafiopoli 22 – Pino Maniaci per fortuna non c’ha la camorra

ASCOLTA LA PUNTATA
Pino è un Don Quijote  ma i mulini sono cambiati come cambiano i tempi: hanno facce, mani, testa, voce, ferro in tasca, soldi in borsa e avvocati. avvocati bravi, pagati bene. Il mulino che gli è rimasto più di traverso è la Distilleria Bertolino: una distilleria che inquina come vomito di Polifemo sopra Partinico.
Pino è come il calcare, ostinato fino ad indurirsi tanto da fargli male. Di quelli che sorseggiano il gusto di “battersi” come all’inizio di un aperitivo che probabilmente finirà male. Pino appena fuori dal cancello della Bertolino, a fotografarlo dall’alto, è piccolo come un tombino.
Pino è un rubinetto rotto: lavora per erosione, ai fianchi e alle spalle con una televisione larga come un cesso ma che suona martellate di artigianato fino e continuo.
Pino è un immoderabile: nel dubbio getta l’amo ma sempre con la sua faccia in mano.
Pino è la zucca di Cenerentola: si veste sguincio da cerimonia ma non si appiattisce al diktat del valzer della moderocrazìa.
Pino è mezzo nei guai, per una condanna che aggiunta alle altre lo fa arrivare lungo. Ma nei guai ci nuota bene. Perché a mare ci buttiamo in tanti che, poco poco, organizziamo un quadrangolare di pallanuoto.
Perché a raccogliere palle in rete ci abbiamo fatto il callo, ma siamo forti nel contropiede.
Pino qualcuno vorrebbe farlo stare zitto. Coprirlo, magari con le ingiurie o magari con il cemento.
[CEMENTO dal libro di Sergio Nazzaro IO, PER FORTUNA C’HO LA CAMORRA Fazi Editore]

INFO

http://www.antimafiaduemila.com/content/view/13264/48/

http://www.fazieditore.it/scheda_libro.aspx?l=1070

Acqua, un affare che scotta

Il business del secolo in Sicilia

Come gruppi economici e consorterie territoriali stanno appropriandosi delle risorse idriche di una regione che possiede tanta acqua mentre, per paradosso, ne patisce endemicamente la mancanza. La presenza discreta della multinazionale spagnola Aqualia. Le strategie della società catanese Acoset. L’anomalia del sudest.

In Sicilia i processi di privatizzazione dell’acqua che vanno dipanandosi negli ultimi anni si raccordano con una tradizione composita. Se si dà uno sguardo alla storia post-unitaria, si constata infatti che l’accaparramento delle fonti, delle favare per usare il termine di derivazione araba, ha scandito con regolarità l’evoluzione legale e illegale dei ceti che hanno esercitato dominio sull’isola. Il controllo delle acque ha consentito di lucrare rendite economiche e posizionali importanti, di capitalizzare, di chiamare a patti le autorità pubbliche, di condizionare quindi gli atti dei municipi, degli enti di bonifica, di altre istituzioni. E il canovaccio di tale affare, di rilievo appunto strategico, ancora oggi rimane tale, benché si faccia uso di strumenti e progettazioni non più a misura di un mondo agrario più o meno statico, ma di una realtà in profonda evoluzione, sullo sfondo delle economie globali. Si tratta di comprendere allora i modi in cui si coniugano oggi i due elementi, innovazione e tradizione, a partire comunque dal dato che anche in Sicilia si vive al riguardo un passaggio epocale, dopo il lungo tragitto delle aziende municipalizzate, che sempre e comunque hanno dovuto fare i conti con i signori delle fonti.
Nel quadro dei processi generali che hanno reso l’acqua una risorsa economica, una merce, che chiama in causa multinazionali potenti come Suez, Vivendi, Impresilo, RWE, la legge Galli del 5 gennaio1994 sugli ambiti territoriali ottimali, ATO, ha segnato una svolta rispetto al passato, puntando a eliminare la frammentazione che fino a quel momento aveva caratterizzato la gestione idrica nel territorio nazionale. Pur sottolineando sin dall’incipit il rilievo dell’acqua quale bene pubblico, ha posto nondimeno le basi per l’irruzione dell’interesse privato nella gestione dei servizi idrici degli ATO, con il ricalcolo di tale risorsa sotto il profilo economico. E tutto questo, se, come si diceva, non poteva non sommuovere, in senso lato, l’interesse della grande finanza, come testimonia negli ultimi anni il coinvolgimento di banche come l’Antonveneta, la Fideruram e altre ancora, ha finito con il sollecitare una pluralità di interessi, con l’esaltare anomalie esistenti e generarne di nuove, specie nel sud della penisola e in Sicilia, dove l’economia più di altrove è inficiata da mali strutturali, dove vigono appunto tradizioni tipiche, che rendono ineludibile l’ipoteca delle consorterie.
La posta in gioco in Italia è ovviamente altissima, potendo comprendere, fra l’altro, gli ingenti finanziamenti a fondo perduto che l’Unione Europea ha destinato a tali ambiti, perché vengano eliminati i gap che interessano il paese. Tanto più lo è comunque in regioni in cui le strutture e gli impianti esistenti scontano deficit strutturali, consolidatisi lungo i decenni. È il caso della Sicilia, dove l’EAS e le municipalizzate hanno gestito regolarmente impianti obsoleti, dove quasi tutti gli invasi recano vistosi segni d’incuria, le infrastrutture restano esigue, le condutture fatiscenti e in una certa misura da rifare. Il progetto di privatizzazione nell’isola ha potuto quindi fregiarsi di un obiettivo seducente, quello della modernizzazione dei servizi idrici che, dopo anni di attesa interlocutoria, è stato agitato come una sorta di rivoluzione dal governo regionale di Salvatore Cuffaro. E dal decisionismo, sufficientemente mirato, del ceto politico di cui l’ex presidente conserva in una certa misura la rappresentatività, corroborato comunque dai trasversalismi che insistono a connotare la vicenda pubblica nella regione, ha preso le mosse, negli ultimi anni, una sorta di caccia all’oro.
L’affare dell’acqua reca in Sicilia dimensioni inedite. Sono in gioco infatti 5,8 miliardi di euro, da amministrare in trenta anni, con interventi a fondo perduto dell’Unione Europea per più di un miliardo di euro. Dopo un primo indugio, dettato presumibilmente da ragioni di cautela, che ha visto comunque diverse gare andare a vuoto, la scena si è quindi movimentata, con l’irruzione di importanti realtà economiche, interne all’isola ed esterne. Una fetta cospicua dell’affare è stata avocata dalla multinazionale francese Vivendi, socia di maggioranza della Sicilacque spa, che, dopo la liquidazione dell’Ente Acquedotti Siciliani, ha ereditato la gestione di 11 acquedotti, 3 invasi artificiali, 175 impianti di pompaggio, 210 serbatoi idrici, circa 1.160 km di condotte e circa 40 km di gallerie. In diverse ATO si è già provveduto, altresì, alle assegnazioni. Nell’area di Caltanissetta si è imposta Caltaqua, guidata dalla spagnola Aqualia. A Palermo e provincia ha vinto il cartello Acque potabili siciliane, di cui è capofila Acque potabili spa, controllata dal gruppo Smat di Torino. Nell’area etnea la guida del Consorzio Ato Acque è stata assunta dalla catanese Acoset. Ad Enna ha vinto Acqua Enna spa, comprendente Enìa, GGR, Sicilia Ambiente e Smeco. A Siracusa vige la gestione mista della Sogeas, che vede presenti, con l’ente municipale, la Crea-Sigesa di Milano e la Saceccav di Desio. Ad Agrigento è risultata aggiudicataria la compagine Agrigento Acque che fa capo ancora ad Acoset. Negli altri ATO le gare rimangono sospese.
È la prima fase ovviamente, quella dei grandi appalti, che è preoccupante non solo per la virulenza con cui i poteri economici incalzano e mettono in discussione le istanze della democrazia, degradando un bene comune qual è l’acqua a merce, ma, di già, per i modi in cui evolvono le cose, in ossequio appunto a una data tradizione. In relazione più o meno diretta con grandi società estere e italiane interessate all’affare Sicilia, vanno muovendosi infatti ambienti economici discussi, a partire dai Pisante, le cui imprese risultano inquisite dalle procure di Milano, Monza, Savona e Catania per una varietà di reati: dal pagamento di tangenti all’associazione mafiosa.
Già coinvolta nell’isola in vicende legate agli inceneritori, tale famiglia si è mossa con intenti strategici. Si è inserita, tramite la controllata Galva spa, nel raggruppamento guidato da Aqualia, per la gestione idrica nel Nisseno. Partecipa con un buon 8,4 per cento alla società aggiudicataria nel Palermitano, Acque potabili siciliane spa. Tramite le società Acqua, Emit, e Siba detiene una discreta quota azionaria di Sicilacque che, come detto, ha rilevato dall’EAS il controllo delle grandi risorse idriche regionali. Ancora per mezzo della Galva partecipa altresì alla compagine vincente nell’Agrigentino, Girgenti Acque, di cui è capofila Acoset, che con Aqualia ha concorso in varie province. Ha invece perso nel Catanese, perché, l’AMGA spa, capofila della compagine entro cui correva, in competizione con Acoset, per l’aggiudicazione dell’ATO 2, è stata esclusa dalla gara.
Nelle mappe dell’acqua assumono altresì rilievo due noti imprenditori siciliani: l’ingegnere Pietro Di Vincenzo di Caltanissetta e l’ennese Franco Gulino, che vanno facendo non di rado gioco comune, pure di concerto con i Pisante. Il primo, cui sono stati confiscati beni per circa 300 milioni di euro, ha assunto la gestione dei dissalatori di Trapani, Gela, Porto Empedocle, Lipari e Ustica, indubbiamente strategica. È stato l’unico offerente nella gara per la gestione idrica di Trapani, poi sospesa. In competizione con le imprese di Caltaque, ha corso altresì per l’appalto ATO di Caltanissetta, dentro la compagine NissAmbiente, che comprendeva pure l’Altecoen di Franco Gulino. Quest’ultimo poi. Proprietario di un gruppo di quaranta società operanti in diverse regioni italiane, con interessi pure in Sud America, è stato rinviato a giudizio a Messina per concorso esterno in associazione mafiosa, per l’affare dei rifiuti di MessinAmbiente, che tramite l’Emit ha coinvolto pure i Pisante. Con l’Altecoen, che la stessa Corte dei Conti siciliana ha definito nell’aprile 2007 un’azienda “infiltrata dalla criminalità mafiosa”, si è introdotto nell’affare dei termovalorizzatori, per uscirne con ingenti guadagni. Ancora tramite l’Altecoen, è stato presente nella Sicil Power di Adrano, insieme con la DB Group, presente nei raggruppamenti guidati dalla catanese Acoset.
Tutto questo definisce evidentemente un ambiente, che fa da sfondo peraltro a fatti e atteggiamenti ancor più preoccupanti. Si tratta del lato più oscuro del processo di privatizzazione, di cui emergono un po’ le coordinate nelle dichiarazioni di un reo confesso, Francesco Campanella, ex presidente del consiglio municipale di Villabate, sulla costituzione del consorzio Metropoli Est, finalizzato al controllo delle acque in alcuni centri del Palermitano. Fatti sintomatici si rilevano comunque in quasi tutte le aree dell’isola: dall’Agrigentino, dove i sindaci di Bivona e Caltavuturo hanno denunciato le logiche dubbie invalse negli appalti di manutenzione, a Ragusa, dove sin dagli inizi della vicenda ATO è stato un crescendo di atti intimidatori. E si è ancora agli esordi.
In linea con le consuetudini, vanno delineandosi in sostanza due livelli: quello della gestione idrica in senso stretto, conteso da multinazionali e grandi società del settore, non prive appunto di oscurità, e quello dell’impiantistica, lasciato in palio alle consorterie territoriali, che recano ragioni aggiuntive, oggi, per porsi all’ombra di poteri estesi e ineffabili. Un quadro definito degli interessi potrà aversi comunque con l’entrata nel vivo degli ammodernamenti, nella danza di bisogni e pretese che sempre più verrà a stabilirsi fra appalti e subappalti. Solo allora l’obolo alla tradizione verrà richiesto con ampiezza: quando in profondo si tratterà di fare i conti con il privato che cova già nei territori, quando si tratterà altresì di saldare i conti con la parte pubblica, in sede municipale, provinciale, regionale.
In questa fase, in cui alcuni raggruppamenti recano caratteri di veri e propri cartelli, la logica prevalente rimane quella delle concertazioni a tutto campo, che traspare, fra l’altro, in certi movimenti mirati, prima e dopo le aggiudicazioni: tali da pregiudicare talora la linearità delle gare. Un caso esemplare, che ha avuto pure risvolti parlamentari, con una interpellanza del deputato Filippo Misuraca, è quello di Caltanissetta, dove la IBI di Pozzuoli, capofila della compagine esclusa dalla gara ATO, ha presentato ricorso contro Caltaqua, per ritirarlo appena avuta l’opportunità di inserirsi, con l’Acoset di Catania che l’affiancava, nel gruppo assegnatario, attraverso l’acquisizione di una quota cospicua dalla Galva del gruppo Pisante. Tutto questo, a dispetto delle leggi e delle direttive comunitarie, che vietano qualsiasi modificazione all’interno delle compagini vincenti.
Il processo di privatizzazione in Sicilia non sta recando comunque un decorso facile. Ha suscitato tensioni politiche, tali da rendere difficoltose le aggiudicazioni, mentre ha agitato la protesta delle popolazioni, allarmate dai rincari dell’acqua che ovunque ne sono derivati. Per tali ragioni a Trapani e Messina le gare rimangono sospese, con rischi di commissariamento dei rispettivi ATO, mentre a Ragusa si è arrivati addirittura a un ripensamento, per certi versi un dietro-front, che ha coinvolto gran parte dei sindaci dell’area. E proprio la vicenda di quest’ultima provincia segna nel processo una vistosa anomalia.
Sotto il profilo economico, il sudest, da Catania alla provincia iblea, reca tratti distinti. È la sede principale delle colture in serra, lungo i percorsi della fascia trasformata. È area d’insediamento di grandi centri commerciali, con poli importanti a Misterbianco, Siracusa, Modica e Ragusa. È territorio di una banca influente, la BAPR, che riesce a collocarsi oggi, per capitalizzazione, fra le prime venticinque banche in Italia. In virtù dell’integrazione cui può godere, sempre più va facendosi altresì un’area di forte interlocuzione economica, a tutti i livelli, con risvolti operativi non da poco. Se ne hanno riscontri nella politica concertata dei poli commerciali, quelli indicati appunto, e tanto più negli accordi strategici che vanno maturando nel mercato immobiliare, nella grande distribuzione alimentare, nel mercato ittico, nella costruzione di opere pubbliche, infine, dopo la svolta della legge Galli e le sollecitazioni dal governo regionale, nello sfruttamento privato delle acque. In quest’ultimo ambito infatti la catanese Acoset, ponendosi a capo di un raggruppamento coeso, ha deciso di guadagnare terreno oltre il territorio etneo, mentre la Sogeas di Siracusa, pur avendo introdotto soci privati, cerca di mantenere, al momento, un contegno più prudente.
Negli ultimi anni la società catanese è stata al centro di numerose contestazioni, da parte di enti e comitati di cittadini che ne hanno denunciato, oltre che i canoni esosi, le carenze di controllo. Il caso più clamoroso è emerso nel 2006 quando nell’acqua da essa erogata in diversi centri sono state rilevate concentrazioni di vanadio nocive alla salute. La Confesercenti di Catania è intervenuta con esposti ad autorità competenti e al Ministero della Salute. Il comune di Mascalucia ha aperto in quei frangenti un contenzioso, negando la potabilità dell’acqua. Per la mancata erogazione in alcuni centri, l’azienda è stata inoltre censurata dal Codacons e, in un caso almeno, è stata indagata dalla magistratura etnea. A dispetto comunque di simili “incidenti”, che definiscono il piglio dell’azienda mentre incrinano, in senso lato, le sicurezze sulle qualità del servizio privato, l’Acoset, potendo contare su alleati idonei, ha assunto i toni e le pretese di un potere forte.
Nata nel 1999 come azienda speciale, che ai fini della gestione idrica consorziava venti comuni pedemontani, l’impresa presieduta dal geometra Giuseppe Giuffrida si è trasformata nel 2003 in società per azioni, con capitale pubblico e privato. Nello slanciarsi lungo la Sicilia, ha stabilito rapporti con ambienti economici mossi. Nella compagine di Girgenti Acque, di cui è capofila, ha associato la Galva del gruppo Pisante e una società che fa capo alla famiglia Campione, discussa per vicende che ne hanno riguardato un componente. Nel medesimo tempo, con le movenze tenui che accomunano tante imprese dell’est siciliano, l’Acoset è riuscita ad aver voce negli ambiti decisionali che più contano nell’isola. Un test viene ancora dall’Agrigentino, dove, malgrado l’opposizione di ventuno sindaci, che avevano chiesto l’annullamento dell’aggiudicazione, la società catanese è riuscita a mettere le mani comunque sull’affare idrico, con la condivisione forte del presidente provinciale degli industriali, Giuseppe Catanzaro, del direttore generale in Sicilia dell’Agenzia regionale per i rifiuti e le acque, Felice Crosta, del presidente della regione Cuffaro.
Pure i numeri sono quindi divenuti quelli di un potere in evoluzione. Quale socio privato dell’ATO 2 di Catania, l’impresa eroga l’acqua a 20 comuni etnei, per circa 400 mila abitanti. Da capofila della società Girgenti Acque ha sbaragliato potenti società italiane ed estere, come Aqualia appunto, aggiudicandosi un affare che le farà affluire in trenta anni 600 milioni di euro, di cui circa 100 milioni dall’Unione Europea. Con una quota minima, ceduta dalla Galva dei Pisante, risulta presente nel gruppo Caltaqua, aggiudicatario della gestione idrica del Nisseno. Sin da quando si è profilato il business della privatizzazione, con un raggruppamento d’imprese che comprende pure la BAPR, ha deciso di puntare altresì a sud, gareggiando ancora con la multinazionale iberica, per assicurarsi la gestione dei servizi idrici di Ragusa, che recano una posta di oltre mezzo miliardo di euro, di cui circa 100 mila della UE. Se avesse centrato tale obiettivo oggi avrebbe in pugno un quinto circa dell’intero affare siciliano.
I giochi apparivano fatti. Delle tre società concorrenti, Saceccav, Aqualia e Acoset, la prima, che concorreva già per insediarsi all’ATO di Siracusa, è stata esclusa dalla gara per motivi che sono apparsi sospetti, tali da indurre uno dei commissari, il prof. Francesco Patania, a dimettersi e presentare un esposto alla procura di Ragusa. La seconda, che di lì a poco avrebbe avocato a sé la gestione idrica del Nisseno, per certi versi si è ritirata perché non ha risposto all’invito della commissione di dichiarare se persisteva il suo interesse alla gara. La compagine di Acoset, che al medesimo invito ha risposto affermativamente, aveva quindi ragione di sentirsi vincitrice. Le cose sono andate tuttavia in modo imprevisto. La maggioranza dei sindaci, che nel giugno 2006 si erano espressi a favore della gestione mista, pubblico-privata, nella seduta del 26 febbraio 2007 hanno deciso di avviare infatti la procedura di annullamento della gara perché difforme alle direttive dell’Unione Europea. E il 2 ottobre del medesimo anno la gara è stata annullata. Ma perché è avvenuto tale ripensamento e, soprattutto, quali giochi reggevano, e reggono tutt’ora, l’affare acqua del sud-est?
Lo schieramento di Acoset per l’ATO di Ragusa reca conferme di rilievo e qualche accesso. Rimane forte la presenza catanese, con Acque di Carcaci, Acque di Casalotto e la COESI Costruzioni Generali. Con opportuni scambi posizionali vengono altresì confermate, perché strategiche, due presenze: la IBI di Pozzuoli, con cui nel Nisseno la società catanese ha condotto l’operazione di trasbordo in Caltaqua, che ha suscitato allarme nella Sicilia tutta e prese di posizione parlamentari; la DB Group che, tramite la Sicil Power, costituisce un punto di contatto fra l’Acoset e il gruppo di imprese che fa capo alla famiglia Pisante. Inedita è invece, ma pure sintomatica, la partecipazione della BAPR, che meglio di ogni altra realtà compendia il potere finanziario del sudest. La banca iblea ha fatto una scelta anomala, per certi versi controcorrente, dal momento che nessun altro istituto di credito dell’isola ha deciso di porsi in campo. Ma l’ha fatta a ragion veduta.
Nel quadro degli scambi che vigono nell’est siciliano, la BAPR costituisce una presenza di peso, in grado di interloquire con tutte le economie, a partire comunque da quelle legate all’edilizia e all’innovazione agricola. Reca una dirigenza solida, attenta alla tradizione, non priva tuttavia di impeti modernistici, che tanto più si avvertono nell’attivismo di Santo Cutrone, consigliere di amministrazione, costruttore, componente della giunta CCIIA di Ragusa, vice presidente siciliano dell’ANCE. Forte dei ruoli rivestiti, Cutrone ha potuto stabilire relazioni da vicino con l’imprendtoria catanese, inclusa quella legata all’acqua. Con la CG Costruzioni, di cui è proprietario, ha fatto affari comuni con l’ingegnere Di Vincenzo, con la costituzione di una ATI, associazione temporanea d’impresa, che ha concorso in numerose gare, dal comune Misterbianco al porto di Pozzallo. Quale presidente provinciale dell’Associazione Nazionale Costruttori si è esposto in favore della privatizzazione dell’acqua a Ragusa, mentre, a chiusura del circolo, ha sostenuto nell’intimo della BAPR le ragioni, infine vincenti, della scesa in campo con Acoset.
In considerazione di tutto questo, i conti dell’acqua, nella declinazione del sudest, tornano con pienezza. La società guidata da Giuseppe Giuffrida, che ha accettato la sfida dei giganti europei, ha avuto buone ragioni per imbarcare la banca siciliana, ravvisando nel prestigio e nell’influenza della medesima una carta spendibile ai fini dell’aggiudicazione del mezzo miliardo di euro in palio. Dal canto suo la BAPR, sospinta dal protagonismo di Cutrone, si è risolta a rivendicare una propria ipoteca, la prima, sull’affare del secolo, sulla scia peraltro di taluni gruppi finanziari, per consolidare sotto la propria egida l’asse economico Ragusa-Siracusa-Catania. Come si evince dalle movenze, tutti i protagonisti della compagine, da Acoset a IBI, da DB Group all’istituto ibleo, hanno comunque ben chiaro che la conquista del centro-partita nella cuspide iblea può costituire un incipit per ulteriori affari, tanto più dopo lo scoccare del 2010, quando, con l’apertura dell’area di libero scambio, il territorio del sudest, in virtù dell’esposizione che reca sul Mediterraneo, diverrà strategico.
In definitiva, nella Sicilia più a sud si è giocato per vincere, a tutti i costi. Il coinvolgimento della BAPR ne è una prova. E Acoset, con le sue alleate, avrebbe vinto se, dopo la decisione assunta dai sindaci dell’ATO in favore della privatizzazione, nel giugno 2006, non fossero accaduti degli incidenti, privi di riscontro in Sicilia, per certi versi quindi imprevedibili. Un pugno di ragazzi, fondatori di un giornale in fotocopia, “Il clandestino”, hanno deciso di mettersi di traverso, suscitando una resistenza corale, che ha incrociato lungo il suo cammino Alex Zanotelli, l’Antimafia di Francesco Forgione, il Contratto Mondiale dell’acqua di Emilio Molinari, la CGIL di Carlo Podda. Dalle cronache, in Sicilia e nel paese tutto, la storia è stata registrata come una esperienza esemplare, cui si sono coinvolti dirigenti sindacali come Tommaso Fonte, Franco Notarnicola, Nicola Colombo e Aurelio Mezzasalma, esponenti politici come Marco Di Martino, esponenti dell’associazionismo come Barbara Grimaudo. La battaglia dell’acqua, nel sudest siciliano, rimane comunque aperta, con i poteri forti che insistono a lanciare i loro moniti, mentre vanno preparandosi all’ultimo decisivo assalto.

Carlo Ruta

da NARCOMAFIE – Gennaio 2009

Radio Mafiopoli 16 – Non c’è niente da ridere

Attenzione attenzione! Attenzionatevi! Radio Mafiopoli è inciampata per sbaglio in quel di Palermo. Sempre falsa, fastidiosa, strumentalizzante, strumentalizzabile, sciantosa, sciatta e menefreghista. È inciampata davanti alla Focacceria di San Francesco, anche se Radio Mafiopoli non è santa, ma nemmeno puttana. C’era gente, gentaglia, saccheggiatori di memoria e fastidiosi portatori unici di antimafia certificata. E dietro uomini, donne, ragazzi, contestatori, amatori, illusi e disillusi. Ma tanti. Lì per sbaglio, di sicuro, perchè l’altra strada era un senso unico. Senso unico convinto, creduto e voluto; come il nostro, alla Radio Mafiopolitana.

Radio Mafiopoli 14 – Discorso di Fine Anno

Assessore alla segreteria degli affari dei segretari.

Cari e meno cari concittadini dei cittadini amicali per gli amici, cari. Anche quest’anno è finito. E la giunta congiunta di mafiopoli come tutti gli anni vuole augurarvi e malaugurarvi i propri auguri per l’anno che se ne va. Grazie prego tornerò bumbum. E con grande onore che introduco il discorso annuale ed è con grande onore che il mio pensiero rivolgo a tutti quelli che non possono essere qui con noi. Rapiti da uno stato giustizialista e condannati nelle diverse carceri a dover ascoltare dietro le sbarre i botti degli altri. Che è la peggior condanna. Chissà bumbum bagarella come gli prudono le mani. O peggio ancora i nostri compari rapiti da una politica giustizialista che li costringe ad ascoltare i botti degli altri alla bouvette del parlamento. Chissà a cuffaro come gli prude il cannolo. Rubo l’ultimo minuto per augurarvi un anno pieno di collusioni, compromessi, pittoresche intimidazioni, coscienze prostituite e panelle ben cotte. Grazie prego tornerò bumbum.Leggi tutto »Radio Mafiopoli 14 – Discorso di Fine Anno

Radio Mafiopoli 13 – Natale con i buoi

NATALE CON I BUOI

Caro Babbo Natale,
mi chiamo Luigino, quest’anno la letterina di Natale il mio babbo mi ha detto di scrivertela a te e non più ad Andreotti come gli anni scorsi perché ormai, dice il babbo,  quello è fuori di testa e rischiamo che ci arrivi ancora sotto l’albero il sottobicchiere con la faccia di Gelli che il mio fratellino c’è rimasto così male che ha frignato fino ai primi d’aprile. Io gli ho detto al babbo – allora scriviamola al presidente del consiglio! – ma lui dice – lascia perdere… che con il cognome che ci chiamiamo capisce subito che siamo terroni e comunisti e ci regala un corso intensivo di conversione alla fede di Emilio Fede. E io non ho capito se la fede è quella di Fede o intendesse la fede quella maiuscola o la maiuscola era per fede, ma il babbo mi ha detto di smetterla che oramai sto natale ci ha anche la fede, in cassa integrazione.  Allora scriviamola alla minoranza che ci può aiutare! – gli ho detto. E lui ha cominciato a diventare tutto rosso e paonazzo e a ridere come un ossesso che si è subito bevuto con la mamma un bel bicchiere di rosso in due… erano anni che non lo vedevo andare a letto così felice e contento. Allora caro Babbo Natale quest’anno la scrivo a te la letterina, che ormai come dice mio papà sei il candidato più accreditato per farci uscire dalla crisi.
Quest’anno giù a Mafiopoli ci hanno detto a scuola che sarà un natale di crisi nera:  che neanche ci hanno avuto i soldi per stamparci i manifesti per prometterci  più acqua per tutti che facevano tanto aria di natale anche se non ci credeva più nessuno, perché a natale alla fine è il pensiero che conta.
Se passi da Palermo mandaci giù dal camino ai miei amici mafiopolitani uno di quei libri dell’autogrill su come gestire ottimizzati l’azienda 2.0 e tutte quelle storie lì. Perchè proprio in questi giorni la polizia ci ha fatto 99 ingabbiati che volevano rimettere in piedi la nuova commissione mafiopolitana come ai bei tempi di Riina ‘u Curtu (che il babbo dice che era una specie di parlamento ma molto più silenzioso e con gli scuri alle finestre molto più scuri). Ecco se passi di lì almeno s’imparano che se si mettono a fare la commissione in 99 succedono quei naturali problemi di convivenza tipici della democrazia. Pensa, Babbo Natale, che a capo della commissione antiantimafia questi gran geni dei boss ci volevano metter Bernardo Capizzi si vede perché ci aveva il cognome di uno che aveva già capito tutto,  ed è un bel giovanotto di 64 anni. Papà dice che deve essere proprio l’anno santo dei rinnovamenti a favore dei giovani in tutti i campi, questo. Ecco se tu ci regali un bel manuale a questi bei boss mafiopolitani magari cominciano a capirci un po’ di più e magari anche a curare un po’ di più l’immagine e ad affittarsi una sala riunioni decente senza riunirsi sempre in queste casupole tutte sgarruppate con l’arbre magique alla ricotta che viene la tristezza nelle ossa solo a guardarle. Se riesci e non è troppo disturbo a Riina U’Curtu il libro  portaglielo solo con le figure, altrimenti si incaglia al primo congiuntivo che dice che i congiuntivi sono il vero problema di Mafiopoli e che li hanno inventati i comunisti. E se vuoi proprio esagerare e fare un figurone, Babbo Natale, a Zu’ Binnu Provenzano portaglielo su una bella carta intestata a forma di bibbia, che sono così sicuro al cento che si commuove perché ci ha il cuore commuovibile, mica solo la prostata. E magari salutami Raccuglia e Messina Denaro, perchè babbo mi dice che sei l’unico che ha il loro numero di telefono. Perché, dice babbo, quella è gente che se ha bisogno di solito ti chiamano loro.
Se passi da Napoli butta giù un altro problema a caso di quelli tuoi che c’hai nel sacco. Così ci dimentichiamo presto anche questi ultimi e li spediamo insieme a tutti gli altri nella discarica della distrazione. E visto che ci sei, se puoi controllare nel tuo mazzo di chiavi delle porte di tutto il mondo guarda se ti avanzano quelle per la discarica, giù a Chiaiano: che siccome è un posto non pericoloso e sotto controllo come continuano a dirci magari, visto che sono così sicuri e ci rassicurano, gli prepariamo il cenone sopra la montagnola. E voglio vederli che faccia fanno mentre si mangiano gli astici che diventano fluorescenti.
Da Gomorra puoi anche non passare, tanto lì ci passa qualcuno di Sandrocàn Schiavone a darci la mesata e a natale pure con la tredicesima. E poi se ti vedono in centro tutto rosso e con le renne ricominciano a frantumarceli che è colpa di Roberto e del suo libro e ricomincia la tiritera. E magari regala un fiore a Rosaria Capacchione, e prova a convincerla anche tu che in una Mafiopoli civile è normale dover vivere in freezer per aver scritto i fatti degli altri. Che sono sicuro che non ci crede ma almeno le strappi un mezzo sorriso.
Se passi da Buccinasco (occhio alle code in tangenziale) lascia nel camino del sindaco Cereda uno di quei pupazzi cinesi che gli tocchi il pancino e ripetono le parolacce quelleche non si devono mai dire: pipì, pupù, scemo e mafia. Così si tranquillizza e agisce con calma: nei beni confiscati ci può mettere gli uffici della commissione sull’assegnazione dei beni confiscati e ha risolto il problema, alla Macchiavelli, e a Saviano ci sarà poi tempo per dedicargli una via. Come nei paesi civili.
A Milano buttaci giù dal camino una commissione per l’immagine antimafia. Così almeno riescono a convincerci che una commissione antimafia legittima la mafia ed è dannosa, e magari riescono a convincerci anche che la mafia non esiste e il pluripregiudicato Marras che stava nel cantiere qui dietro al ConDuomo fiscale aveva preso un senso unico e stava semplicemente facendo manovra. Così come Liggio era in via Ripamonti perchè fanno lì il bitter campari come non lo sa fare nessuno. E magari ci facciamo anche uno scherzo. Ci scrivi in piazza Duomo che il santo expò è anticipato a settimana prossima, così noi ci mettiamo seduti sulle scale a guardarci bene chi arriva di corsa in comune suonare il campanello.
Caro Babbo Natale, per tutti gli altri facci due regali. Due palle, mica quelle di Natale, due palle di quelle non rimovibili e un sacco di schiene dritte, per sopportarci mentre non ce la facciamo a non dire che disonorarli è una questione di onore.
Per me, Luigino, Babbo Natale, non regalarmi niente, magari, se fosse possibile, vieni a riprenderti qualcuno di questi politici che ci hai portato l’anno scorso e che a me e al mio fratellino ci sembrano un po’ scassati, e magari visto che hanno solo un anno, magari sono ancora in garanzia.

Radio Mafiopoli 11 – ANTIMAFIA CERTIFICATA ISO 9001

Ce l’ha insegnato uno mica da niente, dico a Mafiopoli il primo professore dell’Antimafia, eletto onorato venerabile, è stato il Marcello Dell’Utri. Detentore unico monopolista dell’antimafia in tutte le sue declinazioni, anche senza eventuali preposizioni. A Mafiopoli è andato in onda sul tiggì internazionale delle veline abbagasciate. Il tiggì che si apre con l’angelus e si chiude sul badedas. E Dell’Utri, del mandamento di Montecitorio, in due parole condensa il senso del suo dire al suo ingelloso intervistatore, l’antimafia? Dice arricciandosi il naso sulla radio frequenza elettorale…
[intervento Dell’Utri “L’antimafia è un brand”]
A Mafiopoli l’antimafia l’hanno conosciuta nell’anno mille e non più mille della promozione dei pandori. Un giorno santo, un giorno mammasantissimo che ha aperto le acque, innalzato le acque e rotto le acque.
Dal libro dell’esodo dalla legalità 19:1-25 bum bum.
Era quello il giorno che il Campanella della famiglia dei campanelli della stirpe dei dlin dlon conduceva il suo popolo per il Sinai. Campanella veniva all’Egitto dalla terra santa di Villabate, dal consiglio comunale come aveva voluto la profezia di Re Magio Provenzano. Lì aveva seminato la parola sacra dell’antimafia con un premio in pubblica piazza al figliuol prodigo Roul Bova e con l’altra mano preparato a colpi di scolorina il testo sacro della carta d’identità di Ziu Binnu. Alziamo il cuore Ziu Binnu…. Campanella si era congiunto con la sua sposa secondo i sacri riti dei puliti di cuore. Con Mastella e Cuffaro chierici di nozze. Alziamo il cuore a Cuffaro… poi Campanella mafiuso dell’antimafia era sudato e proprio quel giorno esso arrivò al deserto del Sinai. Campanella si accampanò davanti al monte e qui gli apparve il profeta Giuliano circondato da angeli in coppola bermuda e gli disse:
–    Campanella, zio nostro ti vuole parlare e svelare le leggi per distrarre il tuo popolo. Nel nome del padre, dello zio e dello zio di suo padre. E ci siamo capiti.
Fu così che due giorni e due notti dopo Campanella scese dal monte, con slittino e comunicato stampa, e davanti al suo popolo di popoli lanciò lo spot elettorale dei comandamenti antimafia mafiopolitana certificata iso 9001 odissea nello pizzo.
1-    Non esiste antimafia al di fuori di me se non la nostra di cosa nostra.
2-    La mafia è male ma i mafiosi non esistono. E quelli che c’erano sono tutti morti.
3-    Non desiderare la mafia d’altri.
4-    Onora comunque i tuoi politici, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dà il Signore nostro Zio.
5-    Non rubare l’antimafia d’altri.
6-    Esiste solo la mafia d’altri.
7-    Non turbare.
8-    Ricordati di santificare le ricorrenze istituzionali antimafiopolitane e solo quelle.
9-    Non commentare atti giudiziari impuri
10-    Non nominare alcun nome invano.
Grazie, prego, tornerò, bum bum.

Ecco, disse il Campanella, questo è quello che scolpì nei pizzi di pietra lavica lo Zio di Nostro Signore. Prendetene e mangiatene tutti e ricordate che la fede è un dono e la fedina è un condono. E fu così che andò e così è scritto nelle sacre scritture. E alziamo il cuore a Campanella, mafioso, antimafio, testimoniato e pure pentito: il bigino della storia d’Italia. Amen. Rendiamo grazie allo zio.
E così ora anche Mafiopoli ha la sua sana antimafia. Perchè “meglio l’antimafia oggi che la mafia domani!!” gridò il principe cacchiavellico all’inaugurazione del ponte da Messina al Paradiso. Per un’antimafia leggera, impotente, frigida e libera. Alla Paperolopolitana.
[Intervento Giuseppe Fava]
Enzo Biagi -Giuseppe Fava, giornalista, scrittore Catanese e autore di romanzi e opere per il teatro. Fava per i suoi racconti a cosa si è ispirato?
Giuseppe Fava – Alle mie esperienze giornalistiche. Io ti chiedo scusa ma sono esterrefatto dinnanzi alle dichiarazioni del regista svizzero. E mi rendo conto che c’è un’enorme confusione che si fa sul problema della mafia. Questo signore ha avuto a che fare con quelli che dalle nostre parti, come Sciascia giustamente dice, sono “scassapagliare”. Cioè delinquenti da tre soldi che esistono su tutta la faccia della terra. I mafiosi sono in ben altri luoghi e in ben altre assemblee. I mafiosi stanno in parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che adesso sono ai vertici della nazione. Se non si chiarisce questo equivoco di  fondo…cioè non si può definire mafioso il piccolo delinquente che arriva e ti impone la taglia sulla tua piccola attività commerciale. Questa è roba da piccola criminalità che credo ormai abiti in tutte le città italiane e in tutte le città erurope. Il problema della mafia è molto più tragico, molto più importante: un problema di vertice della gestione della nazione ed è un problema che rischia di portare alla rovina, al decadimento culturale definitivo l’italia.

Nuove dichiarazioni di solidarietà per l’attore Giulio Cavalli

Ieri (27 Novembre), durante la seduta alla Camera per discutere del decreto legge 1857, l’on. Luisa Bossa ha espresso solidarietà all’attore e autore teatrale antimafia Giulio Cavalli:

(…) Abbiamo letto stamattina che la giunta di destra di Milano ha negato la cittadinanza onoraria a Roberto Saviano, lo scrittore perseguitato dalla camorra. A Lodi, mentre era lì per uno spettacolo, Giulio Cavalli, nonostante viva sotto scorta, ha trovato scritte minatorie sulla sua auto. Milano chiama Lodi: comuni del nord. Non vi è alcuna preoccupazione per la vita di questi ragazzi (…).

Ieri pomeriggio è arrivato anche l’attestato di solidarietà da parte del responsabile dei giovani dell’Associazione Mafia Contro di Palermo, Giancarlo Russello: « a Giulio Cavalli va tutta la nostra solidarietà. Non fermarti davanti a gesti così ignobili e compiuti da anonimi codardi! »

Dopo le minacce mafiose a Cavalli, continuano ad arrivare attestati di solidarietà e di stima nei confronti dell’attore lodigiano. Oltre le rilevanti e già citate di mercoledì da parte di Giovanni Impastato, Paolo Rossi, Antonio Ingroia, Pino Maniaci, Leoluca Orlando, Carlo Lucarelli (tornato sull’argomento stamattina con un editoriale sull’Unità), Giuseppe Lumia, Sergio Nazzaro, Pino di Maula, Vito lo Monaco, Vincenzo Conticello e Rosario Crocetta, giungono quelle di:

Salvatore Borsellino, Benny Calasanzio: Non esprimiamo soltanto solidarietà, ma ci impegnamo a partecipare in prima persona agli spettacoli e alle manifestazioni che vedranno protagonista Giulio, coscienti che non debba essere prerogativa solo dello Stato proteggere Cavalli, ma anche impegno dei suoi spettatori e dei suoi colleghi, perché a queste minacce si deve rispondere con la partecipazione, con la diffusione del messaggio di Giulio.
Solo così minacciare uno come Cavalli diventerà controproducente. Giulio rappresenta la prosecuzione di quello che fu il messaggio di Peppino Impastato e mette a nudo la pochezza e la nullità di questa gentaglia senza arte né parte che si fa chiamare “d’onore”.
Se vogliono far del male a Giulio devono prima farlo ai suoi spettatori, e Salvatore Borsellino e Benny Calasanzio saranno in prima fila.

Carlo Lucarelli (dall’editoriale di questa mattina sul quotidiano L’Unità): Giulio Cavalli come Peppino Impastato ride di mafia, (…) così Giulio è sotto protezione da parte delle forze dell’ordine (…), allora non dimentichiamoci che siamo in Italia, perché è da un po’ che sta succedendo questa cosa, che oltre a quelli che stanno in prima linea nella lotta alla mafia, come magistrati, forze dell’ordine, amministratori e giornalisti, vengono minacciati e colpiti anche gli scrittori, anche gli attori, anche i giullari, oltre che i semplici
cittadini. E questo significa due cose. Che la cultura fa paura come la legge e l’informazione perché è lei stessa legalità e informazione.

Davide Enia (attore teatrale): sono assolutamente solidale con Giulio. Il fatto che stia rompendo i coglioni è indice della bontà del lavoro che sta facendo ed è altresì evidente che questo sia il nervo scoperto di un paese che disconosce la legalità e la correttezza. Giustizia e legalità non sono parole, ma prospettive. In quanto tali hanno una capacità di raccontare il presente e questo presente, è fatto di strada che puzza di pisci, eroina che è tornata nei quartieri e di mala amministrazione.

Lorenzo Guerini, Sindaco di Lodi e Andrea Ferrari, Assessore alla Cultura: la nuova minaccia che ha colpito la Bottega dei Mestieri Teatrali e l’attore Giulio Cavalli che da molti mesi portano avanti un importante progetto di controinformazione rispetto alla criminalità mafiosa è un fatto grave che preoccupa, anche per le modalità con cui è avvenuto e in territorio, quello lodigiano, sostanzialmente estraneo a simili episodi.
Il Comune di Lodi è stato tra i promotori principali insieme al Comune di Gela e alla Bottega dello spettacolo Do Ut Des che ha aperto una importante collaborazione tra due Comuni apparentemente distanti ma uniti dalla voglia di combattere la cultura della illegalità.
La nostra solidarietà non è quindi formale ma vuole sottolineare il nostro impegno a non lasciare solo chi tenta di aprire, anche al nord, una importante operazione di carattere culturale rispetto a dei temi che, troppo spesso, vengono sottovalutati.