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Antimafia

Aemilia: chissà quando ci diranno qualcosa le banche, sui rapporti con la mafia

(Paolo Bonacini per Il Fatto Quotidiano)

 

Al processo Aemilia tiene banco Antonio Valerio, fresco collaboratore di giustizia che ha deciso di vuotare il sacco nel giugno scorso. E’ un personaggio unico nella ndrangheta 5.0, come chiama la cosca emiliana per spiegare la distanza dalla mafia vecchio stampo, tutta “bacinella, lupara e cuppulicchia”. Uno “’ndranghetista a statuto speciale”, si definisce, che può fare in sostanza (quasi) tutto ciò che vuole in virtù di uno storico legame con il boss Nicolino Grande Aracri.

Ex boxeur, parla di spalle in videoconferenza, mostrando solamente la nuca segnata dalla cicatrice che gli regalò il killer Paolo Belliniquando cercò di ucciderlo nel 1999. Valerio è un uomo erudito per i canoni della ‘ndrangheta, utilizza le “linee di fuga del Brunelleschi” per illustrare l’organigramma funzionale della Famiglia emiliana e fa riferimento al “bosone di Dio” quando parla di accuse sospese nel vuoto. E’ soprattutto la memoria vivente della vita, della morte e dei miracoli che hanno caratterizzato trent’anni di inarrestabile ascesa in Emilia Romagna dei mafiosi provenienti da Cutro, in provincia di Crotone.

Fatture false all’incasso. Uno dei miracoli è la moltiplicazione dei soldi frutto di “un vorticoso giro di false fatturazioni” dicono gli atti processuali, che consentono di “presentarsi all’incasso presso istituti di credito se non compiacenti, certo scarsamente solleciti a esercitare i poteri di segnalazione previsti dalla normativa antiriciclaggio”. Il giro d’affari documentato tra il 2011 e il 2012, relativo alle sole operazioni inesistenti di società che stampano fatture false per frodare il fisco, è di oltre 17 milioni di euro.

Antonio Valerio racconta ai pm e in aula, durante una delle ultime udienze, quello che secondo lui è un caso esemplare di “banca compiacente”. Uno stimato imprenditore del comprensorio ceramico e uno stimato agente immobiliare utilizzano aziende di comodo per emettere assegni fasulli, chiamati “formaggio avariato”, e si affidano a lui per portarli all’incasso. Valerio trova la persona giusta nel direttore della filiale di Banca Carifirenze a Novellara, comune della provincia reggiana.

Gli assegni “avariati” e il direttore sedotto. “Andiamo a pranzo con lui e un nostro amico porta un paio di ragazze carine e disponibili. E ‘ste ragazze, piedino sotto, piedino là, questo qua comincia a perdere il lume della ragione. Poi si ragiona di aprire un conto bancario a una società, portare eventualmente sconti fattura, con il 70% consegnato subito, e questo qua dice: va beh, qual è il problema? Porta la società, la visioniamo, la giriamo, facciamo e voltiamo.”

Il gioco è fatto e la macchina del “formaggio avariato” che diventa denaro contante comincia a girare. Tanto bene che Valerio dice ai suoi complici: “Ma scusa, se noi mettiamo un assegno da 100 e me ne danno 70 subito, allora metti 200 e ce ne danno 140! Il direttore fa finta di non vedere, il vicedirettore la stessa cosa, il cassiere si piglia pure il suo, voglio dire, ma che ti frega a te”. “Alla fine”, dice Valerio, “penso che come danno gli abbiamo fatto alla Carifirenze circa 2milioni e 800mila euro. Solo io ho preso 200mila euro”.

Con o senza ragazze “disponibili” le indagini di Aemilia hanno messo in luce un numero preoccupante di sportelli bancari che accolgono con l’inchino i cassieri della ‘ndrangheta. Operazioni sospette vengono segnalate in filiali della Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza, della Banca Popolare di Verona, della Veneto Banca, del Banco San Paolo di Brescia, della Cassa di Risparmio di Cesena, della Banca Interprovinciale di Modena, oltre che nell’universo a parte degli sportelli di Poste Italiane spa.

Il funzionario teme i controlli: “Non caricare troppo…”. Il primo febbraio 2012 presso la filiale modenese della Tercas, la Cassa di Risparmio di Teramo, Vincenzo Mancuso, uomo chiave della cosca secondo l’Antimafia nel riciclaggio del denaro sporco, monetizza alcune decine di migliaia di euro che entrano ed escono dal suo conto aziendale. Un funzionario della banca gli dice in confidenza: “Enzo, con la massima serietà, non caricare troppo il fucile però… che quando uno fa troppi movimenti, troppe circolari, è inevitabile che qualcuno alzi le antenne, eh!”. Di quella banca nel 2015 sono andati a processo per associazione a delinquere, bancarotta fraudolenta e riciclaggio transnazionale l’ex direttore generale e l’ex presidente, assieme ad altre dodici persone.

Ma gli sportelli “amici” delle banche lavorano anche sull’usura. Racconta sempre Valerio che si utilizzavano due sistemi standard: il primo è un prestito che genera un interesse variabile dall’8 al 10% da pagare ogni dieci giorni. Quindi se ti presto 10mila euro, ogni 10 giorni tu mi paghi mille euro, ma il debito resta costante. Il secondo modo è sfruttare lo sconto fatture in banca: io ti presto sempre 10mila euro ma ti fatturo altrettanto e porto le fatture in banca dove mi vengono pagate salvo buon fine. Tu mi restituirai il prestito con un tasso del 20% entro i 60 o i 90 giorni di limite posto dalla banca per l’incasso.

Se la banca finananzia l’usura. In entrambi i casi è evidente che si può fare usura anche senza avere un euro in tasca, avendo una banca d’appoggio, come spiega bene Valerio al pm Mescolini: “Io pagavo alla banca l’8% annuale sui soldi che mi prestava e con quelli mi prendevo il 20% con l’usura ogni due o tre mesi, dottore. Faccia lei”.

L’altro collaboratore di giustizia del processo Aemilia, Giuseppe Giglio, il genio finanziario della cosca emiliana, l’ideatore delle complesse truffe carosello che sfruttavano le norme comunitarie europee sulle esenzioni da Iva, con le banche ci andava ancora più d’accordo dello stesso Valerio. Nel 2012 lui e la moglie Maria Curcio non hanno dichiarato redditi familiari: erano poveri senza lavoro. Ma la Direzione Antimafia di Bologna ha accertato che nello stesso anno Giglio era il reale proprietario di 245 proprietà immobiliari, 10 società, 39 polizze assicurative e infine 1008 rapporti bancari aperti in 51 diversi istituti di credito. Un bel record per un nullatenente.

Siamo sempre qui: Dell’Utri e Berlusconi indagati per le stragi del 1993

Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri sono di nuovo indagati come possibili mandanti delle stragi di mafia del 1993. La Procura di Firenze ha chiesto e ottenuto dal giudice delle indagini preliminari la riapertura del fascicolo a loro carico dopo aver ricevuto da Palermo le intercettazioni del colloqui in carcere del boss di Cosa nostra Giuseppe Graviano, effettuate nell’ambito dell’inchiesta sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. Sono i colloqui in cui il capomafia di Brancaccio diceva al suo compagno di detenzione, nell’aprile 2016, spezzoni di frasi come queste: «Novantadue già voleva scendere… e voleva tutto»; e ancora: «Berlusca… mi ha chiesto questa cortesia… (…) Ero convinto che Berlusconi vinceva le elezioni … in Sicilia … In mezzo la strada era Berlusca… lui voleva scendere… però in quel periodo c’erano i vecchi… lui mi ha detto ci vorrebbe una bella cosa…».

 

«Ti ho portato benessere»

 

Frammenti di conversazione, nei quali i riferimenti al fondatore di Forza Italia seppure in un contesto di non facile interpretazione, sono abbastanza chiari. «Nel ‘94 lui si è ubriacato perché lui dice ma io non posso dividere quello che ho con chi mi ha aiutato… Pigliò le distanze e fatto il traditore», dice ancora il boss condannato all’ergastolo per le stragi del ‘92 e del ‘93, arrestato a Milano nel gennaio 1994 , che in un altro passaggio afferma: «Venticinque anni fa mi sono seduto con te…Ti ho portato benessere, 24 anni fa mi è successa una disgrazia, tu cominci a pugnalarmi… Ma vagli a dire com’è che sei al governo, che hai fatto cose vergognose, ingiuste…».

 

Identità coperte

 

Su questi e altri brani di intercettazioni ricevute dai colleghi palermitani, il procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo ha delegato alla polizia giudiziaria lo svolgimento di alcune verifiche, e per farlo ha dovuto chiedere al gip di riaprire il fascicolo su Berlusconi e le stragi nella città dove sono concentrate le indagini sulle bombe del 1993 scoppiate a Firenze, Roma e Milano. I nomi dell’ex premier e dell’ex senatore Marcello Dell’Utri (che pure compare nei colloqui intercettati di Graviano, ed è attualmente in carcere per scontare una condanna a sette anni per concorso esterna in associazione mafiosa) sono stati iscritti con intestazioni che dovrebbero coprirne l’identità, come nelle altre occasioni.

 

Le confidenze di Graviano

 

È la terza volta, infatti, che si apre questo filone di accertamenti. Nella prima occasione «autore 1» e «autore 2», gli alias dei due esponenti politici, furono inseriti dopo le dichiarazioni di alcuni pentiti come Salvatore Cancemi e altri, che parlarono del loro coinvolgimento nella metà degli anni Novanta, ma tutto finì con un’archiviazione. La seconda fu nel 2008, dopo le confessioni del nuovo collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, giudicato attendibile in molte corti d’assise e da ultimo dalla Corte di cassazione che ha confermato alcune ulteriori condanne per la strage di Capaci; Spatuzza raccontò le confidenze fattegli proprio da Giuseppe Graviano, il quale gli disse che grazie all’accordo con Berlusconi e Dell’Utri «ci siamo messi il Paese nelle mani». Anche questa seconda indagine è stata archiviata.

 

Facoltà di non rispondere

 

Ora non c’è un pentito che parla, ma sono state le parole dello stesso Graviano a far riaprire l’inchiesta, sebbene sia molto difficile che a distanza di tanto tempo possa portare a qualcosa di concreto. Al processo di Palermo, chiamato a spiegare le sue parole registrate in carcere, Graviano ha preferito tacere e s’è avvalso della facoltà di non rispondere. E ieri, a Reggio Calabria, è cominciato il processo a suo carico per l’uccisione di due carabinieri nel gennaio ’94: un altro pezzo della presunta trattativa che avrebbe coinvolto anche la ‘ndrangheta.

(fonte)

A proposito di onore di uomini di merda: il boss che ordina di uccidere la figlia

Ecco, tanto per ricordare cos’è la mafia:

 

La figlia del boss mafioso di Bagheria, Pino Scaduto, arrestato oggi in un’operazione antimafia, avrebbe avuto una relazione con un maresciallo dei carabinieri e per questo il mafioso avrebbe ordinato al figlio di ucciderla. “Tua sorella si è fatta sbirra”, diceva il boss al figlio. Ma il giovane, 30 anni, temeva di finire in carcere. “Io ho 30 anni e non mi consumo per lui”, diceva ad un amico intercettato dai carabinieri. Nell’ operazione ”Nuova alba”, che stamane ha portato all’arresto di 16 persone, sono state ricostruite anche diverse estorsioni ai danni di imprenditori edili tra Bagheria e Altavilla.

L’operazione antimafia in corso è rivolta contro presunti esponenti del mandamento mafioso di Bagheria. I carabinieri del Comando Provinciale di Palermo, con l’ausilio di unità cinofile e di un elicottero, stanno eseguendo un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di 16 persone accusate a vario titolo di associazione mafiosa ed estorsione aggravata dal metodo mafioso. Il provvedimento è stato emesso dal gip del Tribunale di Palermo, su richiesta della Direzione distrettuale antimafia.

Pino Scaduto era stato scarcerato lo scorso aprile dopo essere stato arrestato nell’operazione Perseo del 2008. Secondo gli inquirenti avrebbe cercato di riprendere il comando della cosca di Bagheria. Il boss è adesso di nuovo in cella, assieme ad altri quindici presunti affiliati.

 

(fonte)

‘Ndrangheta, parla il pentito: “I servizi segreti ci mangiavano con i sequestri di persona”

(Lucio Musolino per Il Fatto Quotidiano)

 

Con la stagione dei sequestri di persona gestiti dalla ‘ndrangheta, ci mangiavano tutti: le cosche calabresi ma anche pezzi delle istituzioni che con le famiglie mafiose più potenti della provincia di Reggio non avrebbero esitato a sedersi allo stesso tavolo. Servizi segreti, poliziotti e mediatori che, in un modo o nell’altro, si sono spesi per dare un’immagine di uno Stato che reagisce all’Anonima sequestri. Anche a costo di entrare nelle sanguinarie dinamiche dell’Aspromonte non esitando a scarcerare boss della ‘ndrangheta come Vincenzo Mazzaferro e a far circolare, per tutta la Locride, una valigetta con dentro 500 milioni di vecchie lire. Erano i soldi che lo Stato ha pagato per la liberazione diRoberta Ghidini, sequestrata il 15 novembre 1991 a Centenaro di Lonato, in provincia di Brescia, e liberata in Calabria dopo 29 giorni. Un sequestro per il quale è stato condannato il boss Vittorio Jerinò al termine di un processo nelle cui pieghe, forse, ancora si nasconde il resto di una storia che, se confermata, dimostrerebbe come lo Stato non ha trattato solo con Cosa nostra per fermare le stragi del 1993. Lo ha fatto ancora prima, in Calabria, avventurandosi tra i sentieri dell’Aspromonte con i boss della ‘ndrangheta.

L’archiviazione della Procura di Brescia
“Dottori, queste sono cose delicate perché questi sono uomini di legge…”. Interrogato dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria Gaetano Paci e dai sostituti della Dda Stefano Musolino e Simona Ferraiuolo, il collaboratore di giustizia Nicola Femia sa che le sue dichiarazioni rischiano di riaprire storie vecchie e mai del tutto chiarite, nonostante i rapporti tra uomini in divisa e clan siano stati oggetto di un’indagine poi archiviata dalla Procura di Brescia per la quale – riportava un’Ansa del 1996 – “restano semplici sospetti insufficienti a sostenere delle accuse davanti a un tribunale”.

Quei sospetti, oggi, sono confermati dal boss Femia arrestato nell’inchiesta “Black monkey” sugli affari delle cosche calabresi in Emilia Romagna. Condannato in primo grado, Femia ha deciso di pentirsi. Ai magistrati della Procura di Reggio ha raccontato di non essere mai “stato affiliato alla ‘ndrangheta. Io praticamente ero un uomo ‘riservato’ di Vincenzo Mazzaferro”. I pm lo interrogano a giugno e il verbale finisce nel fascicolo del processo “Gotha” che vede alla sbarra la componente “riservata” della ‘ndrangheta, tra cui gli avvocati Paolo Romeo e Giorgio De Stefano. Non è un caso che nei capi di imputazione contestati nel processo ci sia anche il riferimento alla famiglia mafiosa dei Mazzaferro di Marina di Gioiosa Jonica.

Ai magistrati, Femia descrive gli anni in cui viveva in Calabria, sempre al fianco del boss Vincenzo Mazzaferro. Racconta di quando lo accompagnava a casa di don Paolino De Stefano e della famiglia Tegano, delle rapine commesse in gioventù e per le quali avrebbe dato una parte a un maresciallo dei carabinieri. Parla dei miliardi portati a Milano e in Vaticano: “Sono andato dentro le mura praticamente. – dice -Portavo i soldi a lui e c’era un garage, in una specie di alberghetto… portavo la macchina là e se la vedeva tutto lui”. Lui era un “certo Antonio” che aveva il compito di andare in Colombia dove i miliardi delle cosche si trasformavano in tonnellate di droga.

Una trattativa Stato-‘ndrangheta per liberare l’ostaggio
Ma è la seconda parte del verbale, quella dedicata ai sequestri di persona degli anni 80 e 90, che ha spinto il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo (nella foto) e il pm Stefano Musolino a inserire numerosi “omissis” per coprire i nomi pronunciati da Femia sulla trattativa Stato-‘ndrangheta per la liberazione di Roberta Ghidini. Fascicoli che, adesso, la Dda sta rispolverando per incrociarli con le dichiarazioni di Femia secondo cui quel sequestro “lo aveva fatto Vittorio Jerinò”. Per convincere quest’ultimo a rilasciare l’ostaggio, entrano in gioco i servizi segreti che – ricorda Femia – “si muovono con i soldi”. Ma i soldi non bastano: servono anche contatti, numeri di telefono, persone disposte a stare nel mezzo. In una parola, mediatori capaci di entrare in contatto con Jerinò. “E hanno trovato Vincenzo Mazzaferro” che però, in quel momento, era detenuto e doveva “uscire dal carcere”. Detto fatto: “I soldi tramite loro (i servizi, ndr) sono arrivati, so che si sono mossi ed è uscito Vincenzo Mazzaferro dal carcere. Era detenuto a Regina Coeli, a Roma, ed è uscito”. Quando la ‘ndrangheta prende un impegno, non ci sono dubbi che lo porti a termine: il boss parla con Vittorio Jerinò e gli dà i soldi che gli deve dare, liberano l’ostaggio e tutti amici.

“Vincenzo Mazzaferro ritorna in carcere? – domanda il procuratore aggiunto Paci – Cioè come esce?”. “No, che ritorna. Esce. Femia ricorda tutto quello che gli ha confidato Mazzaferro ma non ha le risposte a ogni domanda: “Farete le indagini voi per vedere che cosa è successo, io non vi posso dire niente perché sono fatti di Stato”.

Fatti di Stato e ‘ndrangheta. Servizi segreti e cosche che, almeno per quanto riguarda Mazzaferro, si parlavano attraverso un confidente, un informatore del quale Nicola Femia fa anche il nome: “Isidoro Macrì. Basta che vi informate alla questura di Reggio Calabria. Era l’autista… l’autista perché Vincenzo Mazzaferro era strano… questo Isidoro portava l’imbasciata avanti e indietro, faceva pure la persona normale… perché lui lo mandava… i rapporti con i marescialli glieli faceva tenere direttamente a lui e non a persone che magari erano di fiducia per non sputtanarsi”. A un certo punto, le cose cambiano. La ‘ndrangheta lascia stare i sequestri e il suo core-business diventa il traffico internazionale di droga.

Così la ‘ndrangheta decise di chiudere con i sequestri
“Hanno fatto in modo che non si dovevano fare più sequestri”. Per il pentito Femia è stato un vero e proprio accordo tra le famiglie della Locride: “All’epoca – dice – erano iniziati i traffici con la droga e calcolate che a Mazzaferro gli arrivavano 1000 chili di droga, 2000 chili di droga ogni tre mesi. Lui la pagava un milione e ottocentomila lire. La dava a tutte le famiglie a 10 milioni al chilo”. Con i sequestrati in Aspromonte e i controlli della polizia non si poteva trafficare in droga. Ecco perché ci fu un summit di ‘ndrangheta in cui si decise di chiudere con la stagione dei sequestri. Una strategia voluta dai boss Peppe Nirta, Vincenzo Mazzaferro e Pepé Cataldo, tutti morti ammazzati da lì a qualche anno e tutti in periodi in cui le loro famiglie non erano coinvolte in faide: “Di smettere con i sequestri. – fa mettere a verbale Femia – non gli è stato bene a qualcuno… a personaggi che lavorano con i servizi, non lo so a chi”.

 

Il pentito: “I servizi ci mangiavano con i sequestri”
Il collaboratore ha paura, il pm Musolino lo capisce e lo tranquillizza: “Non sia timoroso”. Femia continua e lascia intendere che dietro quegli omicidi potrebbero esserci moventi diversi da quelli esclusivamente mafiosi: “Chi lo doveva ammazzare Vincenzo Mazzaferro? – si domanda – Aveva la macchina blindata e non la prendeva più, con gli Aquino (clan rivale, ndr) aveva fatto la pace, chi lo doveva toccare?”. Le risposte il pentito non ce l’ha. Sa solo che “i servizi ci mangiavano con i sequestri. Se arrivavano cinque miliardi, due miliardi se li prendevano i servizi”.

Le bugie sul nuovo 41 bis (di Nando Dalla Chiesa)

(di Nando Dalla Chiesa, da il Fatto Quotidiano, 13 Ottobre 2017)

Ho stima e considerazione del ministro Orlando, con il quale ho anche collaborato sulle mafie al Nord. Ma la libertà di giudizio è irrinunciabile. Specie nei tornanti in cui il vento è a sfavore. La vicenda della “riforma” del 41-bis è una di queste. Alla mafia il carcere non è mai piaciuto, se non come residenza temporanea in cui accumulare potere e prestigio; luogo da cui dare ordini di morte, per brindare poi al loro successo. Figurarsi se poteva piacerle il carcere speciale.

E infatti per 25 anni non ha fatto altro che lavorare ai fianchi questa “eresia”. Basta ricordare le centinaia di 41-bis revocati dal ministro della Giustizia Giovanni Conso nel 1993. E poi l’ abolizione delle carceri speciali di Pianosa e dell’ Asinara con il governo dell’ Ulivo. Di cui i mafiosi detenuti in regime di isolamento furono informati prima ancora del parlamento. E poi le minacce ai parlamentari-avvocati inadempienti verso Cosa Nostra.

Finché nei primi anni duemila Ilda Boccassini notò che di fatto il 41-bis non esisteva più, tanto era stato annacquato. Sapemmo più di recente che nell’ ora d’ aria i capimafia al 41-bis riuscivano addirittura a tenere veri e propri summit: boss di camorra, ‘ndrangheta e Cosa nostra a consesso, a discutere di strategie di affari e di organizzazione.

Ricordo bene quando la Camera approvò la legge. Ricordo il ministro della Giustizia Claudio Martelli entrare in aula ancora terreo per le stragi delle settimane precedenti. E alcuni parlamentari spendere come certa l’ opposizione di Magistratura democratica. Vinse la rivolta morale di chi pensava che se qualcosa si doveva a Paolo Borsellino, il minimo era votare la legge che lui aveva voluto. Non per suo tic personale, ma perché, diversamente da tanti giuristi che ne discettano, lui conosceva bene la mafia, e il suo rapporto con il carcere.

I boss non dovevano più comandare, non dovevano più essere in condizione di comunicare con l’ esterno. Fu un trauma, che per altro produsse una eccezionale fioritura di collaboratori di giustizia. Uomini d’ onore ma non partigiani.

Ebbene, il destino sa apparecchiare i suoi scherzi. Così proprio nel venticinquesimo anniversario della morte di Falcone e Borsellino, quella legge viene irrisa, smontata. Senza particolari sensi di colpa. È la commemorazione senza memoria. Solo che gli eroi dell’ antimafia non sono morti per ricevere medaglie e commemorazioni; sono morti per cambiare questo Paese.

Che invece li commemora e poi torna indietro, come un pendolo implacabile. Obbedendo alle celebri convergenze di interessi, le stesse teorizzate nel maxi-processo istruito dai due giudici. Interessi nobili e ignobili, ignoranze e consapevolezze, suggeritori sopraffini e assassini impazienti; tutti all’opera mentre per mesi si giura che non si sta toccando niente. Ha ben ragione Luigi Manconi, che (illudendosi) rivendica a sé questo risultato, a ricordare che il 41-bis non prevede un di più di afflizione ma un di più (il massimo, vorrei dire) di sorveglianza.

Un carcere non duro, ma speciale. Non afflittivo gratuitamente, ma capace di evitare i collegamenti con l’ esterno. Sicché non ha senso limitare i giornali. Ma ha molto senso non concedere, come si era incredibilmente arrivati a ipotizzare, i collegamenti Skype. E avrebbe, ha molto senso, non concedere liberi contatti con folle di personaggi di nomina politica. O i contatti fisici tra i detenuti e i loro familiari. La proposta di abolire i vetri divisori, almeno con coniuge e figli, era già stata avanzata durante la legislatura 2001-2006. E mi aveva persuaso, per puro istinto umanitario. Giuseppe Ayala, che era con me in commissione Giustizia, ci mise un minuto a gelarmi. E i mafiosi che danno ordini di morte non solo alla moglie ma anche al figlio bambino, sussurrandogli in un orecchio il messaggio che lo zio decodificherà al volo? Ci pensi? Combattere la mafia senza conoscere la mafia, appunto.

Nella richiesta di custodia cautelare nei confronti di Giusy Vitale (era il 1998) la Procura di Palermo rimarcò come il fratello Vito Vitale, profittando della possibilità concessagli di abbracciare i figli minori in carcere, “non ha esitato a sfruttarla a fondo, passando, oralmente, al figlio poco più che decenne, messaggi di fondamentale importanza per l’ associazione mafiosa”. Strategie, estorsioni, soldi. Basta rileggersi quell’ atto per capire che Borsellino non aveva i tic. E che se non siamo un Paese di Pulcinella la circolare della “riforma” dovrebbe essere ritirata con pudore.

Chi può intervenire intervenga. E magari commissioni un bel monitoraggio sulle incredibili perizie mediche e psichiatriche che tengono lontano dal carcere decine di boss mafiosi. Un bel bagno di realtà, occorrerebbe. Tipo quello che è toccato fare alle vittime e a chi se le è piante. Mentre i boss brindavano in carcere a champagne.

 

Claudio Domino e la persistente bugia della mafia che non tocca i bambini

(Silvia Buffa per Meridionews)

 

Aveva assistito per caso al confezionamento di alcune dosi di eroina in un magazzino della zona o, peggio, al sequestro di qualcuno che non avrebbe più fatto ritorno. Non lo sapremo mai. Ad oggi, resta ancora un mistero il motivo per cui Claudio Domino viene freddato con un colpo di pistola sulla fronte a soli undici anni, mentre gioca tra le vie della sua San Lorenzo, a pochi metri dalla cartolibreria della madre. È la sera del 7 ottobre 1986. Suo padre, impiegato alla Sip, è anche titolare di un’impresa di pulizia dell’aula bunker dell’Ucciardone, dove si sta celebrando da appena otto mesi il Maxiprocesso, un procedimento penale enorme che vede Cosa nostra per la prima volta alla sbarra. «Claudio! Claudio vieni qui». Sono passati 31 anni da quando un giovane col volto coperto accosta la sua moto e lo chiama per nome, per farlo avvicinare. Poi, quello sparo a bruciapelo.

Un omicidio inspiegabile che ha lasciato una traccia indelebile nella San Lorenzo di oggi e nei suoi abitanti. Lo sa bene anche Angelo Sicilia, l’inventore dei pupi antimafia, che con quel ragazzino ha passato pomeriggi interi a rincorrere un pallone: «È lui, quello che gli è successo, la sua morte assurda che mi hanno ispirato, che mi hanno spinto a fare quello che faccio, a raccontare Cosa nostra e le sue storie con le mie marionette», raccontava a MeridioNews quest’estate. «Lo hanno ucciso un pomeriggio del 7 ottobre dell’86, nessuno a San Lorenzo può dimenticare quel giorno. Quell’omicidio però paradossalmente è stato la mia salvezza, perché mi ha fatto capire cos’era la violenza mafiosa, è per questo che non mi sono mai perso». Per un bambino interrotto, ce n’è di contro un altro che apre gli occhi e che capisce subito che direzione dare alla propria vita. Ma Claudio Domino non è l’unico bambino privato di questa scelta.

Se ne contano oltre cento di nomi come il suo. Un numero che spazza definitivamente via il presunto riguardo mafioso per le giovani vite. Una menzogna. È una violenza trasversale, quella della mafia, che contrariamente a quanto raccontino padrini e boss, non risponde a nessun codice etico o morale, e che non guarda in faccia nessuno. Bambini compresi. Tra le undici vite falciate il primo maggio 1947, per esempio, in quella che doveva essere una giornata di festa ma che si è trasformata nella strage di Portella della Ginestra, a morire sotto i proiettili di Salvatore Giuliano e della sua banda sono anche Vincenza La Fata, che ha solo otto anni, Giovanni Grifò e Giuseppe Di Maggio, di dodici e tredici anni, e Serafino Lascari di quindici. Ma tra i giovanissimi ci sono anche i diciottenni Giovanni Megna e Castrense Intravaia, e Vito Allotta, che si spegne a 19 anni. È un massacro di giovani vite.

Solo un anno dopo ecco un altro nome, è quello di Giuseppe Letizia, un pastorello di Corleone ucciso a soli tredici anni. È l’11 marzo 1948. Quella notte, mentre accudisce il suo gregge, assiste all’omicidio del sindacalista Placido Rizzotto, gettato da Luciano Liggio, luogotenente di Michele Navarra, capomafia di Corleone, nelle foibe di Rocca Busambra, dove i suoi resti verranno ritrovati solo 61 anni dopo. Il bambino, in preda ai deliri di una febbre altissima, viene portato dai genitori all’ospedale dei Bianchi, diretto dallo stesso Navarra. Racconta di un contadino assassinato nella notte e dopo poche ore muore in seguito a un’iniezione. La versione ufficiale parla di morte per tossicosi, ma si ritiene che il ragazzino possa essere stato avvelenato. La sua colpa? Essere nel posto sbagliato al momento sbagliato. È lo stesso motivo che spegne per sempre la vita dei fratelli Pecoraro: Antonino, che ha nove anni e Vincenzo, che invece ne ha 19. Vittime innocenti della strage di Godrano del 26 ottobre 1959. A crivellarli di colpi sono i fratelli Maggio, travestiti da carabinieri e nascosti nella casa disabitata di un vicino. Antonino viene colpito al torace, ma non muore subito. La sua è un’agonia, se ne va solo dopo due giorni. Il fratello più grande, invece, muore sul colpo, dopo aver sentito gli spari ed essere accorso per aiutare la famiglia.

Il 26 luglio 1991, invece, in un’assolata Palermo, a morire è Andrea Savoca. Ha quattro anni ed è insieme al padre Giuseppe, uno degli uomini di fiducia di Totò Riina. Scarcerato due giorni prima, è pronto a portare finalmente al mare il figlio. In spiaggia, però, non ci arriveranno mai. Due killer col volto coperto a bordo di una grossa moto sparano all’impazzata dentro l’auto posteggiata sotto casa della nonna, a Brancaccio. Il padre muore sul colpo, il bambino invece qualche ora più tardi in ospedale. L’altro fratellino resta illeso a urlare disperato nel sedile della Passat ferma in doppia fila. La madre, invece, vede la scena affacciandosi dal balcone. Una vendetta di sangue per punire chi rubava senza il permesso di Cosa nostra. Trentadue anni prima, il 19 settembre 1959, a perdere la vita è Giuseppina di dodici anni, Savoca anche lei. Gioca sotto casa, in via Messina Marine, quando la raggiunge un proiettile vagante che la uccide sul colpo. A morire, però, doveva essere Filippo Drago, un pregiudicato che lì gestiva una profumeria.

E poi c’è lui, Giuseppe Di Matteo, sequestrato il 23 novembre 1993 a tredici anni da un maneggio di Altofonte. Muore, strangolato e disciolto nell’acido, poco prima di compierne quindici, l’11 gennaio 1996. I familiari, disperati, lo cercano in tutti gli ospedali, ma di lui non c’è traccia. Fino a quel «Tappaci la bocca» recapitato con un bigliettino. Una vendetta per convincere il padre Santino a non collaborare più con i magistrati e a ritrattare le sue dichiarazioni sulla strage di Capaci e sull’omicidio dell’esattore Ignazio Salvo. Santino Di Matteo però non si piega, continua la sua collaborazione con la giustizia. Dopo 779 giorni di prigionia, arriva anche la decisione di Giovanni Brusca: uccidere il bambino. Una scelta da vero uomo d’onore.

Mafia: blitz contro il clan Rinzivillo. 37 arresti. Anche due carabinieri.

Avrebbero passato notizie riservate ai membri del clan: per questo motivo due carabinieri sono stati arrestati insieme ad altre 35 persone nell’ambito di un’operazione contro il clan mafioso Rinzivillo di Gela, da sempre alleato dei Madonia e con i corleonesi. Sequestrati beni e società per oltre 11 milioni di euro. Il blitz di carabinieri, finanza e polizia (italiana e tedesca) è stato condotto in Italia (Sicilia, Piemonte, Lazio, Lombardia ed Emilia Romagna) e in Germania (italiana e tedesca). La maxi operazione è stata coordinata dalla Procura nazionale antimafia e antiterrorismo e disposta dalle Direzioni distrettuali antimafia di Roma e di Caltanissetta. Tra gli arrestati anche un avvocato di Roma, che sarebbe il trait d’union tra i mafiosi e i professionisti. Nei confronti dei due militari l’accusa è di accesso abusivo alle banche dati delle forze dell’ordine: in sostanza avrebbero passato notizie riservate ai membri del clan.

Il clan gelese dei Rinzivillo fu decimato nel 2006 con una operazione dei carabinieri, denominata “Tagli pregiati“, che portò in carcere 79 persone e il sequestro di beni per 20 milioni di euro, tra la Sicilia, il Lazio e la Lombardia. In manette finirono anche sei donne, accusate di avere garantito i collegamentitra i boss detenuti e i luogotenenti che operavano all’esterno. L’inchiesta antimafia scattò dalla denuncia di un commerciante che denunciò un caso di estorsione. Con le successive indagini i carabinieri riuscirono ad accertare l’esistenza di un racket delle carni controllato dai Rinzivillo che riciclavano, in aziende del settore alimentare e nell’edilizia, i proventi degli affari illeciti come estorsioni, traffico di droga, usura, caporalato, furti e rapine. La loro organizzazione aveva stretto alleanze con il clan Santapaola, a Catania, e con le famiglie della ‘ndrangheta calabrese in varie regioni d’Italia e perfino all’estero. Anche allora, tra gli indagati, fu fermato un maresciallo dei carabinieri, accusato di avere passato ai clan informazioni riservate.

(fonte)

Michele Zagaria comanda (ancora) anche dal carcere

Vincenzo Iurillo per Il Fatto Quotidiano:

 

Il passaggio chiave si legge alla fine dell’ordinanza: “Il controllo del clan di Michele Zagaria nel territorio di Trentola Ducenta(Caserta) è ancora penetrante e il rischio che possa influenzare le elezioni amministrative del 2018 è molto elevato”. Per questo, sostiene il Gip di Napoli Federica Colucci, l’imprenditore Nicola Russo deve andare in carcere: è uno dei professionisti “a disposizione” del boss attraverso i quali il clan dei Casalesi “può riprendere il controllo sul Comune”, arrestato il 27 settembre scorso.

Trentola Ducenta commissariata
Trentola Ducenta è commissariata e il voto è in calendario per la primavera del 2018. Il sindaco Michele Griffo dovette farsi da parte dopo essere stato arrestato nel dicembre 2015 nell’ambito dell’inchiesta Jambo. È il nome del gigantesco centro commerciale realizzato, secondo l’inchiesta della Dda partenopea – pm Catello Maresca, procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli – grazie a un “forte e duraturo legame tra camorristi, politici e imprenditori”.

 

Russo analista dei boss
Russo è stato arrestato nei giorni scorsi con accuse di associazione camorristica. È uno degli imprenditori che strinsero il patto. Commerciante di ortofrutta e poi titolare di un centro di analisi, fu indagato in Jumbo e da allora una sequela di pentiti, a cominciare da Antonio Iovine, hanno aggiunto alcuni dettagli importanti sui suoi legami col boss. Avrebbe trasportato “valige piene di soldi” per conto di Zagaria e avrebbe intermediato tra il clan e Alessandro Falco, il patron del centro commerciale sequestrato. Zagaria e Iovine si sarebbero curati da lui durante la latitanza. Russo avrebbe seguito attraverso amici comuni la fase del prelievo e del trasporto dei campioni di sangue per mantenere l’anonimato dei referti. E avrebbe fornito a Zagaria documenti d’identità fasulli e ospitalità per proteggerne la latitanza. Iovine a verbale lo identifica nel “Nicolino” che nel 2001 venne a prendere Zagaria in Francia, a Lione, durante un periodo di vacanza. “Ricordo che il luogo prestabilito era un ristorante di Lione, molto lussuoso, nel quale mangiammo tutti insieme, io, Zagaria e Nicolino”.

 

Zagaria e il giallo della pen drive
Intanto prosegue a tappe forzate il processo Medea che vede imputati l’ex senatore dell’Udeur Tommaso Barbato (in qualità di ex dirigente del settore acquedotti della Regione Campania) e i protagonisti della presunta spartizione degli appalti del servizio idrico campano per favorire imprenditori del clan Zagaria. Il Tribunale di Napoli nord ha disposto un fitto calendario di udienze per arrivare a sentenza entro i primi mesi del 2018. Il pmMaurizio Giordano ha depositato nuovi verbali di collaboratori di giustizia, che rielaborano una storia finita tra le maglie di quest’inchiesta: quella della pen drive a forma di cuore in possesso di Zagaria, che poi sarebbe ‘scomparsa’ durante la cattura del boss e la perquisizione del covo-bunker di Casapesenna, il 7 dicembre 2011.

Il poliziotto sotto inchiesta e il depistaggio
Un poliziotto, Oscar Vesevo, è indagato con l’accusa di aver intascato 50.000 euro dalla vendita della chiavetta a un imprenditore ritenuto vicino al clan Zagaria, Orlando Fontana. Cosa contenesse quella pen drive, e se sia esistita davvero, è un mistero. Un rapporto dei Ros ha ipotizzato che Zagaria vi conservasse la contabilità delle tangenti. Il pentito Salvatore Orabona afferma invece che in quella chiavetta il boss ha messo in fila i nomi dei politici e degli imprenditori collusi e che finì “nelle mani di Filippo Capaldo, nipote di Zagaria”. In mano ai giudici adesso c’è un verbale di Orabona del 24 ottobre 2016. Il collaboratore di giustizia racconta alcuni episodi che messi insieme dipingono un tentativo di depistaggio da parte del clan. “Ero in cella con Antonio Zagaria (fratello di Michele, ndr) e Carlo Bianco e li ho ascoltati mentre parlavano dell’esistenza di questa pen drive a forma di cuore e del fatto che doveva essere restituita al clan perché c’era il nome di molti imprenditori di Michele Zagaria”. Era il 2014 e quella chiavetta “non era ancora pervenuta a Capaldo”. Nel luglio 2015 gli arresti di Medea fanno uscire la notizia della pen drive del boss e dei segreti che vi erano custoditi, e Orabona dice di aver ascoltato questa macchinazione: “Antonio Zagaria disse a Carlo Bianco che, non appena sarebbe stato scarcerato, visto che mancavano pochi giorni, doveva prendersi l’incarico di reperire una pennetta Usb a forma di cuore che avrebbe dovuto poi far trovare alla Polizia in modo da porre fine a quelle notizie. Antonio Zagaria disse a Carlo Bianco che avrebbe dovuto dare questa pennetta Usb a forma di cuore alla moglie di Vincenzo Inquieto (Zagaria fu catturato nel bunker di villa Inquieto a Casapesenna, ndr), caricando su tale pennetta dei contenuti per bambini, ossia che si trattava di una pennetta appartenuta alla figlia di Vincenzo Inquieto e non a Michele Zagaria. In questo modo, tutta la vicenda si sarebbe definitivamente risolta”. Le cose andarono davvero così? Orabona aggiunge di essere tornato sull’argomento con Bianco qualche mese dopo. “Gli chiesi se avesse fatto quel ‘servizio’, mi confermò che era ‘tutto a posto’ e non aggiunse altro”. Significava, secondo il pentito, che aveva portato a termine la missione.

Qualche puntuale precisazione su Scarantino e Di Matteo

Per fortuna c’è Roberto Galullo che prova a rimettere in ordine le cose:

 

Dell’audizione del sostituto procuratore nazionale antimafia Nino Di Matteo il 13 settembre davanti alla Commissione bicamerale presieduta da Rosy Bindi, ho scritto un pezzo praticamente in diretta il giorno stesso sul sito del Sole-24 Ore(http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2017-09-13/di-matteo-strage-via-d-amelio-mai-entrato-indagini-155547.shtml?uuid=AEJNKNSC&fromSearch).

In sintesi Di Matteo dice, con riferimento a quello che poi si rivelerà essere un falso pentito, vale a dire Vincenzo Scarantino, che «quelle indagini mossero da dichiarazioni e indagini precedenti e dunque si tratta di capire chi condusse quelle indagini e quali siano stati eventuali depistaggi volontari. Ed è qui che crolla l’assunto per cui a tutti i costi mi si vuole coinvolgere». Sottinteso: negli errori di valutazione di un soggetto che menerà la Giustizia a largo dalla verità, lui non poteva, non può e non potrà essere coinvolto.

Pur senza citarla, il riferimento era anche alle parole di Fiammetta Borsellino, figlia del giudice ucciso il 19 luglio 1992 con la scorta a Palermo, che aveva parlato di indagini sulla strage condotte all’epoca da un pool di persone inesperte (tra le quali Di Matteo stesso) e di una procura all’epoca massonica.

Il riferimento, però, era anche e soprattutto a quella marea montante di (dis)informatori (nei media e nella politica) che con cagnesco accanimento ha bersagliato e continua a bersagliare proprio Di Matteo sul presunto suo coinvolgimento nell’abbaglio che portò, immediatamente dopo la strage, investigatori e inquirenti a seguire Scarantino.

Orbene – prima di arrivare ad una prima conclusione di ragionamento in questo primo servizio che dedicherò alla sua audizione del 13 settembre, ora che l’intera trascrizione è stata messa sul sito della Commissione bicamerale – è bene apprendere dallo stesso Di Matteo perché non poteva, non può e non potrà essere coinvolto in un quell’enorme guazzabuglio investigativo che seguì alla strage di Via d’Amelio.

Tra i processi per la strage Di Matteo ha infatti seguito un solo processo, dall’inizio delle indagini alla conclusione della sentenza di primo grado: il cosiddetto processo via D’Amelio-ter. «È stato l’unico che ho seguito dal momento in cui è stato iscritto il fascicolo nel registro delle notizie di reato nei confronti di alcuni soggetti al momento in cui, il 9 dicembre 1999 – ha spiegato scandendo bene le parole accanto a Bindiè stata emessa la sentenza di primo grado. In quel processo sono state irrogate venti condanne per concorso in strage. Quel processo, l’unico che io ho seguito dall’inizio dell’indagine, prescinde completamente e assolutamente dalle dichiarazioni di Scarantino Vincenzo. In quel processo, Scarantino Vincenzo non è stato chiamato neppure a testimoniare. Nelle sentenze del processo, negli atti di quel processo, non c’è alcun riferimento, non troverete alcuna dichiarazione di un soggetto che noi non abbiamo chiamato neppure a testimoniare».

Ma Di Matteo andrà oltre.

Le trascrivo testualmente le sue dichiarazioni davanti ai membri della Commissione parlamentare antimafia perché sui media (carta stampata web, radio, tv) non ne troverete assolutamente traccia.

«Affermare che tre processi sono stati fondati sulle dichiarazioni di Scarantino è semplicemente un falso – dirà d’un fiato il sostituto procuratore nazionale antimafia – è assolutamente infondato. Vi ho già anticipato alcuni dati in questo senso. Vi ho ricordato il dato del via D’Amelio-ter, processo nel quale Scarantino non è stato nemmeno citato nella lista dei testimoni di accusa. Ma, andando a ritroso, affermare che anche il via D’Amelio-bis si sia fondato esclusivamente sulle dichiarazioni di Scarantino è un altro dato falso, tant’è vero che molte condanne inflitte da quella corte nel via D’Amelio-bis – Salvatore Riina, Pietro Aglieri, Salvatore Biondino, Carlo Greco, Francesco Tagliavia, Giuseppe Graviano – sono state confermate e mai successivamente messe in discussione, nonostante le dichiarazioni di Spatuzza.
Ecco perché, anche per il via D’Amelio-bis, affermare che quel processo abbia dato credito incondizionato alle dichiarazioni di Scarantino è semplicemente falso. Significa non conoscere gli atti; significa adeguarsi a una prospettazione che, molto abilmente, qualcuno sta instillando anche nella mente di persone in buonafede; significa non avere letto la requisitoria. Fingere di non ricordare che lo stesso pubblico ministero, già nel via D’Amelio-bis, aveva sostenuto che le dichiarazioni di Scarantino erano state inquinate dopo i primi tre interrogatori e potevano essere utilizzate – così si esprime il pubblico ministero in quella requisitoria – solo se confortate in maniera particolarmente significativa da altri e forti elementi di prova, da altre dichiarazioni di altri pentiti, da altre testimonianze, da altre intercettazioni telefoniche… Per questo motivo lo stesso pubblico ministero, in assenza di significativi elementi di prova diversi dalle propalazioni di Scarantino, già nel via D’Amelio-bis chiese e ottenne l’assoluzione per il delitto di concorso in strage di Calascibetta Giuseppe, Murana Gaetano e Gambino Antonino, soggetti che poi vennero condannati perché altre fonti di prova vennero in appello – in processi che quindi non seguivo io, non seguiva la procura di Caltanissetta, ma casomai l’organo inquirente della procura generale di Caltanissetta – e le assoluzioni, anche queste sollecitate dal Pm, si trasformarono poi in condanne. Ecco il perché oggi della revisione
».

 

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Il sindaco di Seregno, lo zerbino dei mafiosi: le carte dell’inchiesta

Dopo «7 anni» di indagini sulla ‘ndrangheta in Lombardia «posso dire che c’è un sistema» fatto di «omertà» e di «convenienza da parte di quelli che si rivolgono all’anti Stato per avere benefici». Così il procuratore aggiunto della Dda di Milano Ilda Boccassini ha commentato il maxi blitz avvenuto all’alba di martedì: 24 arresti – tra cui il sindaco di Seregno Edoardo Mazza e un dipendente della Procura di Monza, Giuseppe Carello – nelle province di Monza, Milano, Pavia, Como e Reggio Calabria, nell’ambito di un’inchiesta su infiltrazioni della ‘ndrangheta nel mondo dell’imprenditoria e della politica in Lombardia, inchiesta che vede tra gli indagati anche l’ex vicepresidente della Regione Mario Mantovani. Boccassini ha commentato che oggi, a 7 anni dell’operazione Infinito, «è facile» per le cosche «infiltrarsi nel tessuto istituzionale». L’inchiesta è coordinata dalla Procura di Monza e dalla Procura Distrettuale Antimafia di Milano. In tutto, 27 le misure cautelari: 21 in carcere, 3 ai domiciliari e 3 interdittive, firmate dai gip Pierangela Renda e Marco Del Vecchio. Le accuse: associazione di tipo mafioso, estorsione, detenzione e porto abusivo di armi, lesioni, danneggiamento (tutti aggravati dal metodo mafioso), associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, corruzione per atti contrari ai doveri di ufficio, abuso d’ufficio, rivelazione e utilizzazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento personale.

In particolare, un terremoto giudiziario scuote l’amministrazione di Seregno. Agli arresti domiciliari per corruzione è finito il sindaco in persona, il forzista Edoardo Mazza. Sotto accusa i suoi rapporti con il costruttore Antonino Lugarà (in carcere), considerato uomo vicino ad esponenti della ‘ndrangheta. L’imprenditore, come notato dagli inquirenti che hanno ascoltato le intercettazioni, trattava il sindaco come «uno zerbino». L’ipotesi sostenuta dai pm di Monza Giulia Rizzo e Salvatore Bellomo è che Lugarà abbia ottenuto la concessione di un’area del Comune brianzolo, la cosiddetta area «ex Dell’Orto», sulla quale realizzare la costruzione di un supermercato, come contropartita del sostegno e consenso elettorale procurato al sindaco di centrodestra durante la campagna elettorale del 2015. «Ogni promessa è debito», gli dice infatti il sindaco in un’intercettazione. Agli arresti domiciliari anche un consigliere comunale di Seregno, e inoltre sono state emesse tre misure interdittive all’esercizio di pubblici uffici, una delle quali riguarda l’assessore Gianfranco Ciafrone.

Avvocato civilista, 38 anni, Edoardo Mazza è stato eletto nel 2015 nelle fila di Forza Italia alla carica di sindaco di Seregno, paese di 45mila abitanti in provincia di Monza. Per la sua elezione Lega e Forza Italia si sono compattate per sostenerlo. Molto attento ai social network, Mazza ama comunicare servendosi di Facebook. In alcuni di questi interventi, si è distinto per aver preso in mano un paio di forbici quando parlava degli stupratori di Rimini, o per le sue campagne contro i mendicanti, invitando i suoi cittadini a non dare l’elemosina per scoraggiare il loro arrivo in città.

La solidità della coalizione di centrodestra ha mostrato i primi scricchiolii tra maggio e giugno di quest’anno, con le dimissioni del leghista Davide Vismara da segretario di sezione, alle quali sono seguite quelle della collega di partito Barbara Milani da assessore alla Pianificazione territoriale ed all’edilizia privata e poi quelle di due consiglieri comunali, anch’essi del Carroccio. Una «fuga» che alla luce dell’esecuzione della misura cautelare emessa nei confronti del primo cittadino dal tribunale di Monza per corruzione, suona oggi come una presa di distanza preventiva.

L’inchiesta dei carabinieri, partita nel 2015, e che porta la firma dei pm monzesi Salvatore Bellomo, Giulia Rizzo e del Procuratore della Repubblica di Monza Luisa Zanetti e dei pm della Dia Alessandra Dolci, Sara Ombra e Ilda Boccassini, rappresenta una costola dell’indagine «Infinito», che nel 2010, sempre coordinata dalle procure di Monza e Milano, aveva inferto un duro colpo alle «locali» ‘ndranghetiste in Lombardia.

Anche un dipendente dell’ufficio affari semplici della Procura di Monza, Giuseppe Carello, è stato arrestato in esecuzione di ordinanza di custodia cautelare ai domiciliari con l’accusa di rivelazione di segreti d’ufficio. Il procuratore della Repubblica di Monza Luisa Zanetti ha riferito: «Attraverso le sue credenziali accedeva alla nostra banca dati e rispondeva alle domande dell’ imprenditore di Seregno indagato. Viene ascoltato mentre elenca gli indagati davanti alla nostra schermata, poi abbiamo una fotografia che inquadra l’imprenditore con il nostro dipendente». Il procuratore poi ha aggiunto: «Giuseppe Carello, ai domiciliari, ha violato la fiducia del procuratore e del personale giudiziario ed amministrativo che sono totalmente estranei ai fatto. Ha violato il giuramento alle istituzioni».

Come riferito da Boccassini, «è stata individuata una delle persone che era rimasta fuori» dagli arresti dell’operazione Infinito del 2010, e che partecipò in quell’anno al noto summit in un centro intitolato alla memoria di Falcone e Borsellino a Paderno Dugnano. Sono stati identificati i boss della locale di Limbiate, ed è stato sgominato un sodalizio dedito al traffico di ingenti quantitativi di cocaina, con base nel Comasco, composto prevalentemente da soggetti originari di San Luca (RC), legati a cosche di ‘ndrangheta di notevole spessore criminale. Nel corso dell’indagine sono stati ricostruiti, ha spiegato Boccassini, «episodi brutalmente e stupidamente violenti». Per esempio, un cittadino di Cantù che andava al lavoro alle 5 di mattina fu colpito con il calcio di una pistola ma non ebbe il coraggio di denunciare: «Non me lo chiedete perché ho paura e so che sono pericolosi», disse agli inquirenti.

«La ‘ndrangheta è l’associazione mafiosa più pericolosa perché si insinua nel tessuto economico e ha rapporti con le istituzioni. Bisogna scoprire questi legami e tagliarli di netto»: così il presidente della Lombardia, Roberto Maroni, ex ministro dell’Interno ha commentato la maxioperazione in Lombardia. «Chi rappresenta il popolo nelle istituzioni – ha spiegato Maroni ai microfoni di Radio 24 – deve ovviamente stare lontano e rifiutare ogni rapporto con queste persone. Se poi qualcuno ci casca, è giusto che venga estromesso immediatamente dalla politica alle istituzioni».

Mario Mantovani, consigliere regionale lombardo di Forza Italia ed ex vicepresidente della Lombardia, già arrestato due anni fa in un’altra inchiesta, è indagato per corruzione (non gli vengono contestati reati di mafia) in un filone dell’indagine. Da quanto si è saputo, l’accusa riguarda i suoi rapporti con l’imprenditore Antonino Lugarà, lo stesso che ha intrattenuto rapporti con il sindaco di Seregno. Mantovani ha scritto su Facebook: «Avvenuta perquisizione questa mattina presso i miei uffici in relazione ai fatti (su cui indaga la procura di Monza) di cui nulla so, che apprendo dai media di stamane e che sono lontanissimi dal mio agire politico e personale. Nulla è emerso. Sempre a disposizione della trasparenza e della legalità». Secondo la ricostruzione delle indagini, Lugarà avrebbe dato «la disponibilità e l’impegno a procurare consenso elettorale e l’appoggio politico» durante la campagna elettorale del maggio e giugno 2015 a favore di Mazza «nonché assicurando l’appoggio di Mantovani». «Ciao Mario ti ringrazio molto per la vittoria di Seregno è anche merito tuo, quando puoi ti vorrei incontrare», scriveva Lugarà in un sms.

(fonte)

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