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Antimafia

Minniticrazia, dal “macello” della Diaz ai vertici dell’Antimafia

L’ultimo regalo è nascosto (male) tra il mazzo di nomine natalizie e richiama la scia di sangue rimasto sulle pareti della scuola Diaz nel luglio del 2001: Gilberto Caldarozzi è stato condannato per i fatti di Genova a tre anni e otto mesi per falso (in via definitiva), ritenuto responsabile della fabbricazione di prove false che sono servite per “coprire” la violenza della Polizia contro ragazzi inermi.

Una condanna odiosa, deprecabile e grave che avrebbe presumibilmente pesato sulla carriera di qualsiasi impiegato pubblico ma che evidentemente non ha frenato la carriera di Caldarozzi che nei cinque anni di interdizione si è occupato da consulente della sicurezza delle banche e poi è entrato nell’orbita di Finmeccanica (del suo ex capo De Gennaro) per diventare nei giorni scorsi il vice direttore tecnico operativo della Direzione Investigativa Antimafia, il numero 2 della DIA.

Gli strani percorsi della meritocrazia italiana, e peggio ancora della Minniticrazia, portano quindi in un ruolo di prestigio uno di quelli che, secondo la sentenza di Cassazione, “hanno gettato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero”. Così, in scioltezza.

E come nota il giornalista Marco Preve (che ha scovato questa storia) aspettiamo con ansia che si pronuncino le grandi firme del giornalismo italiano (che scrivono di antimafia e intelligence) su una nomina che, dice Preve, “espone tutto il mondo dell’antimafia a un pericolo enorme: quello della totale inattendibilità. Se uno dei più importanti funzionari della polizia italiana è stato condannato per il più infame dei reati dei servitori dello Stato, ovvero la falsa prova, la falsa accusa, che per di più serviva a coprire le imprese di una banda di torturatori, ebbene se un soggetto del genere dopo essere stato condannato in via definitiva a una pena pesantissima, può diventare il numero due dell’esercito dell’antimafia italiana chi potrà mai garantire sulla qualità della raccolta delle prove, sul rispetto dei diritti da parte dell’intelligence italiana nella lotta al crimine organizzato?”.

Buon martedì.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2017/12/26/minniticrazia-dal-macello-della-diaz-ai-vertici-dellantimafia/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui.

‘Ndrangheta, arrestato il latitante Antonio Strangio: era in Germania

Nonostante dovesse scontare “solo” 19 mesi di carcere e fosse sottoposto “solo” all’obbligo di dimora, dal 2012 si trovava in Germania per sfuggire alla condanna per intestazione fittizia di beni. Il latitante Antonio Strangio di San Luca, conosciuto con i soprannomi “TT” e “u Meccanicu”, è stato arrestato a Moers.

La cattura è avvenuta nei giorni scorsi da parte della polizia tedesca che, su indicazione dei carabinieri, ha scovato il ricercato sul quale da settembre pendeva una richiesta di mandato d’arresto europeo emesso dalla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria. Ritenuto contiguo alla cosca “Pelle-Vanchelli”, Antonio Strangio è stato scovato vicino a Duisburg, teatro della strage di Ferragosto, consumata nel 2007, da cui è scaturita l’indagine nella quale è stato coinvolto per intestazione fittizia.

I carabinieri sono risaliti a “TT” analizzando i contatti che lui ha avuto prima di darsi alla macchia. Gli investigatori, infatti, hanno verificato ogni utenza da lui contattata in passato e ogni domicilio o dimora in cui avesse trovato ospitalità in Italia e all’estero. Tutti gli elementi portavano alla cittadina tedesca di Moers dove, in passato, era stata riscontrata la presenza di numerosi affiliati alla stessa cosca.

Meritocrazia: il nuovo numero 2 dell’antimafia è un condannato per la “macelleria messicana” della scuola Diaz

(Marco Preve per Repubblica)

Più che la rabbia della vittima c’è il senso di sconfitta del cittadino di fronte al Potere, negli occhi di uno degli ex ragazzi che nel luglio del 2001 attraversarono le notti della macelleria messicana della Diaz e del carcere cileno di Bolzaneto.
Gilberto Caldarozzi, condannato in via definitiva a tre anni e otto mesi per falso, ovvero per aver partecipato alla creazione di false prove finalizzate ad accusare ingiustamente chi venne pestato senza pietà da agenti rimasti impuniti, è oggi il numero 2 – Vice direttore tecnico operativo- della Direzione Investigativa Antimafia, ovvero il fiore all’occhiello delle forze investigative italiane, la struttura alla quale è affidata la lotta al cancro criminale.
La nomina, decisa dal ministro dell’Interno Marco Minniti, passata quasi in sordina ed ignorata dalla politica, risale a poche settimane fa.

Se ne sono accorti, quasi casualmente nei giorni scorsi i reduci del Comitato Verità e Giustizia per Genova, un gruppo formato da ex arrestati della Diaz e di Bolzaneto e dai loro famigliari.
“Molti dei ragazzi tedeschi, vittime della polizia nel luglio 2001 – racconta un membro del Comitato – spiegano di avere provato paura quando, ritornati in Italia per i processi o per le vacanze hanno incontrato agenti in divisa. Mi chiedo come si possa dire a queste persone che l’Italia è cambiata se uno dei massimi dirigenti del nostro apparato di sicurezza è oggi proprio colui che ieri fece di tutto per accusarli ingiustamente e coprì gli autori materiali dei pestaggi e delle torture”.

Caldarozzi, ex capo dello Sco, la Sezione criminalità organizzata, considerato un “cacciatore di mafiosi”, per la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo è invece uno dei responsabili dei comportamenti di quella notte del 2001 e dei successivi comportamenti degli apparati di Stato, che sono valsi al nostro paese due condanne per violazione alle norme sulla tortura. Scrissero i giudici della Cassazione per Caldarozzi e gli altri condannati: “hanno gettato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero”. Non esattamente una medaglia da inserire nel proprio curriculum.

D’altra parte, a luglio di quest’anno sono scaduti i cinque anni di interdizione dai pubblici uffici e i dirigenti condannati per la Diaz che non erano andati in pensione sono rientrati in polizia.
In un intervento sulle sentenze della Cedu, pubblicato sul sito Questione Giustizia di Magistratura Democratica, il pm del processo Diaz Enrico Zucca affronta il caso Caldarozzi: “L’ultimo dei rientri, che si fa fatica a conciliare con quanto espresso nei confronti del condannato in sede di giudizio di Cassazione, è quello che riguarda l’attuale vice-capo della Dia, che vanta così nel suo curriculum il “trascurabile” episodio della scuola Diaz”.

Il capo della polizia, il prefetto Franco Gabrielli, in un’intervista a Repubblica dell’estate ha voluto finalmente affrontare il tema G8 senza tabù, dichiarando che lui al posto di “Gianni De Gennaro (allora capo della polizia oggi presidente di Finmeccanica, ndr) si sarebbe dimesso”. A quanto si sa, i funzionari rientrati in polizia sarebbero stati destinati a ruoli non di primo piano. Ma Caldarozzi è sfuggito a questa logica. Essendo la Dia una struttura che dipende direttamente dal Ministero, per lui, che vanta con Minniti e con il gruppo De Gennaro un’antica amicizia, si sono spalancate le porte dei piani alti.
Il suo esilio, per altro non è stato quello di un appestato. Gli anni di interdizione li ha trascorsi lavorando come consulente della sicurezza per le banche e poi come consulente per la Finmeccanica dell’ex capo De Gennaro. Si parlò anche di “collaborazioni” con il Sisde, i servizi segreti, proprio come, sempre a stare alle voci, si racconta intrattenga oggi il anche pensionato Franco Gratteri, ex capo della Direzione centrale anticrimine, il più alto in grado fra i condannati della Diaz.

Nonostante l’Italia, tra molte contestazioni e distinguo, si sia dotata da qualche mese di una legge sulla tortura, sembra essere completamente inevaso uno degli aspetti più volte ricordati dai giudici europei. Quello che riguarda non gli autori materiali delle torture bensì tutta la scala gerarchica e i regolamenti interni che non provvedono a isolare i torturatori e chi li ha coperti nelle fase preliminare delle indagini, e che poi non provvede, se non a radiarli, perlomeno a bloccare le progressioni di carriera, o in estremo subordine ad assegnarli ad incarichi non operativi. Diciassette anni dopo aver disonorato – lo dicono, per sempre, i giudici della Cassazione, anche se molti poliziotti e altrettanti politici non hanno mai accettato questa sentenza – la polizia italiana, Gilberto Caldarozzi viene premiato con una delle poltrone più importanti della lotta al crimine. La “macelleria messicana” è stata archiviata dallo Stato.

La ‘ndrangheta e la lingua italiana: ex prof “arruolato” per riscrivere in bello stile le regole dei padrini

(Ottavia Giustetti per Repubblica racconta una storia che merita di essere letta)

Anche le ‘ndrine hanno una loro “accademia della Crusca”: impiegano personaggi acculturati per scrivere e custodire le regole di un rituale segretissimo, la “favella”, con l’obiettivo di affiliare fino alle più alte cariche dello Stato. Sono i cosiddetti “custodi delle regole” incaricati dalle potenti famiglie della ‘ndrangheta di mettere ordine e bella scrittura nei manuali con le “istruzioni” per battesimi e affiliazioni. Francesco Galdi,  laureato, ex insegnante, dice di essere un di loro. “I boss Carmine Chirillo e Franco Giampà mi incaricarono di scrivere le regole, ero uno dei pochi custodi, saremo in quattro o cinque, che dovevamo correggere formule e rituali perché erano state scritte in modo sgrammaticato”, ha raccontato il testimone d’eccezione oggi in aula a Torino, al processo d’appello Minotauro-bis.

Collaboratore di giustizia, arrivato dall’Emilia Romagna (ma originario di Figline Vegliaturo in provincia di Cosenza), Galdi dice di conoscere molto bene i meccanismi più segreti che governano le ‘ndrine della penisola. “Chirillo e Giampà erano interessati alla riscrittura perché Cirillo era considerato la persona più importante del luogo – ha raccontato – aveva su di sé 35 o 40 omicidi, solo una ventina dei quali contestati, mentre Giampà era a capo di una guerra di ‘ndrangheta che ha fatto oltre cento morti, era uno della cupola, degli incappucciati, colegato coi Bellocco di Rosarno: parliamo del gotha della ‘ndrangheta”. Per questo lo hanno ingaggiato.

Galdi, che ha una condanna definitiva per l’operazione “Overloading” della Dda di Catanzaro, si avvicinò al mondo degli stupefacenti quando capì che si poteva ottenere un prodotto similie alla cocaina senza principio attivo, con mannite, etere e altre sostanze psicoattive. Ma il suo punto di forza è stato conoscere i segreti della finanza – curava gli interessi della familia Chirillo di Paderno Calabro e per il clan Lanzino – e soprattutto la sintassi forbita. “Mi vennero insegnate regole, segni convenzionali di riconoscimento reciproco creati per rendere più difficile la captazione da parte delle forze dell’ordine” ha rivelato a luglio in interrogatorio davanti al pm Monica Abbatecola.

Per farsi riconoscere in carcere, ad esempio, si fa così: “Quando entri riconosci subito i calabresi e loro conoscono te. Ci sono frasi, battute convenzionali, anche segni come toccarsi il mento o sfiorarsi il pizzetto, è un modo per presentarsi come santista perché si ricordano Garibaldi e Mazzini che avevano la barba. Se chi sta davanti a me non reagisce non è affiliato, non è “fatto”. Se invece lo è e si sfiora a sua volta la barba si dichiara santista e “si riserva”, che significa che mi farà sapere oltre”.

La notizia a quel punto viene passata in carcere “e da quel momento ti arrivano tutte le informazioni utili”. Galdi ha ricostruito il ruolo del pentito Domenico Agresta, figlio di Saverio, il “boss bambino” che a soli vent’anni ha già la dote di padrino. “Saverio era affiliato – ha raccontato – aveva una dote altissima, o di stella polare o di templare. Io conosco solo fino alla stella”. Della società minore sono il “picciotto”, il “camorrista” e lo “sgarrista”. Della società maggiore: “santista, vangelo, trequartino, quartino e padrino”. Fino a qui si chiamano “fratelli di crociata”. “La crociata non è una dote ma un insieme, un tipo di classificazione che racchiude le doti della minore e della maggiore, a simbologia ci sono le croci con la lametta messa sotto il pollice”. Quindi inizia l’insieme della “stella polare” che racchiude la “stella”.  “Ci sono anche altre doti come cavalieri templari, infinito, la luce ci cui non conosco il rito – ha detto – cariche speciali per magistrati, avvocati e medici”.

Le formule di cui Galdi si è occupato “sono fogli volanti, regole scritte che vengono imparate a memoria: non posso escludere che esista un libro che li custodisca tutti, anche perché chi lo detiene dovrebbe sapere tutti i riti, cosa che comporta una dote altissima. Nel rituale del trequartino e del vangelo vengono inseriti nomi che quasi nessuno ripete. Del resto ci sono simbologie che sono state cambiate proprio a fronte delle collaborazioni con la giustizia, per rendere difficile la decifrazione dei segni da parte degli investigatori”.

Letizia in cima al mondo

Il New York Times ha da poco pubblicato una lista di 11 donne scelte tra quelle incontrate dai giornalisti nell’anno appena trascorso. La lista è in realtà una rassegna di pezzi su personalità varie sparse per il mondo, il genere di ritratti che dal 2002 vengono pubblicati nella rubrica “Saturday Profile”, con lo scopo di raccontare ai lettori del New York Times personalità interessanti e straordinarie ancora poco conosciute negli Stati Uniti. Secondo Kyle Crichton, l’autrice della rassegna, il profilo più interessante di quest’anno è stato il ritratto scritto da Kiki Zhao della poetessa Yu Xiuhua, una donna con paralisi cerebrale che ha vissuto la maggior parte dei suoi 41 anni in una fattoria, scrivendo a un tavolo basso. Non ha mai finito il liceo e dice di aver imparato a scrivere prima che a leggere. Ora, viene invitata in posti come la Stanford University e respinge i paragoni con Emily Dickinson.

Tra gli 11 pezzi elencati dal Nyt spicca il bellissimo ritratto, firmato Elisabetta Polovedo, della fotografia Letizia Battaglia (82 anni), accompagnato da una serie di foto scattate da Gianni Cipriano nel suo appartamento di Palermo. È proprio nella sua città natale, all’interno dei Cantieri culturali alla Zisa, che, dopo una lunga gestazione, a novembre la fotoreporter ha inaugurato il Centro Internazionale di Fotografia, di cui è direttrice. L’evento è arrivato alla fine di un anno di celebrazione, con la retrospettiva del Maxxi di Roma Letizia Battaglia. Per pura passione che ha chiuso ad aprile. Con le sue potentissime immagini in bianco e nero e i suoi reportage in prima linea sui luoghi (e i corpi insanguinati) della mafia, Letizia Battaglia ha scosso e continua a scuotere la storia della fotografia contemporanea.

(fonte)

Mafia a Brescello: dove gli studenti hanno fatto la rivoluzione

Ho avuto il privilegio di conoscere Elia, uno dei ragazzi di Cortocircuito, e partecipare a qualche evento con lui. E me lo ricordo bene il suo viso con il sorriso di chi sa di fare le cose giuste e si rende conto di poter essere portatore di cambiamento. Per questo vale la pena leggersi l’articolo di Claudio Del Frate per il Corriere della Sera. E farne un esempio. Eccolo qui:

 

Tutto cominciò con un gruppo di studenti liceali che giravano armati di videocamera ponendo domande tanto candide quanto impertinenti: «Scusi, lei lo sa che Tizio è ritenuto vicino a famiglie della ‘ndrangheta?». E’ andata a finire che pochi giorni fa una sentenza del Consiglio di Stato ha confermato lo scioglimento del Comune di Brescello, in provincia di Reggio Emilia, per infiltrazioni mafiose. E i giudici, nelle loro motivazioni, danno atto che a scoperchiare il pentolone del malaffare era stata anche la videoinchiesta confezionata da quegli studenti animati da passione civile e curiosità. Il loro lavoro è finito infatti prima agli atti della maxi inchiesta «Aemilia», sul business dei clan calabresi tra Reggio, Modena e Bologna e ora nel fascicolo che ha sciolto il comune di Brescello e tolto la fascia tricolore al sindaco Marcello Coffrini, del Pd.

 

Tutti i favori alle famiglie

 

Brescello, noto al mondo per essere il borgo dove Guareschi ambientò le vicende di Peppone e don Camillo, si sarebbe risparmiato il triste primato di essere il primo comune dell’Emilia a essere esautorato per via dei condizionamenti subiti dalla malavita organizzata. Le carte esaminate dal Consiglio di Stato fanno riferimento a una dozzina di elementi che hanno condotto alla sentenza: varianti al prg richieste da ditte a cui non era stata chiesta l’informativa antimafia, l’assunzione di personaggi «legati a vario titolo a esponenti» delle cosche, l’affidamento di appalti a ditte poi raggiunte da interdittive antimafia, minacce a politici locali, sussidi sociali concessi a «soggetti controindicati». Ma al primo posto (almeno in ordine cronologico) figurano «le dichiarazioni e il comportamento del sindaco in occasione di una intervista alla tv web». Quest’ultima altro non è che un lungo colloquio concesso ai giovani dell’associazione antimafia «Cortociruito» composta da liceali e universitari di Reggio Emilia.

 

Un’onda che arriva fino in Germania

 

Elia Minari, 22 anni, oggi studente di giurisprudenza a Bologna, è stato uno degli autori di quel documentario amatoriale e all’inizio pubblicato (era l’agosto del 2014) senza troppe pretese su Youtube. «All’inizio siamo stati bersaglio di insulti, denigrazione, persino di una manifestazione di piazza ma oggi le cose sono cambiate – commenta Elia facendo un bilancio della sua esperienza -. Allora c’era chi sottovalutava o negava la presenza della ‘ndrangheta nella zona di Reggio Emilia, oggi nessuno la può negare. Ci sono le sentenze che parlano». Elia ha appena pubblicato un libro («Guardare la mafia negli occhi», Rizzoli) viene invitato nei Comuni, nelle università, persino in Germania e in altri paesi esteri a raccontare la sua parabola e a spiegare come sia pericoloso rimuovere il problema, specie nei luoghi dove la presenza mafiosa appare sfumata.

 

«Mafia? Non rispondo»

 

Ma cosa aveva detto davanti alla videocamere il sindaco di Brescello tanto da suscitare un simile vespaio? Che secondo lui Franco Grande Aracri, personaggio al centro dell’inchiesta «Aemilia» era una persona educata e per bene, di basso profilo e che contaminazioni mafiose in quel territorio non erano percepibili. Le inchieste hanno poi raccontato tutta un’altra storia, il cui filo è ripreso ora dalla sentenza del Consiglio di Stato. Che valorizza il lavoro di Elia e di «Cortocircuito». «L’atteggiamento di chiusura e sospetto – scrivono i giudici – non viene affermato sic et simpliciter ma si richiama alla reazione avuta da alcuni cittadini intervistati nel corso del servizio giornalistico i quali – solo a sentire nominare la parola mafia o il nome del condannato per reati di mafia residente in paese, hanno dichiarato di non voler rispondere».

 

Il boss? «Molto composto ed educato»

 

Si entra poi nel vivo delle frasi rilasciate dal sindaco ai ragazzi.«Sul punto – ecco un altro passaggio del verdetto – non è in alcun modo credibile che il primo cittadino vissuto e cresciuto a Brescello non fosse informato sulle vicende giudiziarie di Grande Aracri trattandosi di persona più che nota nel contesto locale. Le dichiarazioni del sindaco e in particolare le definizioni della persona come soggetto “sempre molto composto, educato, sempre vissuto a basso livello” sono da considerarsi senz’altro gravi e dimostrano scarsa sensibilità riguardo alla presenza della criminalità organizzata sul territorio comunale». Ma in più egli «nega consapevolmente tale fenomeno come dimostrano le risposte da lui date alla domanda se la criminalità organizzata costituisse un problema reale nel comune di Brescello».

SondaLife recensisce lo spettacolo Mafie Maschere e Cornuti

(fonte)

 

(Visto il 28 novembre 2017 al Teatro della Cooperativa)

Di e con Giulio Cavalli

UNA RISATA CHE SBRICIOLA

 

Il Teatro Cooperativa prosegue, con la giullarata antimafiosa Mafie, maschere e cornuti di e con Giulio Cavalli, nel presentare pièces di solido teatro civile.

Giulio Cavalli, attore e autore teatrale da tempo minacciato, e quindi protetto dalle forze dell’ordine, per la sua attività antimafia, è giullare dell’oggi e senza l’ausilio di costumi e scenografie recupera proprio dalla tradizione giullaresca, rinverdita e rinvigorita negli ultimi decenni del XX secolo da Dario Fo, uno dei modi cardini del teatro popolare: porre alla berlina i potenti con lazzi e sberleffi per smitizzare tutto quello che ”ci fanno credere invincibile ed invece non lo è”. Lavorando soprattutto sulla parola Cavalli, che è fermamente convinto, a ragione, che la parola contro la mafia funziona, propone un teatro diretto che dà fastidio. Nomi, cognomi, fatti e fattacci, aneddoti snocciolati uno dietro l’altro proposti con irriverente ironia che fanno ridere ma inchiodano lo spettatore a riflettere.

Tutto lo spettacolo gira attorno a una potente considerazione di Mark Twain, citata da Cavalli durante lo spettacolo: “Non bisogna avere paura di ciò che non si conosce ma bisogna temere ciò che crediamo vero e invece non lo è”. Figure/figuri, da Riina a Provenzano, ai loro epigoni e uomini della politica e della finanza contigui alla mafia, sono sbriciolati attraverso il suscitare risate. Anche una risata fa male ai potenti o ritenuti tali.

Lo spettacolo si conclude con un finto e sollecitato bis dedicato alla figura poco nota ai più, scrivente compreso, dimenticata, e ancora da chiarire, di Bruno Caccia, magistrato ucciso a Torino nel 1983 nell’attimo di libertà, allontanata la scorta, in cui passeggiava col cane. A ragione Cavalli propone questo ricordo staccato dal resto del corpo della giullarata proponendo un momento intenso, quasi lirico, di teatro tout court.

Affianca Giulio Cavalli il bravo fisarmonicista Guido Baldoni in realtà sottoutilizzato in uno spettacolo, che forse ha bisogno di qualche limatura, ma che è da non perdere.

Mafie, maschere e cornuti rimarrà in scena al Teatro della Cooperativa fino al 6 dicembre.

 

(Adelio Rigamonti)

Agenti penitenziari a disposizione della ‘ndrangheta. A Bologna.

Storie dal nord che si occupa sempre troppo poco di mafia. (fonte)

 

Bologna, 10 novembre 2017 – Hanno rispettato le ‘regole’ impartite dai boss all’interno del carcere Dozza, picchiando selvaggiamente un altro detenuto che, invece, non ne voleva sapere di farsi sottomettere dai ‘padroni’ dell’ ‘ndrangheta. A loro, i militari del Ros, sono arrivati grazie ad un collaboratore di giustizia, scoprendo in questo modo l’esistenza di una gerarchia criminale all’interno del penitenziario. Sono stati arrestati all’alba di oggi due campani di 30 e 47 anni, residenti uno in città e l’altro a Bomporto coinvolti nella più vasta operazione condotta appunto dai militari del ROS e dai Comandi provinciali di Bologna, Modena e Reggio Emilia, che hanno dato esecuzione ad un’ordinanza di custodia cautelare, emessa dal gip del tribunale di Bologna, su richiesta della procura distrettuale Antimafia, nei confronti di 8 indagati, tra cui i due ‘radicati’ nel nostro territorio.

Quattro di questi devono rispondere di violenza privata e lesioni aggravate dalle modalità mafiose e gli altri quattro, tra cui due agenti della penitenziaria e due magrebini, di detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti tra le celle.

Le indagini, supportate da attività di intercettazione e da pedinamenti, sono state corroborate dalle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia, il principale nell’ambito del processo Aemilia ed hanno consentito di acclarare l’esistenza di una vera e propria gerarchia criminale instauratasi tra i reclusi nella casa Circondariale ‘Dozza’ di Bologna, con al vertice elementi della articolazione di ‘ndrangheta avente epicentro nella provincia di Reggio.

Parliamo dei detenuti calabresi Gianluigi Sarcone (fratello di Nicolino, esponente apicale della cosca ‘ndranghetista operante in Emilia- Romagna, e oggetto del procedimento Aemilia) e Sergio Bolognino, entrambi finiti in carcere a gennaio 2015 nell’ambito dell’operazione antimafia che, avvalendosi della forza di intimidazione derivante dall’appartenenza alla ‘ndrangheta, avevano imposto la loro autorità agli altri detenuti, obbligandoli a sottostare, con minacce e violenze, alle loro regole di convivenza.

Da qui, a marzo, il violento pestaggio ai danni di uno dei reclusi nella sezione ‘Alta Sicurezza’, i cui mandanti sono appunto Sarcone e Bolognino mentre i ‘picchiatori’ i due campani oggi individuati e ammanettati in città.

La vittima era stata punita poiché irrispettosa e refrattaria alle disposizioni imposte, a dimostrazione della supremazia riconosciuta agli ‘ndranghetisti da parte dei detenuti contigui a clan di camorra. L’indagine ha permesso anche di accertare come due agenti della penitenziaria avessero allacciato una fitta rete di rapporti illeciti con i reclusi ai quali veniva, tra l’altro, consentito il consumo di droga. Gli agenti sono finiti ai domiciliari, così come uno dei marocchini arrestato insieme ad un connazionale proprio per la cessione di droga tra le celle.

 

TELEFONI IN CARCERE – “I telefoni in carcere li forniscono le guardie penitenziarie“. È una delle frasi messe a verbale da Giuseppe Giglio, arrestato nel 2015 nell’inchiesta di ‘Ndrangheta ‘Aemilia‘ e poi divenuto collaboratore di giustizia, citate nell’ordinanza con cui il Gip di Bologna Alberto Ziroldi ha disposto le otto misure cautelari.

In un colloquio con il Pm della Dda Beatrice Ronchi, Giglio il 28 giugno 2016 parlò dei rapporti tra poliziotti penitenziari e detenuti campani nel carcere bolognese. “Ma qualsiasi cosa avevamo necessità, un tablet, cioè qualsiasi cosa loro ci avrebbero… perché le guardie, tra l’altro, lì sono quasi tutte napoletane, attenzione! E questi qua erano di Napoli. Ah ma se lì avesse messo delle intercettazioni ne avrebbe sentito delle belle!”, disse il pentito.

E ancora, a rafforzare il concetto: “Sì, me lo disse lo stesso Sergio Bolognino (uno degli arrestati di oggi, ndr), disse in quanto diciamo le guardie sono paesani loro, cioè sono proprio dello stesso paese. Sa, ma qualsiasi cosa ci serviva, diciamo anche a… diritti penitenziari, magari ci serviva qualche cosa, tramite questi napoletani ci arriva subito”.