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Antimafia

In Lombardia la politica beve dove beve la ‘Ndrangheta

Il solito bravissimo Mario Portanova per Il Fatto Quotidiano

“Madonna faccio una figura della Madonna… c’ho mezza Forza Italia cazzo stasera… Tutti quelli di Varese… Tutti i numeri uno di Forza Italia di Varese son lì figa… Faccio una figura faccio… Se va bene stasera Emi… minchia… sei il mio Maradona cazzo…”. E’ incontenibile l’eccitazione dell’imprenditore dei rifiuti Daniele D’Alfonso, titolare della Ecol-Service srl, inconsapevole naturalmente di essere ascoltato in diretta nell’indagine che oggi lo ha portato in carcere insieme ad altre 27 persone. Perché quella sera, il 18 gennaio 2018, riuscirà a mettere intorno a un tavolo non solo lo stato maggiore varesino per partito berlusconiano, ma anche due big di Milano e LombardiaPietro Tatarella (nella foto), consigliere comunale nel capoluogo e vicecoordinatore regionale, e Fabio Altitonante, sottosegretario regionale all’area Expo. Anche loro arrestati oggi. Il locale prescelto è la discoteca Noir di Lissone, in provincia di Monza-Brianza. Di cui “Emi”, non meglio precisato nelle carte dell’inchiesta, è il gestore.

Il Noir, però, si è guadagnato in questi ultimi anni una fama che ne sconsiglierebbe l’uso per riunioni politico-imprenditoriali. Antonino Belnome, famiglia calabrese di Guardavalle ma nato e cresciuto a Giussano, nel cuore della Brianza, uno dei più importanti collaboratori di giustizia di ‘ndranghetadegli ultimi anni in Lombardia, lo annovera fra i posti in cui gli ‘ndranghetisti erano ospiti graditi e potevano consumare a volontà senza pagare un euro: il conto “poteva ammontare a mille, anche duemila euro, perché se eravamo in quindici-venti non è che bastavano tre-quattro bottiglie”, mette a verbale il 10 dicembre 2010 davanti alle pm dell’Antimafia Ilda Boccassini e Alessandra Dolci. Si parla di champagne da 250 euro a bottiglia, precisa il collaboratore di giustizia, di “cinque, sei, sette bottiglie”.

Certo, un bel benefit, che gli ‘ndranghetisti radicati in Brianza non hanno neppure bisogno di estorcere con minacce e violenze. Spiega ancora Belnome: nella zona il gestore di un locale “mi conosce, sotto sotto sa chi sono, poi lo vede nel comportamento degli altri, nota determinati atteggiamenti, nota come si comportano al tavolo con me, quando entro quelli che mi salutano, allora il gestore le nota queste cose, quindi le capisce, anche se non è del posto e compra il locale in quel posto. Quindi in automatico non la fa pagare, e poi questo funziona come … diventa un rituale”.

Ed è ancora il pentito, diventato padrino a quarant’anni, esecutore materiale dell’omicidio di Carmelo Novella nel 2008, a dire ai pm che al Noir la sicurezza era gestita da Paolo De Luca. De Luca, anche lui nato e cresciuto al Nord, nella vicina Seregno, sarà arrestato nel 2016 con l’accusa di associazione mafiosa. Secondo gli investigatori, il “boss invisibile” era in contatto con il clan Mancuso di Limbadi (Vibo Valentia), molto attivo in Brianza. Niente di tutto questo ha impedito alla Lega nord salviniana di chiudere proprio al Noir, il 2 marzo 2018, la campagna elettorale per le regionali (ne scrisse anche Roberto Saviano su Repubblica). Presente Paolo Grimoldi, deputato e segretario nazionale lombardo della Lega.

All’imprenditore D’Alfonso, il promotore della “cena con spettacolo” nella discoteca brianzola, i magistrati contestano l’aggravante mafiosa, per l’accusa di aver fatto lavorare nei suoi cantieri le ditte del clan Molluso di Buccinasco. E di aver tenuto a libro paga il sottosegretario Altitonante in cambio di favori negli appalti dell’Amsa, la municipalizzata milanese dei rifiuti. Ma perché politici e imprenditori si riuniscono nel privé di una pista da ballo? L’intento lo chiarisce lo stesso D’Alfonso. Parlando con “Emi” spiega che si tratta a tutti gli effetti di “una cena aziendale”. Che gli costerà parecchio, prevede, perché “tra mangiare e dopo… questi bevono come sanguisughe…”. Fra gli invitati, si legge nelle carte dell’inchiesta, figura Andrea Grossi, figlio di Giuseppe, il “re delle bonifiche” lombarde deceduto nel 2011, coinvolto in diversi procedimenti giudiziari. Il gip ha disposto per lui la misura cautelare dell’obbligo di firma. L’accusa è di aver versato illecitamente, insieme a D’Alfonso, 10mila di finanziamento a Fratelli d’Italia, finiti sul conto corrente del partito nella filiale Bpm di Montecitorio.

No, a Como non era bullismo. Era ‘Ndrangheta.

Oltre cento anni complessivi di condanne e la conferma del reato di associazione mafiosa. È questo il verdetto di primo grado pronunciato oggi dal Tribunale di Como nel processo ai rampolli della ‘ndrangheta canturina. Pene che vanno dai sette ai diciotto anni nel caso di Giuseppe Morabito, considerato il capo del gruppo e appartenente all’omonima famiglia.

La verità emersa dal processo racconta come i giovani componenti dell’associazione mafiosa avevano il controllo degli affari della movida di Cantù, con particolare riferimento della zona attorno a piazza Garibaldi. Controllo che mettevano in atto attraverso atteggiamenti violenti e intimidatori, metodi tipici della mafia. Dalle carte dell’inchiesta emerge come i commercianti del posto erano a conoscenza della fama del gruppo di calabresi e li trattavano con riguardo: “Meglio non farli pagare che rischiare la vita”, dicevano all’epoca dei fatti. In tutto questo il comune di Cantù ha scelto di non costituirsi parte civile: l’amministrazione di centrodestra, più volte interpellata dai media su questa scelta, ha scelto di derubricare l’accaduto: “Si tratta di atti di bullismo, ecco perché non ci costituiremo”. Bullismo, nient’altro. La sentenza, però, racconta un’altra storia.

“Siamo soddisfatti per questa sentenza perché sono state confermate le nostre indagini” ha commentato il Pubblico Ministero Sara Ombra. Un processo che si è svolto in un clima di paura con teste che hanno ritrattato le proprie testimonianze. “Questa sentenza ci dice che non ci trovavamo di fronte a fatti di bullismo né di criminalità spicciola né di ragazzate, ma che ci trovavamo di fronte a criminalità organizzata di stampo mafioso” dichiara a margine la Presidente della Commissione Antimafia della Regione Lombardia Monica Forte che, come aveva già fatto il capo della direzione distrettuale antimafia di Milano Alessandra Dolci (VIDEO), punta il dito contro chi ha provato a minimizzare nell’ultimo periodo: “Oggi le istituzioni e la politica che in passato hanno minimizzato e non si sono costituite parte civile non fanno una grande figura. Oggi questa sentenza deve indurre a un cambio di passo su questi temi”.

(fonte)

Perché non riusciamo a prendere Matteo Messina Denaro? Ecco qua.

di Salvo Palazzolo per Repubblica

L’indagine sul superlatitante Matteo Messina Denaro è a una svolta. La più drammatica. Questa mattina, la procura di Palermo ha fatto scattare le manette per due investigatori, sono accusati di aver passato notizie riservate su alcuni mafiosi trapanesi dell’entourage del padrino ricercato. Contestazioni pesanti per il tenente colonnello Marco Zappalà, un ufficiale dei carabinieri in servizio alla Direzione investigativa antimafia di Caltanissetta, e per Giuseppe Barcellona, un appuntato dell’Arma che lavora alla Compagnia di Castelvetrano, la città della primula rossa di Cosa nostra. Con loro è stato arrestato anche l’ex sindaco di Castelvetrano, Antonio Vaccarino, già condannato per traffico di droga e poi diventato un confidente dei servizi segreti:è accusato di aver fatto da tramite e passato al boss Vincenzo Santangelo la trascrizione di un’intercettazione fra due mafiosi trapanesi.

Una catena delle talpe che è stata scoperta dai carabinieri del Ros: il procuratore capo di Palermo Francesco Lo Voi e l’aggiunto Paolo Guido contestano adesso le accuse di rivelazione di notizie riservate e accesso abusivo a un sistema informatico. Vaccarino risponde invece di favoreggiamento aggravato, dall’aver favorito l’organizzazione mafiosa. Ricostruzione accolta dal giudice delle indagini preliminari Piergiorgio Morosini, che ha emesso un’ordinanza di custodia cautelare, accogliendo la ricostruzione dei sostituti procuratori Pierangelo Padova e Francesca Dessì.

E ora si apre uno scenario inquietante: quante altre informazioni riservate sull’indagine Messina Denaro erano già filtrate? E cosa si nasconde dietro gli uomini delle istituzioni accusati oggi di essere delle talpe? Zappalà faceva intendere di voler infiltrare Vaccarino in Cosa nostra, per avere informazioni. Ma era davvero così? Per certo, è stato Zappalà a passare notizie riservate: il 7 marzo 2017, ha incontrato Vaccarino nel cinema che gestisce a Castelvetrano e gli ha spedito per mail la fotografia dell’intercettazione ricevuta da Barcellona. Una mail che è stata intercettata. Il giorrno dopo, Vaccarino ha incontrato Santangelo e passandogli il documento gli ha detto: “Con l’uso che sai di doverne fare e con la motivazione che la tua intelligenza sai che mi spinge”. Parole tutte da interpretare, sono state intercettate anche queste grazie alla microspia piazzata nell’auto dell’ex sindaco di Castelvetrano. 

“Hanno svelato un’indagine su Messina Denaro”. In manette un ufficiale della Dia e un carabiniere

L’ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino, è stato un infiltrato dei servizi segreti

L’inchiesta

Il tenente colonnello Marco Zappalà era ritenuto fino a ieri uno degli investigatori più fidati dell’antimafia, si era anche occupato delle indagini riservate sulle stragi Falcone e Borsellino. Questa mattina, sono stati i suoi colleghi della Dia di Palermo ad arrestarlo, in ufficio.

Il sottufficiale dei carabinieri di Castelvetrano aveva anche lui un lunga esperienza di indagini antimafia, era incaricato di seguire alcune delicate intercettazioni disposte dalla procura di Palermo, proprio una di queste è stata svelata in tempo reale ai clan.

E poi c’è il mistero Vaccarino: nel 2007, l’ex sindaco di Castelvetrano era stato ingaggiato dal Sisde allora diretto dal generale Mario Mori per la più riservata delle operazioni. Per qualche tempo, aveva intrattenuto una corrispondenza fatta di pizzini con Messina Denaro. “Per provare a giungere alla sua cattura”, disse lui ai magistrati di Palermo quando lo indagarono per concorso esterno in associazione mafiosa dopo averlo intercettato causalmente nel corso delle indagini sul latitante. E i servizi segreti confermarono. “E’ un nostro infiltrato”. Così l’inchiesta venne archiviata.

Il giallo

Ma davvero nel 2007 Antonio Vaccarino aveva lavorato per lo Stato? Oppure faceva il doppiogioco, ancora una volta per alimentare i suoi contatti con Messina Denaro? Ripercorrendo nuovamente questi eventi, va ricordato un dato di cronaca intervenuto più di recente su quel direttore del Sisde che allora curò l’operazione Vaccarino-Messina Denaro: Mario Mori, oggi generale del Ros in pensione, è stato condannato in primo grado a 12 anni nel processo Trattativa Stato-mafia. La trattativa che dopo la strage Falcone, tre ufficiali del Ros (Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, tutti condannati) avrebbero messo in campo con l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino: “Per fermare le stragi”, hanno sempre sostenuto loro. “Invece – è la tesi dell’accusa – fecero da tramite fra le richieste di Riina e lo Stato”. Il processo d’appello inizierà il 29 aprile.

Intanto, continuano ad essere tante le domande che avvolgono la latitanza del capomafia di Castelvetrano che conosce i segreti delle stragi e della trattativa, perché all’epoca era il “figlioccio” di Salvatore Riina, il capo dei capi: dal 1993 delle bombe di Roma, Firenze e Milano, Matteo Messina Denaro – condannato all’ergastolo – è diventato imprendibile. Probabilmente, per le protezioni di cui gode ancora all’interno di alcuni ambienti delle istituzioni.

Due anni fa, un altro uomo con un distintivo in tasca – l’agente dei servizi segreti Marco Lazzari – venne arrestato per l’ennesima fuga di notizie: aveva soffiato al boss di Gela Salvatore Rinzivillo di essere finito nel mirino delle indagini su Messina Denaro, L’ennesimo spiffero pesante arrivato dal cuore della Sicilia.    

Una mia intervista su “Mafie Maschere e Cornuti”

Irriverente, beffardo, pungente… questo è Giulio Cavalli in “Mafie maschere e cornuti”, lo spettacolo – in collaborazione con l’Archivio storico del cabaret italiano – andato in scena al teatro “De Sica” di Peschiera Borromeo giovedì 21 marzo 2019 in occasione della Giornata nazionale della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie.

Un insieme di storia, comicità, atti giudiziari, articoli di giornale, aneddoti, domande e riflessioni che colpiscono gli spettatori – che l’artista rende parte attiva dello show – come stilettate. Non mero ascolto, non semplice presenza in sala; Cavalli si aspetta risposte dal pubblico, pretende ragionamenti, esige che si «alleni il muscolo della curiosità». E colpisce come, durante la serata, la maggior parte delle risposte arrivi da un’adolescente più che dagli adulti, che certi fatti li hanno vissuti o ascoltati almeno nelle cronache.

A partire dall’eredità lasciataci dai giullari del ?500, che deridevano i potenti con le loro parole, finendo per questo spesso decapitati; Giulio Cavalli ricorda come la risata sia l’arma più potente contro chi ha potere e lo esercita senza rispettare le regole. E nel “racconto del potere” rientrano politica, economia e mafia. Quest’ultima, in particolare, viene smontata dall’artista a ogni episodio della narrazione; l’onorabilità – tanto importante per la mafia nella proiezione che intende dare di sé – viene meno a ogni passo dello spettacolo, quando l’artista racconta di mafiosi che si incontrano nella cella frigorifera di un negozio di ortofrutta per evitare di essere intercettati, di latitanti ritenuti all’estero che riescono chissà come a procreare, dei covi di altri “potenti” ridotti a vivere come poveracci, di boss e figli di boss che si smontano da soli semplicemente con le loro dichiarazioni in aula o ai giornali, e tanto altro ancora.

Ripercorrendo dunque le operazioni antimafia degli ultimi anni, Cavalli mostra una mafia diversa, una mafia che – tolta la rappresentazione che riesce a dare di sé anche grazie a chi la racconta (in quello che lo stesso artista chiama “concorso culturale esterno”) – fa davvero ridere e non fa più così paura. Ma allora, di cosa bisogna aver paura? La risposta la fornisce lo stesso Cavalli, citando Mark Twain «Non bisogna avere paura di ciò che non si conosce, ma bisogna temere ciò che crediamo vero e invece non lo è».

Sul palco, insieme a Cavalli, il fisarmonicista Guido Baldoni che non rappresenta solo l’accompagnamento musicale dal vivo con brani originali ma è parte sostanziale dell’esibizione con la sua capacità di sottolineare i momenti più emblematici e dialogare con l’artista.

Incontriamo Giulio Cavalli nel foyer del teatro, per una breve ma significativa intervista con 7giorni:

Giulio, quale domanda vorresti non ti fosse mai fatta in un’intervista?

«Quelle sulla scorta, niente domande sulle scorte».

E quale invece vorresti che ti venisse fatta e non ti è mai stata fatta?

«La domanda di qualcuno che si informa prima di intervistare».

Come sono cambiate le mafie dal tuo spettacolo “A cento passi dal Duomo” a oggi?

«Sono molto più nascoste, rincorrono meno il mito – tant’è che il maggior produttore di mito mafioso in Italia è un antimafioso – e rincorrendo meno il mito si prestano anche meno, se vuoi, alle giullarate perché sono molto barbosi, sono molto grigi, incravattati, quindi sono imprenditori, politici… Diciamo che il manovale non esiste quasi più perché è un ruolo completamente subappaltato alle comunità di altre etnie, alle famose risorse come le chiama Salvini, e quindi essendo tutti colletti bianchi viene per noi anche più difficile raccontarle. Io penso che non sia un caso che nello spettacolo di oggi noi parliamo di Riina e Provenzano, che comunque sono macerie delle mafie e non sono sicuramente contemporaneità».

Come sono cambiati invece i tuoi spettacoli negli anni? Hanno avuto un’evoluzione?

«Mi interessa molto meno sostituirmi ai giornalisti, ai magistrati o a sedicenti associazioni antimafia e mi interessa fare semplicemente il mio ruolo. Il mio ruolo è quello di smutandare e quindi di provocare la risata. Se qualcuno ha bisogno di verificare la mia credibilità interrogandomi sugli atti giudiziari, vuol dire che ha un problema di autostima lui, non io».

Insomma se è vero che «una risata vi seppellirà» ridere di mafia, per usare sempre le parole di Giulio Cavalli, «è antiracket culturale, e le mafie – come tutte le cose terribilmente serie – meritano di essere derise».

Elisa Barchetta (fonte)

In Veneto la mafia non esiste: l’operazione Camaleonte

Due articoli da ritagliare de Il Fatto Quotidiano.

Sono i fratelli Michele e Sergio Bolognino, condannati nel primo grado del processo Aemilia (37 anni e 11 mesi il primo, 19 anni e 3 mesi il secondo) i due capi dell’organizzazione criminale di stampo mafioso messa sotto accusa dall’inchiesta Camaleonte della Dda di Venezia. Avevano esportato in Veneto, operando sulle province di Padova e Venezia tra il 2012 e il 2015, le attività di usura, estorsione e falsa fatturazione in cui eccelleva la cosca emiliana Grande Aracri/Sarcone di cui facevano parte. Utilizzando metodi brutali e l’inventario tipico delle minacce e delle violenze mafiose. Dice Bolognino, intercettato al telefono, all’imprenditore veneto Stefano Venturin: “Se non fai quello che dico io ti spacco le gambe, ti spacco la testa. Tu e la puttana di tua moglie dovete lavorare per me e stare zitti”. Gli porteranno via tanti soldi e una impresa, la GS Automazioni srl, arrivando a mandarlo in ospedale a suon di pugni in faccia, davanti alla moglie presa a schiaffi mentre piange. Il perché di tutto ciò non ha bisogno di tante spiegazioni: “I soldi; con le buone o le cattive”, dicono i due fratelli. Venturin è una sorta di bancomat per la cosca: Michele Bolognino si fa pagare le proprie spese, come il noleggio di auto costose, mentre suo fratello Sergio gli manda il conto dei propri mobili di casa. E quando Venturin nomina un nuovo amministratore della società, Mario Coda, le minacce raggiungono anche lui: “Vuoi che ti facciamo fare la fine dello scemo che ti ha messo come amministratore?” Ancora più duro un altro uomo della cosca, il cutrese residente a Bologna Mario Vulcano, condannato di Aemilia a 26 anni e 6 mesi in primo grado. È lui che dopo aver picchiato l’intermediario in una trattativa, Roberto Alfieri (due denti rotti e problemi alla vista diagnosticati in ospedale per le botte subite), dice ad una seconda vittima: “Roberto non lo chiamare più perché mo’ è in ospedale. Lo abbiamo appena picchiato. Lo dovevi sentire: aiuto! ..aiuto! ..mi vogliono uccidere! ..per strada come un gatto urlava”. Per concludere con la frase più esplicita possibile: “Io sto facendo il mafioso, qua”.

Fare i mafiosi significa non perdonare nulla, anche per cifre modeste. I fratelli Bolognino minacciano Diego Carrano, titolare di una società che noleggia autovetture di lusso, al quale hanno prestato 10mila euro il 22 maggio 2013 e nel giro di un mese ne rivogliono 13mila con un interesse usuraio del 300%: “Pezzo di merda, vengo e ti prendo a te, tua moglie e tuo figlio, ti squaglio dentro l’acido, tutti vi ammazzo, hai capito bastardo? Tu pensa e spera la Madonna che non ci vediamo mai”. Un anno dopo Giuseppe Giglio, il collaboratore di giustizia del processo Aemilia, vende allo stesso Carrano un bolide Ferrari di lusso e siccome l’ultima rata da 40mila euro non viene pagata nel giorno stabilito, i fratelli Bolognino, assieme a Richichi, Blasco e Mario Megna, lo attirano in una trappola per picchiarlo il 24 maggio 2014. Non ci riusciranno perché interviene la Polizia Giudiziaria che intercetta le conversazioni. Così si mostrano gli uomini della cosca emiliana ai terrorizzati imprenditori veneti: violenti e privi di scrupoli. Lontani anni luce dall’immagine di persone miti, vittime pacate e incolpevoli dell’accanimento giudiziario, che avevano cercato di accreditare solo qualche mese prima nell’aula bunker di Reggio Emilia, per difendersi dalle accuse dei pm Marco Mescolini e Beatrice Ronchi.

L’operazione Camaleonte estende al Veneto, grazie alla residenza di Sergio Bolognino a Tezze sul Brenta in provincia di Vicenza, le profonde radici piantate dalla cosca in Emilia. Per 33 indagati il giudice Gilberto Stigliano Messuti ha disposto l’arresto o l’obbligo di firma. La procura di Venezia aveva richiesto 58 misure cautelari, in maggioranza riguardanti persone domiciliate in Veneto, ma la provincia più colpita è Reggio Emilia, il cuore della ‘ndrangheta proveniente da Cutro, dove risiedono 18 indagati. I nomi più noti, oltre ai fratelli Bolognino, sono quelli di Giuseppe Giglio e Giuseppe Richichi (di Montecchio); Gianni Floro Vito (Scandiano), Michele Colacino (Bibbiano), Gaetano Blasco, Antonio Muto e Francesco Scida, residenti a Reggio città.

Le indagini portano alla luce un insieme di reati raccolti in oltre 130 capi di imputazione, il primo dei quali è il 416 bis, l’associazione di stampo mafioso, contestata a Michele e Sergio Bolognino, Giuseppe Richichi e Donato Agostino Clausi, il commercialista dei Grande Aracri condannato in via definitiva a Bologna a 10 anni e 2 mesi di carcere. Da un lato ci sono le estorsioni e le violenze commesse ai danni di imprenditori veneti, caratterizzati da minacce e da episodi di aggressione fisica, dall’altro un costante ricorso alla falsa fatturazione per operazioni inesistenti con l’obbiettivo di riciclare il denaro proveniente dalla cosca. I soldi salgono spesso dall’Emilia al Veneto a pacchetti di decine di migliaia di euronascosti in borse di pelle, prima di fare ritorno ripuliti attraverso bonifici su una miriade di conti postali aperti nelle province di Reggio Emilia e Modena. Ad andare all’incasso, tra gli altri, c’era anche l’unica donna ancora latitante della cosca reggiana, scomparsa all’alba degli arresti compiuti il 28 gennaio 2015 e ancora irreperibile: Baachaoui Karima. È la segretaria tuttofare di Gaetano Blasco, considerato un organizzatore della cosca reggiana e condannato alla pena più pesante del processo Aemilia: 38 anni e 4 messi in primo grado.

Ben 116 capi di imputazione dell’operazione Camaleontecondotta dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Venezia contro la cosca Grande Aracri, riguardano truffe societarie, false fatturazioni per operazioni inesistenti, spostamenti di soldi funzionali a riciclare denaro sporco e a generare contante pulito. Un sistema consolidato di ricorso agli uffici postali in Emilia Romagna che utilizzava le società di incensurati imprenditori veneti per far perdere le tracce delle operazioni illecite compiute. L’inchiesta, come in Aemilia, evidenzia un impressionante utilizzo di Poste Italiane come principale deposito e cassa per la ‘ndrangheta delle famiglie Grandi Araci/Sarcone. Una cosca che in quindici anni, all’inizio del terzo millennio, ha conquistato le tre regioni più ricche del nord, LombardiaVeneto ed Emilia Romagna, dove si realizza il 40% del Pil italiano e dove la domanda di soluzioni illecite per evadere il fisco ed abbassare i costi è dilagante nel ricco tessuto economico.

I passaggi delle tantissime operazioni fraudolente raccontati dall’inchiesta Camaleonte si riassumono in poche righe. In primo luogo gli emissari della mafia consegnavano agli imprenditori veneti (minacciati o collusi) il contante da riciclare, attraverso incontri in luoghi sempre diversi. Poi le società gestite o controllate dalla cosca emettevano fatture false verso le aziende dei medesimi imprenditori che provvedevano a pagare con bonifici, depositati sui conti correnti postali della provincie di Reggio Emilia e Modena dove i soldi venivano ritirati con un vorticoso giro di prelievi sempre per piccole cifre. È’ il cosiddetto “smurfing”, cioè l’insieme di movimentazioni ripetute e di modesta entità messe in atto per restare al di sotto della soglia d’attenzione.

Una delle tante operazioni compiute rende chiaro il giro. Il 30 settembre 2013 alle 11,30 Sergio Bolognino incontra Gianni Floro Vito presso il casello autostradale di Mantova Nord. Un’ora dopo lo stesso Bolognino incontra Antonio Brugnano al casello di Nogarole Rocca. Due ore dopo è al parcheggio dell’ospedale di Cittadella, in provincia di Padova, dove incontra Leonardo Lovo. Sono tutti già condannati in Aemilia o sotto indagine in Camaleonte. Questa è la fase della consegna dei soldi. Il giorno dopo due società venete, la Biasion Group srl e la Universo Costruzioni srl, effettuano tre bonifici rispettivamente di 25mila, 11mila e 10mila euro sui conti correnti postali di due società riconducibili alla galassia della ‘ndrangheta: la Immobiliare Tre srl, società cartiera dell’arcetano Gianni Floro Vito, e la Service srl del reggiano Antonio Brugnano.

La settimana successiva tutti quei soldi vengono prelevati dai postamat di 19 uffici postali nelle provincie di Reggio Emilia e Modena utilizzando tre diverse carte intestate a Floro Vito e Brugnano. Sei prelievi a Carpi, sei a Reggio, uno ad Arceto, due a Cadelbosco Sopra, tre a Correggio, uno a San Martino in Rio, uno presso lo sportello Posta Impresa di Reggio Emilia. È la stessa modalità di riciclaggioevidenziata in cento operazioni da Aemilia, dove gli sportelli postali, con carte individuali o societarie (Posta Impresa), sono i più frequentati dalla ‘ndrangheta.

Una delle società cartiere utilizzate per raccogliere i soldi provenienti dal Veneto è la Re.Com. srl, che ha sede a Reggio Emilia e commercia materiali per l’edilizia. Legale rappresentante è Francesco Scida: secondo l’accusa è prestanome di Giuseppe Giglio Gianni Floro Vito. In meno di un anno, tra gennaio e novembre 2014, sul suo conto corrente postale entrano bonifici per 3 milioni e 200mila euroed escono attraverso prelievi e vaglia 3,3 milioni con un totale di circa 1200 movimentazioni. È una società che presenta i tre indicatori di anomalia necessari a definire una alta pericolosità di infiltrazione: intensa attività bancaria, assenza di dipendenti e di organizzazione imprenditoriale, assenza di dichiarazioni fiscali. Un evasore totale, in sostanza, che però sfruttava in tutta tranquillità i postamat di Reggio Emilia e provincia per le proprie operazioni.

A lanciare l’allarme sulle falle del sistema postale nel controllo delle movimentazioni economiche mafiose fu nel 2016 il sindacato Slc Cgil dell’Emilia Romagna, che un anno dopo i 117 arresti di Aemiliaraccoglieva le dichiarazioni dei propri iscritti dipendenti di Poste Italiane: “La situazione si è aggravata. Il fatto è diventato sempre più evidente e preoccupante (nonostante gli arresti di Aemilia). Una certa tipologia di clientela sta letteralmente prendendo d’assalto gli uffici postali del territorio, ritirando in continuazione e quasi giornalmente denaro contante proveniente da bonifici. Sono movimentazioni di denaro per volumi complessivi molto rilevanti, realizzate utilizzando una pluralità di carte che risultano poi collegate a conti correnti postali radicati in particolare nelle province di Reggio Emilia e di Modena. Sono originari per la maggior parte della regione Calabria e dalle ultime segnalazioni anche della regione Campania. Gli operatori che fanno il loro dovere, che segnalano operazioni sospette, incorrono nelle velate minacce da parte di questi particolari clienti”.

Il 7 settembre 2016 depose nell’aula di Aemilia Loretta Medici, ex direttrice di PosteImpresa Reggio, attraverso i cui sportelli passavano anche i soldi riciclati dal Veneto. Rispondendo al Pubblico Ministero ammise di essere in confidenza con Gianni Floro Vito, poi condannato a 20 anni e 11 mesi, che due o tre volte alla settimana caricava il conto della sua “Immobiliare 3 srl” a botte di 50, 60, 80mila euroattraverso assegni o bonifici da altri istituti, e subito dopo li prelevava trasformati in contanti.

Si è costituito il boss Salvatore Barbaro, quello che si definiva “imprenditore” a Buccinasco

Si è consegnato ai carabinieri Salvatore Barbaro, il boss della ‘ndrangheta di Buccinasco condannato a 9 anni per l’inchiesta Cerberus sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta nel mondo del movimento terra. Barbaro era ricercato da un mese esatto, da quando la Cassazione ha confermato le condanne per associazione mafiosa a 9 anni per Barbaro e a 6 anni per il cognato Mario Miceli. Condannato a 4 anni e mezzo anche l’imprenditore Maurizio Luraghi, ex proprietario della Lavori stradali di Pregnana Milanese e accusato di essere stato l’interfaccia imprenditoriale della cosca. Luraghi, che nel tortuoso corso del processo era stato considerato prima complice (e da qui l’arresto nel luglio 2008), poi vittima (con l’assoluzione) e in fine di nuovo complice dopo il rinvio bis della Cassazione. Una vicenda durata 11 anni che aveva già portato alle condanne di Pasquale Papalia, in abbreviato, figlio del boss ergastolano Antonio, e del fratello di Salvatore Barbaro, Rosario, che non aveva presentato ricorso in Cassazione dopo aver preso 7 anni di condanna. Durante il processo era invece morto per malattia l’anziano boss Domenico Barbaro, padre di Salvatore e Rosario, detto «micu l’Australiano» ed esponente della ‘ndrina dei Barbaro «pillaru» di Platì, in provincia di Reggio Calabria. Barbaro si è consegnato direttamente ai carabinieri della sezione Catturandi del Nucleo investigativo di via Moscova, guidati dal tenente colonnello Michele Miulli. é stato rinchiuso in carcere in attesa della valutazione di eventuali cumuli di pena da parte dei giudici. In questi 30 giorni il boss non si sarebbe mai allontanato da Corisco e Buccinasco. 

Salvatore Barbaro
L’indagine «Cerberus»

L’inchiesta era stata coordinata dall’allora pm Alessandra Dolci, oggi capo della Direzione distrettuale antimafia di Milano, ed eseguita dal Gico della guardia di Finanza. Era stata di fatto la prima indagine sulla mafia nell’hinterland Sud-Ovest di Milano dopo l’offensiva che negli anni Novanta aveva portato (da Nord-Sud in avanti) a centinaia di arresti tra gli esponenti della cosca Barbaro-Papalia e Sergi, tutti radicati tra Buccinasco, Corsico, Assago, Cesano Boscone e Trezzano sul Naviglio. Nel mirino degli inquirenti era finito il settore del movimento terra dove i Barbaro lavoravano con diverse imprese legali e anche appoggiandosi, attraverso il sistema dei subappalti, all’azienda di Luraghi. Lo stesso imprenditore, intercettato durante le indagini, aveva raccontato di «avere costruito Buccinasco» insieme al boss Rocco Papalia. Il 68enne, scarcerato due anni fa dopo 24 anni di prigione e oggi in una casa lavoro di Vasto (Chieti), è infatti il suocero di Salvatore Barbaro, visto che il 44enne ha sposato la figlia Serafina. 

Il suocero «boss»

Ai due coniugi Barbaro era anche stata confiscata una parte di villa in via Nearco a Buccinasco dove attualmente è ospitato uno Sprar per migranti non accompagnati. Una vicenda che era balzata alle cronache proprio dopo la scarcerazione di Rocco Papalia che si era trovato a «convivere» con non poche difficoltà con la presenza dei migranti. Quando Papalia era entrato in carcere all’inizio degli anni Novanta per traffico di droga e sequestri di persona, l’attenzione mediatica sul fenomeno delle infiltrazioni mafiose al Nord non era così forte. Tanto che il boss non ha gradito, per usare un eufemismo, l’interesse della stampa per la sua vicenda. Una circostanza sfociata poi nelle minacce ad una cronista che gli sono costate, insieme all’essere stato sorpreso alla guida senza patente, i due anni di casa lavoro a Vasto nonostante l’età avanzata e gli acciacchi fisici. Nel 2009 dopo Cerberus era stata la volta di altre due inchieste (Parco sud I e II) che avevano colpito anche il livello politico-imprenditoriale della cosca con l’arresto di due «immobiliaristi» e dell’ex sindaco di Trezzano sul Naviglio.

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A Venezia la mafia non esiste

Compare anche il sindaco di Eraclea (Venezia), Mirco Mestre, tra gli arrestati nel blitz anti-camorra che ha portato oggi a 50 arresti tra Casal di Principe e Venezia. Il sindaco, avvocato, era stato eletto nel maggio 2016, guadagnandosi per una manciata di voti la poltrona di primo cittadino con una lista civica di centrodestra. E non solo: nella notte è stato fermato anche Luciano Donadio, 53 anni. L’uomo è ritenuto un referente del clan dei Casalesi a Venezia, con lui è stato arrestato anche il figlio Adriano Donadio, titolare di una sala scommesse che è stata sottoposta a sequestro. Come scritto in un precedente articolo, tra gli arrestati, a Casale, c’è Saverio Capoluongo, classe 1967.

La Guardia di Finanza e la Polizia, coordinate dalla Dda di Venezia, stanno eseguendo 50 misure cautelari (47 in carcere, 3 ai domiciliari) e 9 provvedimenti di obbligo di dimora e di altro tipo come il divieto si svolgere la professione di avvocato. Sequestrati beni per 10 milioni. Gli arresti sono scattati all’alba tra le 4 e le 5 a Venezia, Casal di Principe, in provincia di Caserta, e in altre località del veneziano. I destinatari del provvedimento sono accusati, a vario titolo, di associazione a delinquere di stampo mafioso e altri gravi reati. In corso di esecuzione sequestri preventivi per beni e valori pari a 10 milioni di euro. L’operazione, denominata “At Last”, vede la partecipazione di oltre 300 uomini anche del Servizio centrale investigazione criminalita’ organizzata della Guardia di finanza di Roma e del Servizio centrale operativo della Polizia di Stato. I dettagli saranno illustrati dal procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, Federico Cafiero de Raho, e dal procuratore distrettuale di Venezia, Bruno Cherchi, in un incontro con la stampa alle ore 11,30 nei locali del tribunale di Venezia.

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Finalmente arrestato Francesco Strangio

Nella serata di ieri 14 febbraio 2019 i Carabinieri del Comando Provinciale di Reggio Calabria, in collaborazione del Comando Provinciale di Cosenza e con personale dello Squadrone Eliportato Cacciatori di Calabria, hanno posto fine alla latitanza di Francesco Strangio, cl. ’80, sorpreso da solo all’interno di un appartamento all’ultimo piano di un condominio, in pieno centro abitato.

È stato arrestato in esecuzione di un ordine di carcerazione emesso dalla Procura Generale di Reggio Calabria, diretta dal Procuratore  Generale Bernardo Petralia, nel gennaio dello scorso anno, momento dal quale aveva fatto perdere le proprie tracce, in ragione di una condanna a 14 anni di carcere per associazione finalizzata al traffico internazionale di stupefacenti, divenuta definitiva.

Le articolate e prolungate indagini che hanno portato alla cattura del latitante – frutto del sistematico ricorso alle varie componenti territoriali, mobili e speciali dell’Arma dei Carabinieri, il cui impiego consente di affermare in maniera capillare l’autorità dello Stato sul territorio – sono state condotte con il coordinamento della Direzione Distrettuale Antimafia  della Procura di Reggio Calabria, diretta dal  Procuratore distrettuale  Giovanni Bombardieri.

STRANGIO, pluripregiudicato e più volte indagato nell’ambito di operazioni antidroga, è considerato un vero e proprio broker del narcotraffico internazionale, in grado di gestire in prima persona ingenti approvvigionamenti di cocaina dal sud America.

È stato infatti più volte riscontrato nel corso del tempo (su tutte, le operazioni “Revolution” della DDA reggina e “Dionisio” della DDA di Milano) come STRANGIO Francesco abbia preso parte attiva nell’ambito delle attività di narcotraffico di una più ampia organizzazione, saldamente legata al territorio ed alle cosche di ‘ndrangheta della Locride, le quali controllavano e dirigevano tutte le attività illecite con una capacità di proiezione e di infiltrazione su tutto il territorio nazionale. Le indagini, infatti, hanno permesso di constatare come i membri dell’organizzazione disponessero di basi logistiche ed appoggi in tutta Italia e nei principali paesi europei, quali Germania, Olanda e Belgio, funzionali ad assicurare l’ingresso e lo smistamento dei carichi di cocaina in Europa. In particolare STRANGIO, in stretta collaborazione con Pizzata Bruno cl. ’59, vertice dell’organizzazione che attualmente sta scontando in carcere una condanna a 30 anni di reclusione, ha personalmente preso parte alle trattative d’acquisto con i narcos sudamericani e ha organizzato i trasferimenti dello stupefacente a bordo di navi cargo con carichi di copertura in diversi porti del nord Europa (quali Amburgo ed Anversa). STRANGIO, forte dell’esperienza acquisita nei trasferimenti transfrontalieri e dei contatti con i produttori sudamericani, ha avuto un ruolo attivo anche nel finanziare le importazioni, coinvolgendo altri “investitori” ai lucrosi traffici di stupefacente.

Da oltre un anno, ormai, il latitante aveva trovato sicuro rifugio spostandosi tra diversi centri del cosentino, fino a giungere da un paio di settimane circa nel comune di Rose, dove aveva individuato nella mansarda all’ultimo piano di un tranquillo condominio il luogo ideale per sottrarsi alla condanna, continuando a gestire i propri traffici illeciti. All’interno dell’abitazione i Carabinieri hanno rinvenuto svariate carte di identità ed un passaporto intestati a terzi, acquisiti per essere contraffatti con la sostituzione della fotografia. Inoltre, STRANGIO aveva con sé denaro contante (circa 8.000 €) e nell’appartamento sono stati rinvenuti tre telefoni cellulari parzialmente bruciati all’interno di un camino, due valigie già pronte per una rapida partenza e tracce di cocaina su alcuni mobili. Tuttavia, l’irruzione repentina dei militari – che hanno dovuto abbattere la porta blindata dell’appartamento servendosi di un ariete – non ha lasciato alcun margine di fuga a STRANGIO ponendo fine alla sua latitanza.

L’arrestato, che dovrà scontare la pena di 14 anni di reclusione e 60.000 € di multa, è stato tradotto presso la casa circondariale di Cosenza a disposizione dell’Autorità Giudiziaria.

Per approfondire http://www.strettoweb.com/2019/02/reggio-calabria-arrestato-francesco-strangio-latitante-ndrangheta/804894/#JkXfC2J0fhooeQzm.99

Toh!, in Valle D’Aosta non c’è solo la ‘Ndrangheta ma anche la massoneria

Tra le Alpi si rivede, in scala ridotta, una dinamica sofisticata, di quelle presenti in Calabria e in Sicilia (soprattutto a Trapani) finite sotto la lente della Commissione antimafia. L’intreccio tra criminalità organizzata e massoneriasi stava riproponendo anche nel Nord d’Italia, ad Aosta. Protagonisti alcuni personaggi importanti della locale di ‘ndrangheta smantellata mercoledì dai carabinieri e dalla Direzione distrettuale antimafia di Torino nell’ambito dell’operazione “Geenna”.

Loro sono Antonio Raso e Nicola Prettico. Il primo è considerato dagli inquirenti uno dei capi della locale anche per il suo ruolo di collegamento con la politica aostana. Il secondo, invece, è un “partecipe”, ma ha una caratteristica: è stato eletto al consiglio comunale di Aosta nel 2015. Entrambi hanno l’interesse per grembiulini, squadre e compassi, riti e riunioni segrete. “Quel che va subito sottolineato però – si legge nell’ordinanza di custodia cautelare – è come l’affiliazione alla massoneria di alcuni dei partecipanti del locale di Aosta rappresenti un ulteriore elemento di collegamento con esponenti che ricoprono ruoli di rilievo nel settore economico, imprenditoriale e politico sia della società civile valdostana, sia al di fuori dei confini regionali”.

I fatti avvengono nell’estate 2015, dopo l’elezione di Prettico. Ruotano intorno a Giuseppe Scidone (non indagato), calabrese di Palmi residente a Mentone, dove – annotano i carabinieri – ha costituito il circolo “Garibaldi”, ufficialmente un’associazione per assistere gli italiani in Francia, ma forse più probabilmente una loggia massonica, crede la polizia transalpina. È stato responsabile dellaGran Loggia del Gibuti, poi membro della loggia “Janus” a Mentone e infine della “Merouge” di Monaco, legate alla Gran loggia nazionale di Francia e in rapporti con il Grande oriente d’Italia. Da qui, però, si sposta ad Aosta, dove fonda un’obbedienza tutta sua, la “Gran Loggia Non Nobis”, dal motto dei cavalieri templari di cui Scidone si dice appartenente.

Scidone vuole far affiliare alla sua loggia il consigliere comunale, ma lui – vista l’esclusione del suo amico, Vincenzo Marrapodi (ex sindaco di San Giorgio Morgeto, Reggio Calabria) – non accetta. Chi accetta, invece, è Raso che il 19 settembre, dentro una taverna nel centro città, diventa cavaliere dell’Ordine mondiale dei templari insieme a Paolo Contoz, ex consigliere regionale della “Stella alpina”. Sempre lì il giorno dopo “avveniva la costituzione della loggia massonica Aosta n. 1 San Fantino dell’obbedienza massonica ‘No Nobis’”, a cui partecipavano Scidone, la compagna, Raso e Domizio Cipriani (Gran priore dell’ordine cavalleresco) “citato con il suo inconfondibile nome” e inoltre “probabilmente Contoz”. Tutto a norma, secondo il gip: “Allo stato non vi sono elementi per ritenere che la loggia massonica della quale fanno parte alcuni degli indagati abbia le caratteristiche delle associazioni segrete vietate”, quelle citate dalla “legge Anselmi”.

Dopo la creazione di questa loggia, il presunto boss e il massone volevano “affiliare nuovi massoni, cercandoli tra personaggi influenti dell’amministrazione e della classe politica regionale”. Prettico, invece, cerca di restare in una loggia del Grande Oriente (la principale obbedienza massonica) e spiega a un altro fratello massone (Gianluca De Lucia, della Gran Loggia di Gibuti, non indagato) che vuole ricominciare a Torino: “Voglio ripartire con un po’ più di serietà”.

Anche in questo ambito – è scritto nell’ordinanza – la locale di Aosta si muoveva secondo “schemi ricorrenti per le compagini di criminalità di stampo mafioso” che vogliono creare “legami con detta associazione segreta” fortificando il sodalizio “mediante soggetti loro stessi vincolati a regole interne di solidarietà e segretezza”. Questo meccanismo era stato notato anche dalla commissione parlamentare antimafia della scorsa legislatura che aveva studiato i legami tra mafie e massoneria a partire dai casi della Sicilia e della Calabria. Grazie ai militari della Guardia di finanza, la commissione aveva acquisito gli elenchi (incompleti) degli iscritti e fatto compiere degli accertamenti. “La disamina ha dimostrato la presenza di un non trascurabile numero di iscritti alle logge(circa 190) coinvolti in vicende processuali o interessati da procedimenti di prevenzione, giudiziari o amministrativi”. Non erano tutti.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/01/30/ndrangheta-in-valle-daosta-negli-atti-lintreccio-tra-i-clan-e-la-massoneria-volevano-affiliare-i-politici-locali-alle-logge/4932605/

Far West Cadorago

Era il 2014 quando, nella mia insistente curiosità per la mafia travestita di niente nella placida Lombardia, iniziai a parlare di Cadorago.

Sì, lo so, non vi dice niente.

Siamo in provincia di Como. A Cadorago pascola Bartolomeo Iaconis (‘ndranghetista certificato da sentenza di metà degli anni ’90) e soprattutto ci fu il commento solitario e sconsolato dell’attuale responsabile area Polizia Locale Marco Redaelli che raccontò il clima di impunità che si respirava in paese. Se avete tempo e voglia lo trovate nel mio piccolo blog, qui.

Furono in molti a prendersela con me in quel periodo, sempre con i soliti modi: qui si sta tranquilli, vedi la mafia dappertutto, ma figurati, erano le frasi più gentili che mi venivano rivolte. Anche Iaconis si risentì. E vabbè, me ne feci una ragione.

Bene, oggi arriva una notizia (che sembra piccola piccola ma non lo è, in questo periodo di nemici immaginari e di mafie tranquillamente ignorate) che vale la pena leggere:

«Il mandante e l’esecutore materiale. Dieci anni dopo l’omicidio di Franco Mancuso, autotrasportatore di 35 anni freddato con tre colpi di pistola in un bar di Bulgorello, frazione di Cadorago, all’alba di oggi i carabinieri hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare in carcere per due persone accusate di essere i responsabili di quel delitto. Un’esecuzione di ‘ndrangheta, secondo gli inquirenti, che sono certi ora di aver chiuso il cerchio, accertando anche il movente dell’assassinio, una punizione per uno sgarbo fatto dalla vittima a uno degli arrestati. L’operazione delle forze dell’ordine è scattata alle prime ore del mattino. I carabinieri del reparto operativo e del comando provinciale di Como hanno eseguito un’ordinanza emessa dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano su richiesta della direzione distrettuale antimafia. I destinatari sono Bartolomeo Iaconis, 60 anni, originario di Giffone, in provincia di Reggio Calabria, già condannato per associazione di tipo mafioso e considerato uno degli esponenti di spicco del Locale di ‘ndrangheta di Fino Mornasco e Luciano Rullo, comasco di 51 anni. Per l’accusa, Iaconis è il mandante del delitto e Rullo l’esecutore materiale. Il killer, come fanno sapere i carabinieri .»

La verità è un bene prezioso, per questo qualcuno vuole risparmiarla, ma prima o poi arriva.

(Grazie a Rossella Pera per la segnalazione)