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Antimafia

Gli insospettabili sospettati da sempre

Imponente operazione antimafia ieri in Calabria. Ne esce Vibo Valentia completamente assoggettata alla cosca dei Mancuso, ne escono cittadini lavoratori costretti a subire angherie di ogni tipo ed esce quella ‘ndrangheta che sembra essere completamente scomparsa dai radar delle agende politiche (ne parlavo proprio qui qualche giorno fa, che curiosa coincidenza) fatta di massoneria, mala politica e protezioni in alto.

Giancarlo Pittelli, ad esempio, a Catanzaro era (fino a ieri) uomo conosciuto e fin troppo riverito. Era lo stesso Pittelli che odiava pubblicamente De Magistris perché dodici anni fa aveva osato descriverlo in modo molto simile al suo ritratto che esce dalle carte dell’indagine coordinata da Gratteri. Più volte parlamentare di Forza Italia (e da poco passato a Fratelli d’Italia, come ogni buon annusatore del vento) è descritto come cerniera tra il mondo criminale e quello della politica, dell’imprenditoria, dell’università, sempre con la massoneria sullo sfondo. Eppure Pittelli a Catanzaro è il maestro di tanti avvocati che lo veneravano. Oggi, ovviamente, spariranno tutti: la caduta dei mostri sacri come Pittelli indica che sono cambiati i rapporti di forza.

L’ex vicepresidente della regione Nicola Adamo era anche lui nell’inchiesta di De Magistris di dodici anni fa. Altra sponda politica: ai tempi era il segretario regionale dei Ds. Poi è finito nell’inchiesta Eolo nel 2012, poi Rimborsopoli e a ottobre la procura di Catanzaro aveva chiesto il suo rinvio a giudizio per l’inchiesta sugli appalti riguardanti la costruzione della metropolitana leggera destinata a collegare Cosenza, Rende e l’Università della Calabria oltre al nuovo ospedale di Cosenza.

Persone insospettabili sospettate da sempre che rimangono dove sono perché la politica non ha gli anticorpi per prenderne le distanze. Ma mica solo la politica: sono sostenuti dai salotti, dai loro cortigiani, da pezzi interi delle città in cui vivono.

Gli insospettabili sospettati da sempre sono un classico letterario nelle nostre città: camminano fieri, a testa alta, fanno anche la morale agli altri (chiedete in giro di Giorgio Naselli, ex comandante del Reparto operativo nucleo investigativo dell’Arma di Catanzaro) e poi quando decadono sembra che non li conoscesse nessuno.

C’è bisogno di tanta vigliaccheria perché trionfino i prepotenti. E poiché la vigliaccheria non è reato quelli, i vigliacchi, si salvano sempre.

Buon venerdì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2019/12/20/gli-insospettabili-sospettati-da-sempre/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Una volta qui era tutta antimafia

Che brutta fine che ha fatto l’antimafia che prima era dappertutto, quando ci dicevano che la lotta alla criminalità valesse pure qualche film bruttino, qualche messa sciacquata e qualche eroe da bancarella ma si insisteva nel convincersi che l’importante era parlarne, che se ne parlasse, che fosse all’ordine del giorno. Finito il lato spettacolare dell’antimafia (a parte qualche film, sempre bruttino) la politica è riuscita comunque a scrollarsela di dosso come se fosse stata solo una moda passeggera, qualcosa che era importante attraversare per dire “io c’ero”. Anche i movimenti sembrano averla retrocessa tra le priorità di cui parlare solo “se c’è tempo”.

Mentre in Italia le associazioni e gli studiosi (tanti, bravi e competenti) insistono nello studiare, discutere e imparare la politica italiana, tutta, ha dimenticato il fenomeno dando la preoccupante percezione di averlo perfettamente assorbito, esattamente come temevano e denunciavano molti di quelli che ci sono morti, per mano della mafia.

La Procura antimafia di Torino negli atti del processo contro 19 persone in Val d’Aosta (si è dimesso il presidente della regione, tanto per dare un’idea delle proporzioni dello scandalo) racconta come Antonio Raso (calabrese di origine ma valdostano per imprenditoria nel campo della ristorazione) abbia gettato già da tempo le basi per eleggere sindaci e senatori che fossero a disposizione della cosca per assunzioni, lubrificazione di pratiche amministrative e altri favori.

La locale ‘Ndrangheta di Aosta avrebbe addirittura “influenza” su diversi candidati di diversi partiti, creando una sorta di oscena alleanza trasversale che troppo spesso capita di vedere nella politica italiana. I fratelli Di Donato (che secondo gli inquirenti sarebbero a capo del clan che controlla Aosta) avrebbero incontrato il governatore dimissionario Fosson ma anche gli ex governatori Augusto Rollandin, Laurent Viérin e Pierluigi Marquis. Un’infiltrazione che comincia addirittura nel 1999 con la costituzione del Movimento Immigrati ValdostanoPer gli inquirenti le indagini (come le precedenti inchieste) «hanno rivelato che il ‘volere’ elettorale del locale ha condizionato gli ultimi decenni della storia politica valdostana creando un connubio politico-criminale ben radicato».

Un bubbone enorme. Eppure poiché la destra non può usarlo come manganello contro la sinistra e la sinistra non può usarlo come manganello contro la destra va a finire che non commenta nessuno. Una volta qui era tutto antimafia, ora è roba solo per affezionati.

Buon martedì.

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‘Ndrangheta: si pente De Castro in Lombardia

(un gran pezzo di Cesare Giuzzi e Giuseppe Guastella)

«Sono stanco di questo stile di vita, soprattutto di quella di mio padre. Io stesso l’ho indotto a fare questa scelta». La prime ore della mattina del 13 settembre. Nell’ufficio al quinto piano della Procura di Milano, davanti ai pm Alessandra Cerreti e Cecilia Vassena, c’è un ragazzo di 29 anni cresciuto nel lembo di terra tra le province di Milano, Varese e Novara che circonda l’aeroporto di Malpensa. Salvatore De Castro è il figlio di Emanuele, 51 anni, nato a Palermo ma affiliato alla ‘ndrangheta lombarda. Vicino al clan di Villagrazia di Cosa nostra, «il siciliano», come veniva chiamato, è stato «battezzato» a ridosso della Pasqua del ‘97. Nella ‘ndrangheta ha scalato le gerarchie al fianco del capolocale di Legnano Vincenzo Rispoli. Prima del suo nuovo arresto il 4 luglio nell’operazione «Krimisa» dei carabinieri e della Dda di Milano, De Castro era arrivato al ruolo di «capo società», vice reggente della cellula calabrese di Legnano. Oggi anche lui, come il figlio Salvatore, è un collaboratore di giustizia.

Una scelta indotta proprio dal figlio, arrestato nella stessa indagine, stanco di nascondersi, di fuggire, di una vita fatta di arresti e condanne. E dettata dalla consapevolezza che dalla ‘ndrangheta si esce soltanto in due modi: da morti o arrendendosi allo Stato. Una decisione capace di vincere il vincolo più grande che regola i clan calabresi, quel legame familiare che impedisce di testimoniare contro i congiunti, i padri, i propri figli. Una scelta «di famiglia», come la racconta lo stesso Emanuele De Castro: «Ho deciso di collaborare perché non voglio che mio figlio faccia ‘sta fine come l’ho fatta io. Perché sono stanco, mi sembra una vita assurda. Non lo so, è venuto il momento di…. vorrei vivere una vita tranquilla con la mia compagna e la mia bambina». La decisione di collaborare era stata preannunciata con due lettere spedite dal carcere dal boss direttamente al procuratore aggiunto Alessandra Dolci, il capo della Direzione distrettuale antimafia di Milano. Nell’ultima comunicazione il «siciliano» ha chiesto di incontrare i magistrati «senza il mio difensore». In due mesi, padre e figlio hanno riempito centinaia di pagine di verbali. Hanno raccontato ai pm Cecilia Vassena e Alessandra Cerreti, che per molti anni ha combattuto la ‘ndrangheta in Calabria, gli assetti delle cosche al Nord e parlato delle connessioni con la politica, l’imprenditoria, la pubblica amministrazione. La loro collaborazione è la prima dopo quella del pentito Antonino Belnome, arrivata dopo il maxi blitz Infinito-Crimine del 2010, che ha svelato mandanti ed esecutori di una serie di delitti di mafia in Lombardia.

Nell’ordinanza del gip Alessandra Simion si racconta anche di come altri affiliati stessero progettando di uccidere Emanuele De Castro. Una circostanza che forse ha indotto, ancora di più, padre e figlio a scegliere la via della giustizia. Il boss 51enne di Lonate Pozzolo (Varese) ha permesso ai carabinieri del Nucleo investigativo di Milano di recuperare due candelotti di esplosivo nascosti in una buca. L’affiliazione alla cosca del «siciliano» è avvenuta in un bar di Legnano: «Ci siamo messi in circolo, è stata fatta la tipica “pungitura”. Poi abbiamo brindato insieme». Padre e figlio gestivano un parking vicino a Malpensa sequestrato dagli investigatori. «Io spacciavo droga. Non sono mai stato battezzato, mio padre non voleva che lavorassi per ”loro” — ha raccontato Salvatore De Castro —. Mi diceva di starne fuori». Appena il figlio ha compiuto 18 anni, il padre gli ha confessato di essere un mafioso: «Gli chiedevo dei suoi viaggi in Calabria, del motivo per cui frequentasse Rispoli: tutti sapevano che senza il suo assenso qui non poteva muoversi foglia. E mi disse che apparteneva alla ‘ndrangheta».

#Carnaio la mia intervista a Il Cittadino

L’INTERVISTA L’AUTORE LODIGIANO SI RACCONTA A MARGINE DELL’IMPORTANTE RISULTATO RAGGIUNTO CON IL SUO “CARNAIO”

Cavalli: dopo il podio nel Campiello più narrativa e meno palcoscenico

Ho voglia di raccontare storie in cui io ci sono il meno possibile. E la letteratura me lo permette»

Rossella Mungiello

Per anni ha calcato il palcoscenico nei panni di un canta- storie. Usando la voce e la fisicità per dare vita a spettacoli amari e di denuncia, rinunciando anche alla sua libertà personale, vivendo sotto scorta per le minacce subite dalla criminalità. Oggi sceglie di stare più al riparo, di privile- giare la parola scritta, di prendersi il tempo per far nascere e crescere una storia.

Ci sarà sempre meno palcoscenico e sempre più narrativa nel prossimo futuro di Giulio Cavalli, scrittore lodigiano classe 1977 – già autore teatrale e attore (che ha lavorato con nomi con Dario Fo e Paolo Rossi ndr), giornalista ed editorialista, ma anche politico, eletto come consigliere regionale – che sabato sera si è imposto nel panorama nazionale della narrativa contemporanea con il secondo posto ottenuto al Premio Campiello con il suo “Carnaio”, edito da Fandango Libri. Un romanzo che racconta di un paesi- no DF, appollaiato sulla costa come tanti, in cui il pescatore Giovanni Ventimiglia, in un giorno di marzo, si imbatte in un cadavere rimasto a mollo per giorni. È il suo primo di una serie di ritrovamenti di cadaveri, tutti di giovani, tutti neri, che si susseguono al punto da costringere le autorità a escogitare una soluzione che diventa anche un modo per fare profitto.

Da dove è arrivato lo spunto narrativo?
«Il libro “Carnaio” nasce da un’immagine, frutto di una conversazione con un pescatore in Sicilia, dove mi trovavo per un reportage sull’immigrazione. Mi spiegava come spesso capiti ai pescatori di recuperare cadaveri in mare e di come, per evitare di avviare l’iter giudiziario, li ributtino in acqua, prometten- do in cambio tutto l’impegno possibile per salvare i vivi. Mi disse che i corpi sono come lessi dal tempo passato in mare: usò un termine culinario che, de- clinato alla vita umana, mi fece molto pensare a come il cannibalismo messo in atto nei confronti di altre morti inizi proprio nel riconoscerle come altro da noi. Non è un libro sull’immigrazione: è un libro sull’etica di una comunità che si sposta ogni giorno un metro più in là, in un scivolamento verso il basso che conduce all’orrore».
È quello che sta accadendo all’Italia di oggi?
«Credo che la letteratura non sia un editoriale politico lungo, ma che debba seminare dubbi. Se quel che accade oggi in Italia è questo, devono dirlo i let- tori. Il premio Campiello ha portato il libro in ambienti anche molto diversi, per sensibilità, sul tema dell’immigrazione e la soddisfazione più grande è sta- ta riuscire a uscire dall’agone politico e portare la discussione su un gradino più alto, con visioni diverse che si ritrovano però in valori comuni sui diritti».

Dopo il teatro civile, il giornalismo è stato quasi un approdo naturale, oggi lo è la letteratura?
«Tra il teatro, il giornalismo e la narrativa, quello che ho sentito più congenia- le negli ultimi anni è certamente la narrativa. E “Carnaio”, tra i miei romanzi, è quello che mi ha lasciato più libertà, nella scrittura e nella costruzione della storia ed è il mio primo libro da scrittore puro, dato che “Mio padre in una scatola da scarpe” (Rizzoli, 2015) è segnato dalla matrice a fuoco della criminalità organizzata e dell’antimafia, mentre “Santamamma” (Fandango Libri, 2017)è molto personale e autobiografico. Ed è ovvio che il Campiello, ma anche il premio Napoli e il Festival del Viaggiatore di Asolo, sono attestati di stima per il mio lavoro e mi danno molta soddisfazione. Il Campiello ha messo al centro l’attività di scrittore, come principale e prioritaria. Ho voglia di raccontare storie in cui io ci sia il meno possibile. E la letteratura me lo permette».

Se l’antimafia la fanno gli stranieri, a Ballarò

Una storia piccola, di cui si è parlato poco ma che dice molto come tutte le storie minime che sono buone per essere paradigma contro i pregiudizi facili. A Ballarò, quartiere palermitano, la più importante azione antimafia l’hanno fatta negli ultimi mesi gli immigrati.

Partiamo dall’inizio. Nel 2016 un gambiano poco più che ventenne, Yusupha Susso, decide di rispondere alle offese razziste, non ce la fa più e reagisce. Solo che se la prende mica con uno qualunque, ma con un mafioso e figurati se la mafia di Ballarò si fa mettere i piedi in testa, perdipiù da un nero. Così Emanuele Rubino decide di vendicarsi e per dimostrare tutta la sua indecente potenza al quartiere spara alla testa a Yusupha. Il ragazzo va in coma. Rubino viene arrestato.

La comunità straniera decide che è ora di reagire. Vengono da Tunisia, Gambia, Bangladesh e da anni pagano il pizzo, chinando la testa. Decidono che è ora di rialzarsi e denunciano i loro estorsori. Ne nasce una delle più importanti indagini degli ultimi anni nel quartiere di Ballarò dove la cosca locale viene smembrata da arresti e condanne. Una di loro, Sumi Aktar, diventa la prima politica bangladese eletta in Sicilia (alla Consulta delle culture), e dice: “Da stranieri abbiamo già dimostrato il nostro coraggio denunciando la mafia e il pizzo. I commercianti bangladesi hanno contribuito alla crescita di Palermo. Da stranieri ci sentiamo parte di questa città. Per noi Palermo non è una tappa transitoria. E’ casa nostra”.

Ed è una storia bellissima perché non divide le persone in base ai colori o alla provenienza ma dimostra che esistano dappertutto buoni e cattivi. E anche buoni che hanno più coraggio degli storici residenti. E poi è una storia bellissima perché se la raccontate a Salvini implode e diventa polvere di stelle.

E sanno tutte di buono le storie che mischiano persone, coraggio e dove vincono quelli giusti. Perché questi sono fatti, mica pregiudizi.

Buon lunedì.

 

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Come Giovanni Falcone è diventato un santino da sventolare per l’antimafia di facciata


La presenza del ministro Salvini (ma non solo) spacca il fronte dell’antimafia siciliano. ANPI, Arci e il fratello di Peppino Impastato organizzano per conto loro una manifestazione a Capaci che non ha nulla a che vedere con la cerimonia ufficiale pensata in Aula Bunker dove è previsto l’intervento del ministro. Anche il presidente della Regione Sivilia ha parlato di “troppo veleno” e deciso di non esserci.
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Caro ministro, c’è la camorra nella demolizione del ponte Morandi

C’è l’ombra della camorra tra le ditte che stanno lavorando alla  demolizione del ponte Morandi, crollato il 14 agosto 2018 seppellendo 43 persone. Si tratta della Tecnodem S.r.l., ditta napoletana che  si occupa di demolizione di materiale ferroso e ha ottenuto 100mila euro di commesse in sub-appalto dalla Fratelli Omini, una delle società partecipanti all’Associazione temporanea di imprese scelta dalla struttura commissariale per abbattere i tronconi del viadotto sopravvissuti al collasso.

Le condanne di Varlese – La Dia di Genova ha notificato in mattinata alla Tecnodem un’interdittiva antimafia emessa dal prefetto Fiamma Spena perché l’azienda è ritenuta “permeabile di infiltrazione della criminalità organizzata di tipo mafioso”. L’amministratrice e unica socia della società è Consiglia Marigliano, consuocera di Ferdinando Varlese, pluripregiudicato napoletano domiciliato a Rapallo, che risulta anche tra i dipendenti della stessa ditta insieme a due suoi figli e  a una nipote. Varlese è stato condannato nel 1986 dalla Corte d’Appello di Napoli per associazione a delinquere in un processo che vedeva tra gli imputati anche soggetti affiliati al clan Misso-Mazzarella-Sarno guidato da Michele Zaza e Ciro Mazzarella.

I legami con il clan D’Amico – E tredici anni fa ha ricevuto un’altra condanna in secondo grado per estorsione tentata in concorso con l’aggravante mafiosa: un’episodio dal quale – sostiene la Direzione investigativa antimafia genovese – “si evincono in maniera circostanziata i legami di Varlese con il sodalizio camorristico D’Amico”, al quale il consuocero dell’amministratrice di Tecnodem “risulta legato da rapporti di parentela”. Sulla base di questi accertamenti, la Dia di Genova ha ritenuto che la società sia in una “condizione di potenziale asservimento” o “condizionamento” dei clan camorristici. 

(fonte)