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Antimafia

Belle storie di resistenza quotidiana. Femminile e antimafiosa.

Una vita dedicata alla terra. La loro. E poi arriva qualcuno che vuole portarsela via, prima facendo una proposta ridicola (5mila euro per 90 ettari di terreno, comprensivi di attrezzature) poi, a proposta rifiutata, con minacce nemmeno troppo velate per prendersela, se non con le buone allora con le cattive. Irene, Anna e Ina Napoli sono le protagoniste di questa storia, ambientata a Mezzojuso, nel cuore della provincia di Palermo, e raccontata da Repubblica TV. Qui, nei campi che si estendono fino a Corelone, esiste una mafia antica che prova a impossessarsi delle terre coltivate a grano e fieno. Le tre sorelle, che gestiscono un’azienda agricola di 90 ettari, dopo l’offerta economica ricevuta nel 2006, ne hanno subite tante: all’inizio, per paura, hanno taciuto, continuando a ignorare le invasioni delle “vacche sacre” dei boss, spedite in missione per danneggiare i raccolti e spingerle così ad abbandonare la loro terra. Ma nel 2014, esauste, hanno preso il coraggio a sei mani e hanno sporto denuncia: ai carabinieri hanno raccontato delle decine di raid, documentate un un quaderno in cui appuntano tutto quello che accade e in cartelle sul pc in cui archiviano foto di situazioni che hanno subito.

“SE TUTTI CE NE ANDIAMO, LA SICILIA A CHI RESTA?”

 

La chiamano “mafia dei pascoli”. “A luglio – raccontano le sorelle con voce tremante e visibilmente esauste – hanno distrutto il raccolto, ma non ci fermeranno. Non avranno mai le nostre terre”. Le donne mostrano poi al giornalista il loro raccolto: 330 balle di fieno, che normalmente si raccolgono in un ettaro di terreno, sono state raccolte in 24 ettari, quello che è rimasto dopo l’invasione di vacche, cavalli e pecore. “Una sera, arrivo e vedo queste mucche e i cavalli che mi calpestavano il terreno. C’erano tutte le recinzioni tagliate, è stato terribile”. La battaglia delle tre donne non è facile. Raccontano di aver avuto paura e per questo erano restie a denunciare, ma quando la situazione è diventata insostenibile, si sono fatte forza. Hanno dovuto munirsi di telecamere, alcune puntate sull’abitazione, altre sui campi, con le qual possono monitorare la situazione e verificare se sta succedendo qualcosa o se manca qualche animale. “Certo che abbiamo pensato di andarcene – commenta una delle sorelle – ma se tutti facciamo così, questa Sicilia a chi resta?”

(fonte)

Vittoria, arrestato l’ex sindaco PD. Quello che parlava di “macchina del fango”.

Ne scrive (tra gli altri) La Spia ma sono molto contento per chi, da tempo, denunciava i fatti ed è stato isolato. Un abbraccio a Paolo. Lui sa.

 

Mafia: sindaco di Vittoria indagato per corruzione elettorale =

 (AGI) – Catania, 21 set. – E’ indagato anche l’attuale sindaco di Vittoria (Ragusa), Giovanni Moscato, nell’ambito dell’indagine “Exit poll” della Guardia di finanza, coordinata
dalla Procura di Catania. Il primo cittadino, per il quale non e’ prevista misura cautelare, risponde di corruzione elettorale. Moscato, 40 anni, avvocato, con la sua elezione nel
giugno 2016, a capo di liste civiche ed esponente del centrodestra, aveva fatto segnare una svolta storica a Vittoria, un comune che per 70 anni e’ stato retto da un esponente della sinistra. Secondo gli inquirenti, l’ex sindaco Giuseppe Nicosia e il fratello consigliere Fabio, tra i sei arrestati di oggi per scambio elettorale politico-mafioso, nel turno di ballottaggio si sarebbero schierati per Moscato, il quale avrebbe promesso la stabilizzazione dei 60 dipendenti della ditta che si occupa dei rifiuti.
Un patto scellerato che ha gestito le sorti elettorali, politiche e amministrative di Vittoria,
grosso centro della provincia di Ragusa, per almeno un decennio, garantendo appalti, affari, lauti profitti alle organizzazioni mafiose. Una regia sciagurata che ha dato
sostanza all’inquietante e consolidato intreccio tra politica e boss.
E’ quello che emerge dall’operazione “Exit Poll” della Guardia di finanza, coordinata dalla Procura di Catania, culminata con l’arresto per scambio elettorale politico-mafioso, di sei persone, tra amministratori e boss, per fatti collegati alle elezioni comunali di Vittoria del
giugno 2016. 
Ovvero: Giuseppe Nicosia e il fratello Fabio, attuale consigliere comunale, Giovambattista Puccio e Venerando Lauretta, entrambi gia’ condannati per associazione mafiosa, Raffaele Giunta e Raffaele Di Pietro.
UN EX SINDACO ARRESTATO, UNO IN CARICA INDAGATO 
Tra i destinatari della misura cautelare degli arresti domiciliari l’ex sindaco del Pd Giuseppe Nicosia, primo cittadino per due mandati consecutivi dal 2006 al 2016; e il fratello Fabio, 51 anni, eletto consigliere comunale a Vittoria nella tornata elettorale del 2016. E risulta indagato per corruzione elettorale l’attuale sindaco Giovanni Moscato.
Il primo cittadino, avvocato di 40 anni, per il quale non e’ prevista misura cautelare, con la sua elezione, a capo di liste civiche ed esponente del centrodestra, aveva fatto segnare una svolta storica a Vittoria, un comune che per 70 anni e’ stato retto da un esponente della sinistra. Secondo gli inquirenti, l’ex sindaco e il fratello, nel turno di ballottaggio si
sarebbero schierati per Moscato. 

Applicata, inoltre, la misura interdittiva della sospensione dai pubblici uffici nei
confronti dell’assessore al Bilancio dell’epoca, Nadia Fiorellini, per falsificazione delle autenticazioni delle sottoscrizioni delle liste elettorali.
Le indagini, coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia di Catania, sono state svolte dal Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza che ha eseguito gli arresti
anche a carico di Giombattista Puccio, 57 anni, detto “Titta u ballerinu”, di cui e’ stata accertata nel 2003 la contemporanea appartenenza a Cosa nostra e Stidda, coinvolto in diverse operazioni contro il clan stiddaro “Dominante – Carbonaro” (Operazioni Squalo nel 1994 e “Flash Back” nel 2006) ed e’ indicato da piu’ collaboratori di giustizia quale attuale
esponente di spicco della Stidda; Venerando Lauretta, 48 anni, gia’ condannato per la sua appartenenza al clan “Dominante – Carbonaro”; Raffaele Di Pietro, 55 anni, e Raffaele Giunta, 55 anni, entrambi con vari precedenti penali; i due risultano aver svolto un ruolo di intermediazione attiva nell’accordo criminale stretto tra politica e mafia.

LO SCELLERATO INTRECCIO LUNGO UN DECENNIO
Le Fiamme Gialle hanno effettuato intercettazioni telefoniche, perquisizioni, sequestri e acquisizioni documentali. Un contributo notevole e’ stato fornito anche dalle dichiarazioni
di alcuni collaboratori di giustizia da cui e’ emerso con chiarezza l’intreccio affaristico-politico-mafioso che, nella citta’ di Vittoria, sostengono gli inquirenti, “ha condizionato e orientato le scelte elettorali anche prima delle elezioni amministrative del 2016”. Il quadro delineato dai collaboratori di giustizia e’ infatti molto ampio ed evidenzia come i fratelli Nicosia abbiano ricevuto a Vittoria il sostegno elettorale della “Stidda” sia nelle amministrative del 2006 e 2011, sia nelle regionali e nazionali del 2008 e 2012. Il
convogliamento dei voti, secondo quanto accertato, e’ stato ricompensato dal sindaco Giuseppe Nicosia con l’assegnazione di appalti e posti di lavoro a favore degli attuali coindagati Giunta e Di Pietro. In questo inquietante scenario le attivita’ dei finanzieri del Gico del Nucleo di Polizia Tributaria di Catania hanno consentito di tracciare i contatti tra i fratelli Nicosia ed esponenti di vertice della Stidda, particolarmente attiva in area vittoriese nella gestione economica di interi settori quali la raccolta della plastica e la produzione degli imballaggi per i prodotti ortofrutticoli.

Quello che ha da dire Marco Lillo sul caso Consip (e sul presunto “golpe”)

E vale la pena leggerlo. Almeno per mettere in fila i fatti.

 

di Marco Lillo

Per smontare il teorema del ‘complotto’ contro Matteo Renzi costruito dal Noe dei Carabinieri con la complicità del pm Henry John Woodcock e del Fatto è molto utile una semplice cronologia.
Quando il capitano Gianpaolo Scafarto, ai primi di settembre del 2016, avrebbe fatto alla pm di Modena Lucia Musti la confidenza generica su un’indagine non meglio precisata (“Scoppierà un casino, arriviamo a Renzi”) erano già accaduti alcuni fatti. In particolare un signore toscano amico di Tiziano Renzi di nome Carlo Russo era già entrato più volte nell’ufficio di Alfredo Romeo per parlare degli appalti che interessavano all’imprenditore. Non solo in Consip ma anche in Grandi Stazioni e in Inps. Stando alle informative di Gianpaolo Scafarto di quel periodo erano già accaduti questi eventi: il 3 agosto Romeo aveva chiesto a Russo di incontrare il padre del premier di allora perché aveva problemi con il suo amico amministratore di Consip, Luigi Marroni, per una serie di appalti del valore di centinaia di milioni di euro. Russo aveva proposto allora di fare una bisteccata a casa di Tiziano Renzi con lo stesso Marroni. Il 31 agosto Romeo era tornato alla carica e Russo aveva riferito così la risposta di Tiziano: “gli ho detto che … dobbiamo fare sto passaggio con Marroni! M’ha detto dice: ‘Fammi finire sto casino prossima settimana ci mettiamo’”.
Quando Scafarto avrebbe fatto la sua profezia, Romeo aveva già proposto a Russo il famoso ‘accordo quadro’ che poi sarà precisato meglio il 14 settembre nel famoso foglio che – secondo l’interpretazione dei Carabinieri – reca l’offerta di 30 mila euro al mese per Tiziano Renzi in cambio di un incontro al mese con Luca Lotti e con Luigi Marroni per propriziare un occhio di riguardo su Romeo da parte della Consip guidata da Marroni.
La confidenza di Scafarto (‘scoppierà un casino arriviamo a Renzi’) quindi non è la prova del movente delle sue macchinazioni contro Tiziano e Matteo ma un annuncio abbastanza prevedibile (e certamente scorretto se vero) sulla base di indizi già raccolti.
Prima però ricordiamo come è nata la teoria che piace tanto ai grandi giornali, alla politica e ai membri del Consiglio Superiore della Magistratura vicini a Renzi.
Il teorema (ben descritto ieri in un pezzo di Carlo Bonini su Repubblica) vuole connettere due fatti che non c’entrano nulla: lo scoop del Fatto del luglio 2015 sulla telefonata di Matteo Renzi con il generale Michele Adinolfi e lo scoop del Fatto del 2016-2017 sul caso Consip. Ebbene il teorema è delineato nel libro del segretario del Pd Avanti.
Renzi ricorda così il nostro scoop della telefonata tra lui e il generale della GdF Adinolfi, nella quale i due sparlavano di Enrico Letta, intercettata nel 2014 e pubblicata dal Fatto il 10 luglio 2015. “È la prima volta – scrive Renzi – in cui faccio la conoscenza del Noe, Nucleo operativo ecologico dell’Arma dei carabinieri, che su incarico di un pm di Napoli, il dottor Woodcock, mi intercetta. Apprenderò dell’intercettazione mentre sono presidente del Consiglio, grazie a uno scoop del Fatto Quotidiano firmato da un giornalista che si chiama Marco Lillo. Segnatevi mentalmente questo passaggio: Procura di Napoli, un certo procuratore, il Noe dei carabinieri, il Fatto Quotidiano, un certo giornalista. Siamo nel 2014, non nel 2017, sia chiaro. Che poi i protagonisti siano gli stessi anche tre anni dopo è ovviamente una coincidenza, sono cose che capitano”.
L’insinuazione che Il Fatto abbia ottenuto le notizie per i due scoop nel 2015 e nel 2016-7 sempre grazie al Noe e al pm Woodcock è falsa e diffamatoria ma trova subito una grancassa nelle istituzioni.
Il libro esce il 12 luglio e sembra il canovaccio delle domande poste al pm Lucia Musti di Modena appena cinque giorni dopo dal presidente della prima commissione del Csm. L’avvocato Giuseppe Fanfani, ex sindaco Pd di Arezzo, amico di Maria Elena Boschi e già legale del padre, ascolta con i suoi colleghi del Csm il procuratore di Modena nell’ambito del procedimento contro Henry John Woodcock finalizzato a capire se il pm di Napoli che ha osato intercettare il padre del leader Pd debba essere trasferito per incompatibilità.
La pm Lucia Musti ha ricevuto per competenza nell’aprile del 2015 le carte del fascicolo Cpl Concordia, istruito da Woodcock, nel quale era contenuta l’intercettazione di Matteo Renzi con il generale Adinolfi. La telefonata è divenuta pubblica nel luglio 2017 perché non era più segreta e Il Fatto – come la Procura di Napoli ha ricostruito già nel 2016 – l’ha avuta da fonti non investigative in modo pienamente lecito. E non era più segreta per una svista non del pm Woodcock ma degli uffici dei pm dell’antimafia che l’avevano ricevuta per competenza di materia da Woodcock proprio come la dottoressa Musti l’aveva avuta a Modena.
I pm di Napoli nel 2015-2016 indagarano i carabinieri del Noe che avevano aiutato il personale di segreteria, oberato di lavoro, a effettuare la scansione delle pagine senza avvedersi che l’informativa depositata non era quella omissata ma la versione precedente, che non conteneva gli omissis. Così quelle due pagine così delicate con i giudizi sprezzanti di Renzi su Letta sono finite nel computer della Procura accessibile a tutti gli avvocati del procedimento. Tre avvocati (almeno) ne vennero in possesso e così Il Fatto ha potuto acquisire tutte le carte pubbliche del fascicolo, compresa quella che doveva restare segreta. Questo tragitto è stato accertato con certezza dai pm e dai loro periti informatici grazie anche alle perquisizioni ai danni dei giornalisti del Fatto e in particolare al sequestro e all’analisi del computer del collega Vincenzo Iurillo che ha firmato quello scoop con chi scrive questo articolo.
I carabinieri del Noe furono indagati e interrogati ma i pm Alfonso D’Avino e Giuseppe Borrelli ne chiesero l’archiviazione a febbraio 2016 perché “E’ da escludersi che la scansione integrale della informativa del 15.10.2014 sia stata intenzionalmente effettuata dai militari al fine di renderla ostensibile attraverso il suo inserimento al TIAP (il sistema informatico della Procura, ndr)”; 2) “la pubblicazione degli atti era avvenuta ad opera del cancelliere (incolpecole anche lui, ndr) addetto alla segreteria del pm dell’antimafia Cesare Sirignano”.
L’audizione della dottoressa Musti al Csm doveva essere diretta ad appurare le responsabilità dei magistrati in quella fuga di notizie. Woodcock in questo caso non aveva alcuna responsabilità ma il pm Musti ne approfitta per fare due dichiarazioni contro la polizia giudiziaria preferita dal pm napoletano: i carabinieri del Noe.
La prima riguarda il fascicolo Cpl Concordia del 2015 e l’allora vicecomandante del Noe dei Carabinieri Sergio De Caprio, alias Ultimo.
Questa è la ‘la seconda versione’ del verbale pubblicata dal quotidiano Repubblica (diversa da quella del giorno precedente) riguardo all’incontro Ultimo-Musti per le carte dell’indagine Cpl Concordia del 2015: “Il presidente Fanfani chiede: «Chi glielo disse?». Musti: «Il colonnello De Caprio mi disse: “Lei ha una bomba in mano, se vuole la può fare esplodere”». Fanfani: «Ma in riferimento a cosa?». Lei: «Ma cosa ne so? Cioè, io non lo so perché erano degli agitati. Io dovevo lavorare su Cpl Concordia, punto, su quest’episodio di corruzione. Dissi ai miei, “prima ci liberiamo di questo fascicolo meglio è”».
Musti quindi sta dicendo al Csm che Ultimo quando consegnò il fascicolo Cpl Concordia a Modena disse che era una bomba. Il fascicolo non era centrato su Renzi ma sulla coop emiliana e conteneva intercettazioni del 2014 riguardanti: 1) i rapporti tra Massimo D’alema e la Cpl Concordia; 2) la Fondazione Icsa fondata da Marco Minniti ma lasciata dall’ex sottosegretario nel 2013; 3) intercettazioni su altri personaggi del Pd tra cui anche Matteo Renzi ma non solo lui.
Dal testo del secondo (e probabilmente vero) verbale pubblicato da Repubblica ieri si evince chiaramente che il pm Lucia Musti non dice e nemmeno insinua mai che ‘la bomba’ a cui faceva riferimento Ultimo fosse l’intercettazione di Renzi con Adinolfi.
La seconda cosa che dice il pm Lucia Musti al Csm riguarda il fascicolo che nel 2016 vedeva il solito Noe, sempre sotto la direzione del pm Woodcock, impegnato sul versante Consip. Così sempre Repubblica (sempre nella seconda versione del verbale ieri) riferisce la versione del pm Lucia Musti su un suo incontro con il capitano Scafarto ai primi di settembre del 2016: «Lui mi ha parlato del caso Consip, un modo di fare secondo me poco serio, perché un capitano, un maresciallo, un generale sono vincolati al segreto col loro pm, non devi dire a me che cosa stai facendo con un altro. Quindi, quando lui faceva lo sbruffone dicendo che sarebbe “scoppiato un casino”, io dentro di me ho detto “per l’amor di Dio”. Una persona seria non viene a dire certe cose, quell’ufficiale non è una persona seria». Fanfani vuole dettagli: «De Caprio ha detto “Ha una bomba in mano”, mentre Scafarto “succederà un casino”?». Musti risponde: «Scoppierà un casino, arriviamo a Renzi».
E’ evidente dalla lettura di questa versione del verbale l’inesattezza di quanto pubblicato il giorno prima. Lucia Musti non ha mai dichiarato che Ultimo e Scafarto le dissero: ‘Dottoressa, lei, se vuole, ha una bomba in mano. Lei può far esplodere la bomba. Scoppierà un casino. Arriviamo a Renzi’.
Una cosa è la bomba Cpl Concordia di cui parla Ultimo senza alcun riferimento a Renzi e alla sua conversazione con Adinolfi poi pubblicata dal Fatto.
Altra cosa è quel generico “scoppierà un casino arriviamo a Renzi” che sarebbe stato detto nel settembre 2016 dal capitano Scafarto quando aveva già in mano indizi pesanti su Tiziano Renzi.
La scorretta rappresentazione della realtà fatta dai grandi quotidiani insinua che la bomba di cui parlava Ultimo a Lucia Musti nel 2015 fosse l’intercettazione Adinolfi-Renzi. Non basta. la grande stampa e il Pd al seguito forzano anche il senso della frase di Scafarto per insinuare un intento complottistico del Noe contro Renzi nel 2016.
Scrive sul punto Il Corriere della Sera di venerdì “Il fatto che l’ex capitano del Noe abbia detto a Musti, quattro mesi prima di consegnare l’informativa e anche prima che fosse registrata la famosa frase «Renzi l’ultima volta che l’ho incontrato» falsamente attribuita a Romeo («assume straordinario valore e consente di inchiodare alle sue responsabilità il Renzi Tiziano», scrisse Scafarto nel rapporto), potrebbe far immaginare che l’obiettivo dei carabinieri fosse proprio il padre dell’ex premier. Come se fosse un possibile movente della successiva manipolazione dell’intercettazione. E chi volesse ipotizzare che quello fosse lo scopo dei falsi contestati a Scafarto (…) ora avrebbe un motivo in più per sostenerlo”.
La rappresentazione di un colloquio in cui Scafarto parla con Musti prima di avere nelle mani gli indizi e le registrazioni che inguaieranno Tiziano Renzi ha permesso al Pd Michele Anzaldi di presentare un’interrogazione al Governo e ha fatto parlare di ‘fatti di gravità inaudita’ all’ex segretario Pd Dario Franceschini e di “complotto” al capogruppo Pd Luigi Zanda. Grazie a questo modo di fare informazione non è apparsa ridicola la visita di Matteo Renzi a Rignano così raccontata in un pezzo dal titolo “Consip, Renzi subito a Rignano dal padre. Con lui il faccia a faccia della pace”.
Il pezzo è uscito il 14 settembre, proprio nel primo anniversario del giorno del famoso pizzino. Il 14 settembre 2016 infatti Alfredo Romeo scrisse su un foglietto ritrovato il giorno dopo nella spazzatura dal Noe e interpretato come un’offerta nero su bianco al ‘compare di Tiziano Renzi, Carlo Russo, di 30 mila euro al mese, destinati a ‘T.’ che secondo la tesi accusatoria sarebbe Tiziano Renzi.
Al di là delle conseguenze politiche della strumentalizzazione delle frasi della pm Musti, c’è una conseguenza giudiziaria di non poco conto. Alla Procura di Roma sono state trasmesse dal Csm le dichiarazioni della pm di Modena perché i pm Paolo Ielo e Mario Palazzi valutino se inserirle nel fascicolo contro Woodcock. Non solo. Lunedì prossimo la solita prima commissione del Csm presieduta dal solito Giuseppe Fanfani convocherà i due pm di Napoli, Giuseppe Borrelli e Alfonso D’avino, che si sono occupati del’indagine sulla pubblicazione da parte del Fatto dell’intercettazione Renzi-Adinolfi.
In pratica il presidente della commissione del Csm convoca i procuratori aggiunti di Napoli e trasmette carte alla Procura di Roma perché finalmente si indaghi a fondo nella direzione del collegamento tra i due scoop del Fatto, proprio la direzione auspicata dal leader Matteo Renzi nel suo libro.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano

Caporalato agropontino: denunce e aggressioni nell’articolo di Marco Omizzolo

Marco Omizzolo è una delle voci più preparate e autentiche sul fenomeno del caporalato. Questo suo articolo (scritto per Articolo21) è un quadro impietoso della situazione in provincia di Latina che ben racconta come il fenomeno dello sfruttamento non appartenga solo alla Puglia e, soprattutto, come l’emergenza non abbia bisogno di vittime per essere tale.

 

In provincia di Latina per molti giornalisti, ricercatori e attivisti non è facile lavorare. È infatti usanza consolidata di alcuni politici denunciare chi studia e racconta le mafie, la corruzione, l’urbanistica e l’ambiente per ostacolarne il lavoro. Se poi si riprendono, descrivono e raccontano anche i luoghi e i personaggi che praticano lo sfruttamento lavorativo, il caporalato e la tratta internazionale, allora dalle denunce temerarie si passa facilmente alle aggressioni, intimidazioni e minacce. È accaduto, ancora una volta, solo qualche giorno fa.

Il 5 settembre scorso, infatti, come faccio da anni, mi trovavo nelle campagne pontine a documentare, intervistare, raccogliere storie di vita di braccianti indiani per approfondire il tema dello sfruttamento lavorativo ad opera di alcuni imprenditori e caporali. Un lavoro affascinante e difficile, scomodo e spesso battistrada per individuare una serie di interessi criminali e metodi in sé mafiosi. Molte ricerche scientifiche e giornalistiche, italiane e straniere, ormai concordano nel riconoscere lo sfruttamento lavorativo, soprattutto quando associato ai migranti, insieme al caporalato e alla tratta internazionale, espressione di una criminalità più o meno dipendente dalla consorterie mafiose tradizionali.

Con me questa volta si trovava una troupe della Bbc, network tra i più importanti al mondo composta da Rahul, giornalista peraltro di origine indiana, e dal suo operatore, e Floriana Bulfon, giornalista de L’Espresso che sul grave sfruttamento lavorativo dei lavoratori indiani ha già pubblicato importanti inchieste, lì in veste di interprete.

Una combinazione di professionalità di livello internazionale e, grazie anche alle origini del giornalista della Bbc, che si è subito confrontata non solo con le testiminianze dei lavoratori da anni sfruttati da padroni italiani, caporali e trafficanti spesso loro connazionali, ma anche con le reazioni, minacce e intimidazioni di chi si ritiene legittimato a sfruttare e a non dar conto dei propri comportamenti.

Giunti intorno alle 09.00 del mattino a ridosso di un campo agricolo, restando sulla strada pubblica e dunque senza invadere proprietà privata alcuna, Rahul e il suo operatore iniziano a riprendere un gruppo di lavoratori indiani chini sui campi. Nulla di particolare, nulla di ambiguo. Una telecamera a ripredere ciò che nelle campagne pontine tutti vedono ogni giorno. E poi un giornalista che racconta la giornata di un lavoratore indiano, descrive quelle condizioni, non esprime giudizi ma approfondisce, come deve, ciò che nei giorni precedenti aveva raccolto in termini di informazioni mediante interviste fatte agli stessi lavoratori come anche ad alcuni rappresentanti istituzionali e delle forze dell’ordine.

Tanto però è bastato per essere fermati subito da un ragazzo italiano, probabilmente il padrone del campo e datore di lavoro di quei lavoratori. Dovevamo, secondo lui, interrompere le riprese. In pochi secondi siamo stati raggiunti anche da un’auto dalla quale è scesa una donna che ha subito fotografato la nostra auto (presa a noleggio) e chiesto spiegazioni, peraltro prontamente fornite con tanto di esposizione dei documenti e tesserini da giornalista. La tesi era “voi non potete riprendere senza il nostro permesso, non potete fare domande, i lavoratori sono tutti in regola, dovetre andare subito via o vi denuncio….ora chiamo i carabinieri”. Intanto sono arrivate altre due auto che parcheggiano a poca distanza da noi dalle quali scendono due uomini. Capiamo che rischiamo di restare lì tutto il giorno e decidiamo di andare via evitando di cadere nelle provocazioni. Riprendiamo a girare per le campagne di Sabaudia e dopo soli dieci minuti veniamo fermati un’altra volta. In questo caso ad intimarci l’alt è la polizia municipale di Sabaudia. Accostiamo sul ciglio della strada. Alla nostra destra e sinistra solo campi pieni di lavoratori indiani piegati a raccogliere. Accanto a loro, in piedi, qualche italiano e altri indiani. I primi erano i “padroni” e i secondi i “caporali”. Ci sarebbe piaciuto intervistarli ma non è stato possibile per il prontissimo intervento della celere municipale. Bene, è dovere loro controllare e lo fanno con attenzione certosina. Ci chiedono i documenti. Ognuno presenta il proprio, compresi i tesserini da giornalisti. La telecamera intanto riprende i braccianti indiani piegati nei campi e i caporali che ridono. I controlli sono così accurati che non so se esserne lieto o demoralizzarmi. Il vigile annota tutto con scrupolosità: i nostri nomi, i numeri dei nostri documenti, il contratto di noleggio dell’auto, l’effettiva revisione della stessa, l’assicurazione e infine guarda se l’auto ha qualche problema. Alle sue domande rispondiamo con educazione mista ad ironia, forse per alleggerire la tensione. Intanto l’operatore, di origine egiziane e con una lunga esperienza internazionale, ci dice che neanche quando è stato in Egitto, Libia o in Siria gli era mai capitato di vivere una tale situazione. Ma è solo l’inizio. Il vigile ci comunica che tanta solerzia è dovuta al pericolo terrorismo. La sua attenzione è indispensabile perchè “è un periodo difficile e il pericolo di attentati può esserci ovunque”. Un po’ la cosa fa ridere, un po’ invece no. Intanto alla sua destra e sinistra i lavoratori indiani continuano a lavorare sotto padrone e caporale. Padrone e caporale che dovrebbero essere perseguiti, addirittura arrestati, stando alla recente nuova legge contro il caporalato (lex 199/2016). Loro invece restano lì, in piedi, a controllare il lavoro dei braccianti, a chiedere loro di fare più in fretta per una retribuzione oraria che non arriva ai 4 euro (nella migliore delle ipotesi) a fronte dei 9 lordi circa che la legge prevede. Non vengono rispettate le misure a tutela della loro salute. Lavorano anche 12 ore, con pause brevi. Il datore di lavoro in alcuni casi si fa chiamare padrone. Il caporale li insulta. Se un lavoratore indiano si infortuna viene allontanato o portato in prossimità di un Pronto Soccorso e poi abbandonato. Abbiamo decine di referti di aggressioni o malatti legate allo sfruttamento. Ma il vigile, giustamente, controlla la revisione della nostra auto e il contratto di noleggio quale strategia per contrastare il terrorismo internazionale. Il giornalista della Bbc ride, io un po’ meno.

Finito ogni controllo, pensiamo di andare via. L’aria si è fatta pesante. In solo un’ora siamo stati avvicinati da vari datori di lavoro, presi in giro da caporali e padroni, controllati dalla polizia municipale. Ci pare abbastanza.

Decidiamo di trovare una location adatta per farmi intervista. Suggerisco il Mof di Fondi, ossia uno dei maggiori mercati ortofrutticoli d’Europa. Già al centro delle cronache giudiziarie e giornalistiche d’Italia, il Mof è il luogo ideale in cui raccontare il rapporto tra mafie, sfruttamento lavorativo, tratta internazionale e caporalato. Proprio in  prossimità dell’entrata di quel Mercato si ritrovavano, come ho già avuto modo di scrivere per Articolo21, Gaetano Riina, fratello di Totò Riina, e Nicola Schiavone, figlio di Carmine Schiavone detto Sandokan, tra i fondatori del clan dei Casalesi. Le indagini portarono alla luce il sodalizio criminale tra i casalesi, i Mallardo e i corleonesi per la gestione di vari mercati ortofrutticoli dalla Sicilia a Fondi. I clan campani fungevano da service per trasporti e logistica mentre i mafiosi siciliani fornivano i prodotti agricoli con il beneplacido interessato della ‘ndrangheta. Camion che trasportavano ufficialmente la frutta e la verdura prodotta nelle campagne pontine dai braccianti nascondevano e trasportavano anche armi, droga e forse anche denaro frutto di rapine, estorsioni e traffici illeciti di varia natura.

Prima di arrivare spiego la storia criminale del pontino che ho provato a ricostruire, almeno per una parte della sua genesi, con una mia recente pubblicazione (http://www.tempi-moderni.net/prodotto/la-quinta-mafia/). Gli racconto delle estorisioni, delle mancato scioglimento dell’amministrazione comunale di Fondi, della reazione della politica al potere, dei silenzi e dell’operato lodevole delle forze dell’ordine della magistratura. In auto c’è silenzio interrotto da qualche battuta per stemperare la tensione.

Anche in questo caso arriviamo a ridosso dell’entrata del MOF. Restiamo però ancora sulla strada. Parcheggiamo e l’operatore, con Rahul, si posizione su un’aiuola. Si tratta di suolo pubblico. In lontananza si vede l’enorme scritta del MOF. Iniziamo l’intervista. La prima domanda riguarda il mio interesse per le agromafie e lo sfruttamento lavorativo e da qui arrivo all’uso indotto di sostanze dopanti da parte dei lavoratori indiani per reggere i ritmi imposti al lavoro e lo sfruttamento, tutto documentato  da un dossier (Doparsi per lavorare come schiavi) pubblicato da In Migrazione.

Ancora una volta veniamo interrotti. Questa volta è la guardia giurata del Mof. Ci chiede le generalità e lo scopo del nostro lavoro. Siamo ovviamente collaborativi. Floriana è paziente. L’essere una giornalista di giudiziaria de L’Espresso e trattando il tema mafie e terrorismo da anni, riesce a gestire adeguatamente la situazione. La guardia giurata ci ricorda che per stare lì dobbiamo chiedere l’autorizzazione. Non importa se il suolo è pubblico e se siamo distanti dal Mof. Serve l’autorizzazione. Sembra di vivere in un film comico. Avendo saputo che si tratta della Bbc, la guardia chiama la direzione che gli intima di lasciarci lavorare. Sono evidentemente più astuti dei padroni agricoli pontini.

Riprendiamo l’intervista ma dopo due minuti arriva un altro controllo. Si ferma un’utilitaria. Nessun logo sulla fiancata, nessun lampeggiante o titolo in evidenza. Scende un uomo sui 55 anni. Ci sorride e non interviene subito ma ci scatta con il cellulare alcune foto. Io mi fermo perchè avverto quella presenza come inquietante. Floriana gli si avvicina e torna a spiegare, per la quarta volta in due ore, che lei è un’interprete, che si tratta della Bbc (cosa che quest’uomo sapeva già), cosa stavamo facendo e perché eravamo lì. In questo caso la nostra percezione è diversa da quelle passate. Quell’uomo così gentile ferma subito Floriana e le dice che sa perfettamente che lei non è solo un’interprete ma una giornalista. Poi ci spiega, sempre sorridendo, che dobbiamo avere un’autorizzazione sia per stare su quell’aiuola sia per filmare ma che ci concede, bontà sua, di continuare. Floriana lo avverte che non stavamo facendo un servizio sulle mafie nel Mof e lui, astutamente, non risponde. Fotografa però ancora la nostra auto e mi scatta una foto da distanza abbastanza ravvicinata. Non ci dà spiegazioni sulle ragioni della sua presenza, sul suo ruolo e attività. Non è affatto arrogante. Ad alta voce, per farsi sentire distintamente da tutti, dice però di fare attenzione perché “potrebbero improvvisamente attivarsi gli annaffiatoi” e aggiunge che quello in cui eravamo è un posto pericoloso perché passano molti camion. Qualcuno, afferma, soprattutto quando è carico, potrebbe “perdere il controllo e venirci addosso” facendo una strage. Si preoccupa per noi. Floriana ed io restiamo per qualche secondo in silenzio. Continua affermando che quei camion hanno già perduto il controllo in passato salendo varie volte sull’aiuola dove ci trovavamo. Lo informiamo che staremo ancora solo due minuti e lui dalle foto passa al video. Ci riprende qualche secondo e va via, salvo nascondersi dietro una curva dalla quale poteva tenerci d’occhio.

Finisco l’intervista parlando di sfruttamento, doping, mafia, di tratta internazionale, caporalato e del bisogno che abbiamo di giustizia e diritti. L’entrata del Mof è alle mie spalle. Alla nostra destra, lontano qualche centinaio di metri, quell’ometto basso e sorridente che si preoccupava della nostra salute. La minaccia io e Floriana l’abbiamo capita benissimo. Stare attenti e soprattuto stare lontanti, dal Mof, da certi temi, da certi campi.

Torniamo a Sabaudia per continuare il nostro lavoro, ben sapendo che esistono interessi e luoghi che non devono essere ripresi ma che proprio per questo, ne siamo convinti, meritano di essere descritti, indagati, studiati.

La sensazione che si vive è di pressione e ostacolo costante al nostro lavoro da parte di chi sfrutta, di criminali vari, di alcune istituzioni che sembrano refrattarie a qualunque impegno volto a ristabilire legalità e giustizia, di personaggi non meno precisati che si sentono così forti da minacciare direttamente un giornalista della Bbc, il suo operatore, una giornalista de L’Espresso e il sottoscritto. Si ha la certezza che lavorare nel Pontino raccontando le storie degli ultimi, degli sfruttati, dei migranti obbligati ad abbassare la testa dinanzi al padrone di turno, procura problemi e intimidazioni. La Bbc ha capito bene come stanno le cose e ad ottobre manderà in onda il servizio a livello mondiale e da Londra a New York, da Calcutta a Roma, tutti vedranno e sapranno. Non c’è stato dunque bisogno di usare troppe parole. È bastato fargli vivere l’esperienza diretta di chi prova a raccontare puntando il dito, l’obiettivo e la penna negli angoli bui di questa provincia dove poco si vede e meno si sa. Poi arrivano padroni, caporali, vigili, guardie giurate e anonimi personaggi sorridenti a domandarti chi sei, cosa fai e soprattutto a raccomandarsi di stare attento alla salute che qui ci vuole poco a farsi male. Intanto tutto intorno braccianti, indiani e spesso anche italiani, si spezzano la schiena per pochi euro al giorno, i caporali comandano, i padroni ordinano e fanno i soldi e i padrini fanno politica e filmini con il cellulare. Ma le cose prima o poi cambiano ed è per questo che continueremo ad analizzare, raccontare e descrivere decidendo ogni giorno da che parte stare e contro chi combattere.

«Dalla Chiesa lo abbiamo ucciso tutti noi»: la storica intervista a Sciascia del Corriere della Sera

L’intervista che leggete è stata pubblicata sul Corriere del 5 settembre 1982. 

«Carlo Alberto dalla Chiesa lo abbiamo ucciso tutti quanti noi indicandolo come l’unico che poteva combattere il terrorismo, come l’unico che poteva combattere la mafia. Ne abbiamo fatto un bersaglio cui qualcuno poi ha sparato».

Comincia così il nostro colloquio con lo scrittore Leonardo Sciascia venti ore dopo l’assassinio del generale dei carabinieri. Sciascia non aveva stabili frequentazioni con il militare, ma ne era rimasto affascinato tanto da trasformarlo nel capitano Bellodi, protagonista de «Il giorno della civetta».

L’incontro avviene nella casa di campagna dello scrittore a Racalmuto, poche migliaia di anime al centro del triangolo della miseria in Sicilia. Sciascia vi trascorre le vacanze in compagnia della moglie, n resto del mondo appare lontano. La notizia dell’assassinio del prefetto di Palermo Sciascia l’ha appresa solo ieri mattina, dodici ore dopo l’agguato.

«Questo assassinio — dice — ha un solo significato ed è l’eliminazione di una singola persona che era diventata un simbolo. Le istituzioni sono tarlate, non funzionano più, si reggono solo sulla abnegazione di pochi uomini coraggiosi. A partire dall’assassinio del vice questore Boris Giuliano, la mafia ha deciso di eliminare questi uomini simbolo. Arrivati a dalla Chiesa, però, mi domando, se non ci sia della follia in chi ordina questi delitti: che cosa vogliono? Qual è il loro obiettivo? Pretendono forse il governo dello Stato? In verità non riesco a capire. Vogliono forse Imporre un ordine mafioso che si sovrapponga a quello dello Stato? Ma questo è impossibile perché livello dei delitti è talmente alto da suscitare una fortissima reazione».

«Io credo – continua Sciascia — che nessuna organizzazione eversiva possa gareggiare con lo Stato in fatto di violenza, anche quando lo Stato appare inefficiente. Anzi, la sua inefficienza, è direttamente proporzionale alla mancanza dt funzionalità. In queste condizioni sfidarlo mi sembra un atto di napoleonismo folle. Ma tutto ciò mi preoccupa perché uno Stato inesistente è sempre capace di approvare una legge sui pentiti e di scatenare una furibonda repressione poliziesca».
«Secondo me la mafia si combatte utilizzando onestà, coraggio e intelligenza e le indagini fiscali illustrate due giorni fa dal ministro Formica mi sembrano un buon inizio. Con questi strumenti la mafia si può debellare.

«Per capire tale affermazione bisogna rifarsi alla tesi classica che voleva la mafia inserita nel vuoto dello Stato, mentre in realtà essa vive nel pieno dello Stato. Credo che dall’istituzione della commissione antimafia in poi, l’organizzazione abbia cominciato a sentirsi esclusa dal pieno dello Stato e ora ha assunto questa forma che potremmo definire eversiva. Ma in effetti appare come un animale ferito che dà colpi di coda».

«Dalla Chiesa, forse — aggiunge lo scrittore —, non aveva intuito tale trasformazione e i pericoli che ne derivavano. Anch’io, peraltro, non credevo che si arrivasse a colpire tanto in alto. Ma in effetti noi tutti conosciamo bene solamente la vecchia mafia terriera. Per il resto tiriamo ad indovinare. Possiamo dire in ogni caso che la mafia è una forma di terrorismo perché vuole terrorizzare la gente. Ma i fini sono sostanzialmente diversi. Di comune c’è una sola cosa e cioè l’attentato alle nostre libertà».

«Ma forse Dalla Chiesa — conclude Sciascia — non aveva piena coscienza di questo fenomeno. Mi meraviglio infatti della maniera con cui è stato ucciso. Quando un uomo arriva alle sue posizioni ha il dovere di farsi proteggere e di farsi scortare bene. Le manifestazioni di coraggio personale possono diventare forme di imprudenza pericolosa. Ciò nonostante mi sgomenta la incapacità della nostra polizia di prevenire. Infatti un attentato ad un uomo come Dalla Chiesa non si improvvisa in quattro e quattr’otto, ma nessuno ne aveva avuto sentore».

La provvidenziale morte di “faccia da mostro”

È morto mentre trascinava la sua barca sulla spiaggia di Montauro, sulla costa ionica cataranzese. Giovanni Aiello muore “da innocente” come si affrettano a dire i suoi avvocati: un malore sulla spiaggia. Forse un infarto, dicono.

Eppure Giovanni Aiello è anche il cosiddetto “faccia da mostro” di cui parlano alcuni pentiti di Cosa Nostra. «C’entra con tutti gli omicidi più strani di Palermo», aveva detto di lui il pentito Luigi Ilardo al colonnello Michele Riccio. Recentemente una nuova “fonte” aveva raccontato ulteriori particolari su di lui alla Procura di Reggio Calabria. Alcuni collaboratori di giustizia l’hanno indicato come elemento di congiunzione tra i servizi segreti e gli uomini di Cosa Nostra (ma i servizi smentiscono) mentre a Palermo è stato indicato come elemento fondamentale nell’uccisione dell’agente Nino Agostino, barbaramente ucciso con la moglie Ida Castelluccio. La scena del riconoscimento da parte del padre dell’agente, Vincenzo Agostino, al tribunale di Palermo è una di quelle che straziano solo a pensarle.

A Reggio Calabria Aiello era  indagato dell’inchiesta “Ndrangheta stragista”, che di recente ha svelato il ruolo dei clan calabresi nella strategia della tensione messa in atto dalle mafie negli anni Novanta con le cosiddette “stragi continentali”, in quel pezzo di storia d’Italia in cui mafie, massoneria e servizi deviati hanno avuto un ruolo determinante nella strategia del terrore.

A luglio, per l’ennesima volta, l’abitazione di “faccia da mostro” era stata perquisita. Nello stesso giorno erano state perquisite anche le abitazioni di Bruno Contrada e  dell’ex agente di polizia Guido Paolilli e dei fratelli Gagliardi di Soverato.

Ora Giovanni Aiello invece è morto. Se n’è andato prima che arrivasse la verità. Come succede troppo spesso, qui da noi. E la verità diventa ancora più ripida.

Buon martedì.

(continua su Left)

Scrive Bild: “In Germania vivono 562 affiliati a Cosa nostra, ‘ndrangheta a camorra”

(fonte: Il Fatto Quotidiano)

In Germania vivono 562 esponenti di associazioni mafiose di origine italiana. Lo rivela la Bild, raccontando il contenuto della risposta fornita dal ministero dell’Interno tedesco a un’interrogazione parlamentare dei Verdi. Il numero si è quadruplicato rispetto al 2008 quando in Germania c’erano solo 136 esponenti di quella che Bild chiama genericamente “mafia”.

Notoriamente su suolo tedesco l’organizzazione criminale più presente è la ‘ndrangheta calabrese che in Germania conta 333 affiliati. Segue quindi Cosa nostra, con 124 “picciotti”. Dal 2008 sono 103 le inchieste aperte contro la criminalità organizzata. Le forze dell’ordine hanno recuperato da allora 5,6 milioni di euro.

Ilfattoquotidiano.it ha dedicato alla Germania uno dei focuscontenuti nell’inchiesta sulle mafie unite d’Europa (leggi lo speciale). Una delle principali attività dei mafiosi su suolo tedesco è quella della ristorazione: pizzerie, ristoranti e bar. Questi locali, come hanno dimostrato le indagini congiunte dei Carabinieri del Ros e del Bka dopo la strage di Duisburg, diventano dei veri e propri centri logistici ad ampio spettro, quartieri generali per gli incontri, lavatrici per il denaro sporco nonché snodi per il traffico di armi e droga – soprattutto cocaina da Olanda (vedi Focus) e Belgio. Lo dimostrano le indagini sui super-narcos Sebastiano Signati e Bruno Pizzata, che dirigevano un imponente traffico di cocaina sull’asse, appunto, Olanda-Belgio-Germania. Pizzata, che viveva a Oberhausen, aveva proprio un ristorante come centro logistico, “La Cucina”.

Una fra le più importanti indagini sul riciclaggio di capitali mafiosi in Germania, partita dall’Italia, è l’operazione Scavo del 2013 contro Cosa Nostra agrigentina. L’indagine ha scoperto come un licatese di nome Gabriele Spiteri fosse stato incaricato da Cosa Nostra di gestire la “Baumafia”, ovvero una rete di 430 imprese di costruzioni mafiose (tutte rigorosamente aperte da prestanome) che in Germania costruivano palazzi, ma servivano anche da lavatrici per profitti illeciti milionari. Non era Spiteri – bocciato tre volte alle elementari – l’ideatore di questo sistema. A controllare le sue mosse, come ha rivelato un team internazionale d’inchiesta composto da giornalisti di IrpiCorrectiv e Grandangolo Agrigento, era Angelo Occhipinti, presunto capo-mandamento di Colonia per la mafia agrigentina. Il quale, secondo un ex-killer di Cosa Nostra con cui hanno parlato in esclusiva i giornalisti, prendeva ordini direttamente dai capi-mandamento della Provincia di Agrigento – gli stessi che nel 2012 hanno comandato la lupara bianca per il capo-mandamento di Manneheim dell’epoca, Giuseppe Condello, ritrovato cadavere in un cunicolo di scolo dell’acqua nelle campagne di Palma di Montechiaro. Dopo la risonanza internazionale della strage di Duisburg del 2007, infatti, sia la ‘ndrangheta che Cosa Nostra hanno cambiato tattica: si spara solo sul suolo italiano, così da non rovinare gli affari in Germania.

Palermo, il delitto del mercato: ucciso per uno schiaffo

Salvo Palazzolo per Repubblica:

Quando ancora Palermo dorme, qualcuno già litiga al Capo. Voci, spintoni, insulti. Due uomini litigano senza esclusione di colpi. E poi, all’improvviso, il silenzio. Pochi attimi prima dell’arrivo di una pattuglia dei carabinieri, inviata dalla centrale dopo una telefonata anonima. Sono le sette, in via Porta Carini ci sono pochissime persone. Il fruttivendolo Andrea Cusimano, uno di quelli che hanno discusso animatamente (ma questo ancora nessuno lo sa), sta aprendo la sua bancarella, che è la prima del mercato. Ha il tempo di sistemare qualche cassetta di ortaggi. Tutto sembra tranquillo, la pattuglia va via. Ma 45 minuti dopo, arriva un giovane robusto, ha una pistola in mano. Cusimano lo conosce, è il figlio dell’uomo che ha affrontato poco prima, con uno schiaffo, racconterà un testimone. È in quel momento che Cusimano comprende di essere diventato la vittima predestinata. E allora prova a scappare fra le bancarelle. Mancano una manciata di minuti alle otto.

Corre, Andrea Cusimano, è un giovane di 30 anni. Non ha scampo. Uno, due, tre colpi di pistola lo stendono per terra. Il sicario si avvicina, forse vuole pure infliggere il colpo di grazia con la sua Lebel calibro 38, una pistola di fabbricazione francese. Quale offesa ha mai fatto quel fruttivendolo? Di sicuro c’è solo che l’esecuzione della condanna a morte decisa nel giro di una manciata di minuti deve essere esemplare. Poco importa che in quel momento ci siano già diverse persone attorno. Commercianti, turisti. Ci sono anche un maresciallo e un appuntato del nucleo Investigativo dei carabinieri, sono in borghese. Inizia un inseguimento fra le bancarelle: l’assassino prova a liberarsi della pistola, lanciandola dentro un deposito. Poi, si infila dentro una Smart nera guidata da un complice, che aspetta in via Volturno. Il carabiniere lo tira fuori a forza. L’auto fugge, ma l’assassino è in manette. È un giovane di 23 anni, Calogero Piero Lo Presti, suo padre è Giovanni, nel 2002 finì in carcere pure lui con l’accusa di aver ucciso un parente, Salvatore Altieri, al culmine di una drammatica lite. In realtà, passò una settimana prima che Lo Cascio fosse individuato, perché i familiari avevano scelto di sacrificare il figlio della vittima pur di salvare il vero assassino. E non è un caso. Lo Presti è un cognome pesante nella geografia di Cosa nostra. Un dato che è subito balzato all’attenzione dei carabinieri. Lo Presti junior è nipote del boss Calogero Lo Presti, uno dei ras di Cosa nostra che comandano su Porta Nuova, ma anche cugino di secondo grado di Tommaso Lo Presti, altro autorevole padrino.

Cosa unisce i popoli? La droga

Un pezzo preziosissimo di Guido Olimpio per La Lettura- Corriere della Sera:

Tre storie diverse, tre luoghi diversi. Un solo filo: la droga. Prima settimana d’agosto, Candelilla del Mar, municipio di Tumaco, Colombia, al confine con l’Ecuador. Un rastrellamento militare porta al sequestro di un battello semi-sommergibile. Lungo 17 metri, largo quasi quattro, spinto da motori diesel, probabile meta le coste centro-americane.

Costo di costruzione – artigianale – di circa un milione di dollari. Ai trafficanti, pronti a inzepparlo di coca, rende dieci volte tanto. La merce, con un giro tortuoso e complesso, è destinata all’ insaziabile mercato statunitense. I «narco-sub», come sono stati ribattezzati questi «vascelli», sono solo una delle componenti di un network poderoso.

Fine giugno, costa atlantica francese a ovest di Bordeaux. Una segnalazione al servizio salvataggi comunica che ci sono due gommoni in difficoltà. Partono i soccorsi e una successiva telefonata avvisa che su una spiaggia sono stati visti dei 4×4 vicino a due imbarcazioni appena sbucate dal mare in tempesta.

La facciamo breve: la polizia scopre oltre una tonnellata e mezza di coca, arresta una banda multinazionale composta da greci e moldavi. Il carico è arrivato con una barca a vela partita dal Sudamerica. I magistrati non nascondono la sorpresa per la veloce assistenza legale assicurata agli arrestati da avvocati di lingua greca. Una prova dell’ efficienza della gang.

Primi giorni d’ agosto, porto di Manzanillo, regione del Pacifico, Messico. I marines, con due operazioni distinte, sequestrano 18 tonnellate di precursori chimici. Le sostanze sono giunte nello scalo a bordo di cargo provenienti dalla Cina. Non è proprio una sorpresa. I prodotti sono indispensabili per la produzione di anfetamine, «pillole blu» che sono lavorate e spedite negli Stati Uniti dai cartelli. Infatti le organizzazioni si contendono il controllo dei porti. E in questo caso è evidente come i fornitori siano lontani: i cinesi e, anche, gli indiani.

Chi controlla le porte dingresso può gestire meglio i suoi affari. È una piovra mostruosa. Tagli un tentacolo e ne nasce un altro.

Gli ultimi rapporti affermano che il traffico della droga ha reso nel 2016 tra i 426 e i 652 miliardi di dollari (stima del Global Financial Integrity). Nel dettaglio: la cannabis tra 183 e 287; la coca tra 94 e 143. La Colombia, nonostante gli sforzi massicci, ha visto crescere, nel 2016, la produzione di cocaina: 866 tonnellate contro le 649 del 2015. Ed è incalzata dal Perù, Paese specializzato – come altri – non solo nella «crescita», ma anche nell’ export con una serie incredibile di piste in terra usate da piccoli velivoli, a volte rubati, a volte comprati e affidati a una pattuglia di piloti spericolati. Stesso fenomeno in alcune aree dell’ Argentina e poi nel «solito» Messico.

La Baja California messicana, a sud della famosa Ensenada, è come un aeroporto naturale. Le «strisce» costruite in modo rudimentale diventano un trampolino d’ appoggio per le partite di marijuana, trasferite poi a bordo di Tir o pick up che risalgono fino alla frontiera con gli Usa. In alcune situazioni i banditi piazzano le mattonelle a bordo di altri piccoli aerei.

Dai Piper da turismo agli ultra-leggeri, fino ad arrivare a deltaplani a motore. Atterrano clandestinamente in prati americani. In alternativa «bombardano», ossia sganciano la droga in località stabilite di Arizona e California – con l’ aiuto di dati Gps e riferimenti geografici – e poi tornano indietro. Missione facile, ma anche ad alto rischio.

Qualche volta si schiantano e la possibilità di rimetterci la pelle è alta. Ai committenti importa poco. Con i numeri che abbiamo citato si comprende il motivo. La materia prima non manca, come i clienti. Avendo tanti soldi a disposizione è altrettanto rapido trovare chi si prende tutti i rischi. Legge «economica» che troviamo in Afghanistan e in certi quadranti africani.

È evidente come spesso l’ elemento narco si mescoli alla politica. Formazioni guerrigliere diluiscono o dimenticano l’ ideologia, rimpiazzandola con il crimine puro. Pensiamo alle Farc in Colombia, agli irriducibili di Sendero Luminoso in Perù. Si adattano, mutano le priorità, spingono sul contrabbando. Proprio gli insorti colombiani hanno avuto un ruolo nello sviluppo dei cosiddetti semi-sommergibili.

L’ onda lunga è devastante, porta il veleno e restituisce relitti. Il boom di eroina in alcune città americane ha conquistato le pagine dei grandi media e spinto molti a lanciare l’ allarme sulle conseguenze. Nel Sud della Francia la lotta tra «famiglie» rivali per il controllo dello spaccio è feroce. Tante le vittime, falciate a colpi di Kalashnikov. Il 3 luglio un episodio su tutti.

Un giovane, con precedenti per vicende legate agli stupefacenti, è assassinato in una via di Tolosa. Il killer lo ha sorpreso usando una tecnica irachena: indossava un burqa sotto il quale ha nascosto volto e mitra. La vittima ha cercato di fuggire, il sicario lo ha inseguito e ha aperto il fuoco. Trenta i proiettili.

Storia che ricorda un’ altra, con alcuni ceceni sorpresi da un agguato nel luglio di un anno fa. E Tolosa non è da sola. A Marsiglia va pure peggio, con regolamenti di conti continui, simili a quelli visti in queste settimane a Foggia e nei mesi scorsi in Canada, dove agiscono storicamente alcuni padrini italiani, sbarcati qui da Sicilia e Calabria. Odio antico si è sommato a dispute recenti che hanno tramutato tranquilli quartieri di Montréal in terreni di caccia. In tanti hanno fatto una brutta fine, in particolare esponenti del clan Rizzuto.

È un’ emergenza globale. I boss non vogliono perdere tempo e denaro, investono risorse immense in altri settori, perfettamente legali. Se ti metti in mezzo, ti spianano. Per questo c’ è poca differenza tra un barrio sudamericano e un quartiere difficile europeo.

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La droga accorcia le distanze e le vite..

Il pentito al cubo: il falso pentito Giuseppe Tuzzolino

(Marco Bova per Il Fatto)

“La vera vittima delle propalazioni del collaboratore di giustizia Giuseppe Tuzzolino è proprio la giustizia”. Il gip del tribunale di Caltanissetta, Antonia Leone, non ha dubbi: l’ex architetto agrigentino arrestato agli inizi di agosto con l’accusa di calunnia è un “bugiardo patologico. Il lavoro della Squadra Mobile nissena ha azzerato l’attendibilità del pentito, architetto massone originario di Agrigento, che da almeno cinque anni collabora con i magistrati di mezza Isola impegnati nelle inchieste su mafia, massoneria e sulla latitanza del boss Matteo Messina Denaro. Dichiarazioni clamorose, che hanno puntato il mirino contro insospettabili, accusando magistrati e legali di essere corrotti e collusi. Racconti che hanno obbligato gli inquirenti a fare perquisizioni e sequestri. Tutto puntualmente rilanciato dalla stampa, comprese le informazioni, “ritenute false“, sui presunti progetti di morte già pronti per assassinare alcuni magistrati.

L’inchiesta della procura nissena, scrive il gip, ha “raggiunto la prova totaledell’infondatezza delle propalazioni accusatorie di Tuzzolino”. Dietro al castello di false dichiarazioni si celerebbe il tentativo di schermare dei capitali in un paradiso fiscale. Tuzzolino, che aveva già patteggiato un anno e dieci mesi di reclusione per truffa, turbativa d’asta e falso ideologico, di sé, rivolgendosi alla moglie (che lo ha denunciato per violenze), dice (mentre gli investigatori lo intercettano): “Vinco sempre io. È un destino. Sono fatto così. Sono nato per vincere” e ancora “ho pensato un colpo da maestro, ma io sono un mago”. Continuando al telefono con la consorte, a un certo si rammarica persino di aver “dimenticato di dire alla dottoressa Principato che Gianluca Vacchi (il noto imprenditore e personaggio social, ndr) fosse un mafioso“. Adesso il falso pentito si trova in galera, in isolamento, e sul suo status giudiziario a breve la Commissione centrale dovrà esprimersi per confermare o meno la protezione. Dalle sue dichiarazioni sono nati oltre 34 procedimenti “tutti conclusi – dice Francesco Lo Voi, procuratore capo di Palermo ascoltato come teste – con richiesta di archiviazione, in parte accolti e in parte ancora pendenti dinanzi ai giudici». Per i magistrati di Caltanissetta sarebbero fasulle le dichiarazioni rese sugli attentati progettati contro i magistrati Marcello Viola, Marco Verzera (all’epoca entrambi in servizio a Trapani), Teresa Principato(fino a pochi mesi fa guidava le indagini sulla ricerca di Matteo Messina Denaro) e Francesco Lo Voi e su presunti favori concessi dall’ex procuratore capo di Agrigento, Ignazio De Francisci, ora procuratore generale di Bologna.

Le indagini si riferiscono a fatti accaduti lo scorso anno: per smontare le dichiarazioni di Tuzzolino, gli agenti della Squadra Mobile hanno analizzato ogni singola dichiarazione messa a verbale dal pentito durante gli interrogatori. Racconti smentiti dalle intercettazioni e soprattutto dai dati sulle cellule telefoniche alle quali si agganciava il suo telefono cellulare. Molti dei particolari citati da Tuzzolino per dare credibilità alle sue “rivelazioni“, tra l’altro, non sarebbero neanche inediti: si trattava di fatti accessibili da fonti aperte.  In pratica informazioni reperibili dai giornali o addirittura dal web rilanciate nei verbali per dare solidità ai suoi racconti. “L’ufficio – scrive il giudice – è stato impegnato per diversi mesi per compiere le doverose attività di riscontro alle dichiarazioni poi rivelatesi del tutto false”.

Tutto comincia quando l’architetto 37enne, dopo aver inviato un curriculum con il suo vero nome, inizia a lavorare in un call center marchigiano. Lì conosce l’avvocato Ennio Sciamanna, noto per aver difeso altri collaboratori di giustizia – tra cui Antonio Mancini, l’accattone della Banda della Magliana – e l’imprenditore Silvano Ascani, sotto processo per il fallimento di una discoteca. Il 30 agosto durante un interrogatorio condotto dall’allora procuratore capo di Trapani, Marcello Viola, e dal sostituto procuratore Marco Verzera, Tuzzolino riferisce che “era in corso un attentato ai danni dello stesso Viola e della dottoressa Teresa Principato”. Ad averglielo rivelato sarebbe stato il legale romano che dopo essersi fatto nominare suo avvocato di fiducia, avrebbe cominciato a fargli confidenze su confidenze. “L’attentato si sarebbe svolto in occasione di nuovi interrogatori”, spiega Tuzzolino.  “Viola – secondo il pentito – non era ancora stato ucciso perché Messina Denaro non voleva fare guai ma adesso il latitante si era deciso a farlo perché il magistrato stava dando fastidio al senatore Tonino D’Alì, grosso favoreggiatore della latitanza della ‘testa dell’acqua’(il capo di Cosa nostra ndr)”. Le indagini a carico del senatore D’Alì (Forza Italia) sui rapporti con i Messina Denaro sono note almeno dal 2011: il fatto che Tuzzolino collegasse il parlamentare al boss di Castelvetrano, dunque, non riscontrava in nessun modo il suo racconto.

Quando non arrivano da giornali e siti internet, tutte o quasi le presunte rivelazioni di Tuzzolino avrebbero sempre stessa fonte: l’avvocato Sciamanna. Il legale avrebbe saputo degli attentati progettati da Cosa nostra perché informato da un tale avvocato Siciliano ma tra i due professionisti – lo hanno scoperto gli investigatori – non risulta alcuna traccia telefonica, anche a ritroso nel tempo. Sul punto, però, il falso pentito fa poi una mezza marcia indietro: “Non so riferire quale fosse la fonte di informazione dello Sciamanna, non glielo chiesi mai. Posso solo dire, che per quanto da lui riferitomi, c’era questo progetto omicidiario ordinato da Matteo Messina Denaro e che sarebbe stato realizzato dai Casamonica“. Ma perché questo legale romano avrebbe dovuto sapere quali omicidi avesse in mente Messina Denaro? “Perché Messina Denaro era amico dello Sciamanna”, arriverà a dire Tuzzolino. Il legale romano, in un confronto all’americana con il collaboratore, ha negato ogni accusa. Tuzzolino dice che “Sciamanna ha paura di confessare” ma le indagini della Squadra Mobile smontano ogni dettaglio dei suoi racconti. Dopo il 21 settembre Tuzzolino capisce di essere intercettato e “ad ogni conversazione telefonica con la moglie non perdeva occasioni di tornare ai discorsi raccontati ai magistrati, ‘imboccando’ sistematicamente nozioni alla moglie. Nonostante Tuzzolino la tiri dentro in ogni occasione, lei durante un interrogatorio dice di non conoscere alcun avvocato”.

Tra i falsi presunti attentati c’è n’è anche uno contro il procuratore nazionale Antimafia, Franco Roberti. “Il progetto sarebbe attuale e dovrebbe essere eseguito nei pressi della Dia a Roma, in via Cola di Rienzo. L’attentato avrebbe coinvolto anche il dirigente della Dia che avrebbe accompagnato il Roberti nei suoi spostamenti”. Secondo Tuzzolino, invece, non ci sarebbe stato nessun rischio per il magistrato Nino Di Matteo, che come ha raccontato il collaboratore Vito Galatolo (lui sì considerato altamente attendibile) è stato condannato a morte da Messina Denaro: l’ordine di morte per il pm palermitano non è mai stato ritirato.

Sarebbero false anche le dichiarazioni che Tuzzolino ha messo a verbale sui favoreggiatori della latitanza del boss di Castelvetrano, garantita da ampie coperture composte da colletti bianchi e massoneria. “Con riguardo a Messina Denaro – dice la Principato, ascoltata come testimone dai colleghi di Caltanissetta – abbiamo riscontrato l’esistenza di luoghi (in particolare in Spagna e in Inghilterra) e persone che Tuzzolino riconduce al latitante ma non abbiamo riscontrato contatti diretti fra questi luoghi e queste persone con Messina Denaro”. Sull’ultima primula rossa di Cosa nostra Tuzzolino è un fiume in piena. “L’avvocato Sciamanna mi ha parlato di un’indagine sui conti svizzeri della figlia di Messina Denaro. Mi parlò anche di un indagine a carico di Domenico Scimonelli, a cui era arrivato un finanziamento di 750 mila euro, forse per un’azienda vinicola”. Tutte notizie riportate da articoli giornalistici pubblicati ben prima delle sue dichiarazioni. Il collaboratore fa il nome di un presunto “figlioccio” di Messina Denaro, un tale Massimo. “Sentendo questo nome e il riferimento a un negozio di abbigliamento – dice il magistrato Francesco Lo Voi – mi viene in mente la misura di prevenzione nei confronti dei Niceta e buona parte di queste notizie sono reperibili da fonti aperte”.

“Tuzzolino – scrive poi il gip – non manca di coinvolgere anche operatori del Nop, Nucleo operativo di protezione che vengono accusati, in modo del tutto gratuito, di tenere condotte irregolari, seppur non costituenti reato”. Per denunciare alcuni ufficiali del Nop nello scorso mese di marzo ha contattato la redazione de Le Iene per un’intervista. Non era soddisfatto del trattamento a cui veniva sottoposto. Soprattutto quando l’Ufficio Protezione di Roma aveva disposto il suo trasferimento in un’altra località protetta a lui non gradita. Al limite del surreale, invece, il comportamento tenuto dal falso pentito quando doveva recuperare un piccolo tesoretto che aveva detto di aver nascosto in Liechtenstein. Si tratta di ben 750 mila euro che il collaboratore ha sostenuto di possedere e di custodire in una cassetta di sicurezza presso una banca del paradiso fiscale europeo. Quando l’8 maggio scorso, un maresciallo della Guardia di Finanza gli fece sapere di aver comunicato all’Interpol di Berna, alla Dogana di Vaduz e al Comando Generale di Palermo del viaggio che dovevano fare per prelevare i soldi, Tuzzolino si disse indisponibile a causa di un’operazione chirurgica da realizzare entro pochi giorni. Una pantomima durata quindici giorni: secondo i riscontri degli inquirenti “non era vero che Tuzzolino si trovava ricoverato all’ospedale di Merano (luogo in cui diceva di doversi operare, ndr) come si evinceva dalla cellula censita dalla utenza telefonica a lui in uso nel comune di Bolzano”. Mentiva “per non recarsi a eseguire l’operazione di recupero delle somme di denaro, operazione su cui buon esito appare sin da ora non azzardato esprimere qualche perplessità“.