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appello

Il processo “Crimine” regge anche in appello

Un importante articolo di Claudio Cordova:

E’ la scommessa investigativa della DDA reggina. Una scommessa vinta. Anche le motivazioni d’appello del procedimento “Crimine” non fanno che confermare l’unitarietà della ‘ndrangheta. Un risultato ottenuto dopo decenni, sebbene fin dal summit di Montalto, del 1969, si parli di unitarietà delle cosche. E tanti saranno i riferimenti anche nelle indagini dei decenni successivi. Solo con il blitz del luglio 2010 (e con i vari procedimenti nati da esso) si arriverà all’assunto decisivo. Un’evoluzione, quella delle cosche, che si pone “in senso piramidale e tendenzialmente unitario dell’organizzazione criminale di stampo mafioso denominata Ndrangheta”. Ma anche “una evoluzione nella continuità, che dimostra ancora una volta la multiforme capacità dell’associazione illecita in oggetto – considerata ad oggi quella più potente e ramificata tra le organizzazioni mafiose storiche italiane – di adeguarsi ai tempi e di trovare delicati e efficaci punti di equilibrio e di sintesi tra rispetto delle tradizioni e delle regole (che affondano in un retroterra sociale e culturale arcaico e di sottosviluppo e di supplenza illegale rispetto alle assenze o complicità dello Stato) e adeguamento alle nuove realtà economiche e finanziarie, che offrono ulteriori e succulenti sbocchi alle attività illecite di questa organizzazione criminale”.

La Corte presieduta da Rosalia Gaeta, dunque, premia ancora una volta il lavoro dei pm antimafia reggini (Giovanni Musarò, Marialuisa Miranda e Antonio De Bernardo: “Può senz’altro dirsi che gli elementi raccolti nel presente procedimento penale possono realmente costituire la base per un primo vero processo contro l’associazione mafiosa denominata ‘Ndrangheta nel suo complesso, indistintamente dalle cosche di appartenenza dei singoli soggetti indagati” è scritto nelle motivazioni.

Di ‘ndrangheta unitaria si parlerà per decenni. Il 26 ottobre 1969, nel corso di un summit di Ndrangheta tenutosi in località Serro Juncari, ai piedi del massiccio di Montalto, sull’Aspromonte, interrotto dall’intervento della Polizia di Stato, il vecchio boss Giuseppe Zappia aveva affermato: “Qui non c’è ‘ndrangheta di Mico Tripodo, non c’è ‘ndrangheta di ‘Ntoni Macrì, non c’è ‘ndrangheta di Peppe Nirta! Si deve essere tutti uniti, chi vuole stare sta e chi non vuole se ne va”. Un ventennio dopo, in una conversazione intercettata il 8 maggio 1998 tra Filiberto Maisano e tale Leone Mauro, il primo diceva tra l’altro: “… non ci sono mandamenti per niente, compare Leo, ci sono …che se vi dà una carica per parte … una carica alla Tirrenica, una alla Jonica e una al Centro … (…) noi siamo tutti uomini dello stesso modo … siamo tutti del crimine … criminali … e basta! (…)”.

Ancora vent’anni dopo, il 20 gennaio 2009 nella città di Singen (Germania), durante una riunione tra affiliati, l’imputato Salvatore Femia chiede: “Ma il nostro referente che è sotto chi è?” – “Don Mico Oppedisano, risponde Tonino Schiavo, Lui è uno del Crimine! E’ di Rosarno (…) E’ il numero uno!”. Ed ancora, Bruno Nesci, residente in Germania, afferma “la società mia è da sette anni che sta rispondendo al Crimine, sette anni… e là c’è il nome mio, la società mia è aperta, non la devo aprire… loro devono aprirla…. che vada a domandare al crimine quali nomi rispondono”.

Nella stessa data, dialogando in Lombardia in ordine a dinamiche criminali di quel territorio, tale Nino Lamarmore (ritenuto intraneo alla Ndrangheta operante in quella regione del Nord Italia) diceva a Stefano Sanfilippo: “Noi prendiamo decisioni dal Crimine…. siamo andati a Platì”.

E subito dopo l’omicidio del boss scissionista Carmelo Novella, Giuseppe Piscioneri riferiva a Antonio Spinelli: “Nunzio (Novella Carmelo) era stato fermato da giù (dalla Calabria) … tutti gli uomini si possono fermare….la provincia…. Li ferma la provincia” ….” Quando sei fermo per la Calabria sei fermo per tutti”.

Scrive la Corte d’Appello: “E’ stata una precisa scelta processuale della stessa Direzione distrettuale antimafia reggina l’aver voluto impostare l’odierno processo come un giudizio per così dire di “Ndrangheta pura”, puntando sulle prove inerenti l’associazione criminale mafiosa in sé, senza portare alla cognizione di questo giudice (e, quindi, contestare agli imputati) se non una piccola parte di reati c.d. fine: ciò in quanto l’obiettivo era quello di dimostrare (peraltro con successo) l’esistenza di una struttura unitaria di un sodalizio storicamente e processualmente già accertato nella sua materialità, nonché una sua diffusività sul territorio (calabrese e non solo).

Una struttura unitaria da cui dipenderebbero le varie propaggini in giro per l’Italia e per il resto del mondo. Un discorso valido per tutti gli altri territori, quello che la Corte fa per la Lombardia: “Emerge certamente un quadro in evoluzione, nel tentativo di trovare un punto di equilibrio tra le aspirazioni autonomistiche dei locali lombardi e l’intento della “casa madre calabrese” di esercitare comunque un controllo sulle sue “filiazioni”; emerge, altresì la circostanza che i locali lombardi debbono essere riconosciuti dalla “Lombardia” per trovare riconoscimento anche in Calabria, anche se a sua volta la “Calabria” deve dare il nulla osta per conferire nuove doti e per aprire nuovi locali, estendendo la sua influenza ben al di là dello stretto ambito territoriale regionale (ed in ciò riscontrando specularmente quanto si vedrà a proposito dell’articolazione tedesca della Ndrangheta). Scrivono, ancora, gli inquirenti che “Le ” filiazioni lombarde” sono una imponente ” testa di ponte” per inserirsi in un mercato certamente più ricco e di più ampie prospettive rispetto alla realtà del sud. In effetti, un’ultima annotazione sul tema “la Lombardia”; come già si è detto in Lombardia sono “attivi” 20 locali per un complesso di circa 500 affiliati. Si tratta all’ evidenza di ” un piccolo esercito” a disposizione delle cosche calabresi le cui mire, al di là delle questioni di forma afferenti l’ attribuzione delle “cariche”, sono la spartizione degli affari, come afferma lo stesso capo del Crimine Micu Oppedisano”.

A chiedere consiglio (o permesso) ai vari Oppedisano e Commisso si recano personaggi da ogni parte del mondo: “In passato si trattava solo di usare un argomento logico-sistematico che, oggi, è invece divenuto un prepotente ed incontestabile dato fattuale: oltre alle inequivoche intercettazioni che saranno oltre riportate nel prosieguo dell’esame delle singole posizioni soggettive, deve sottolinearsi come si assiste ad un continuo “pellegrinaggio” che individui provenienti da ogni parte del globo effettuano presso l’agrumeto di Oppedisano Domenico e presso la lavanderia di Commisso Giuseppe. Quali ragioni, diverse da quelle di obbedire ad un’unica entità criminosa che determina la vita del sodalizio, potrebbero celarsi dietro i viaggi di soggetti residenti ed operanti in Germania, Canada, ecc.. presso i citati Commisso e Oppedisano, ai quali rendono conto e chiedono direttive sulla vita del sodalizio in terre distanti decine di migliaia di chilometri?” si chiede la Corte d’Appello.

L’indagine “Crimine”, dunque, riesce dove altri, in passato, avevano fallito: “Orbene, alla luce del poderoso compendio probatorio fin qui riportato, appare del tutto evidente che la conclusione raggiunta dal primo giudice, pienamente condivisa da questa Corte, non deriva da una costruzione investigativa, ma costituisce una conclusione obbligata dalle emergenze processuali dell’indagine, che rappresenta una decisa virata nella direttrice giudiziaria fin qui susseguìta. Si ribadisce, l’interprete non può che limitarsi a prendere atto che l’unitarietà della ‘ndrangheta è caratteristica attestata dagli stessi protagonisti, esplicitamente ed inequivocamente affermata in plurime conversazioni, peraltro intrattenute dai più disparati correi, in realtà territoriali del tutto diverse. Si cita, emblematicamente, la vicenda relativa al defunto boss Novella, cui gli stessi sodali hanno addebitato una volontà di “distaccarsi” dalla Calabria che ne ha determinato la “fine”, perché “la Provincia lo ha licenziato”, o ancòra le nette, plurime e convergenti affermazioni contenute nelle intercettazioni o le dichiarazioni rese dal collaboratore, secondo cui le ‘ndrine stanziate in Lombardia fuori dalla Calabria rispondono comunque al Crimine, da cui prendono “disposizioni”, richiamandosi poi le numerose altre emergenze citate dal GUP tutte conferenti con l’impianto accusatorio, posto che hanno in comune il medesimo denominatore: la “dipendenza” dei gruppi siti fuori regione dal “Crimine” e dalla “madrepatria”, da cui mutuano la struttura e derivano la loro stessa essenza , talchè risulta palesemente che se anche i precedenti processi celebrati nel distretto giudiziario reggino non abbiano riconosciuto l’esistenza di una struttura unitaria dell’associazione, ciò è avvenuto esclusivamente per un deficit probatorio che la presente indagine ha invece colmato ed anzi esaltato come detto in tutta la sua chiarezza”.

Inoltre, i giudici di secondo grado liquidano anche il pretesto, avanzato da più parti, della presunta assenza dei De Stefano nell’inchiesta: “Nell’ingente compendio probatorio acquisito al processo è rinvenibile un preciso e significativo riferimento alla famiglia ndranghetistica dei De Stefano, quali soggetti appartenenti alla storica cosca operante nella zona Nord di Reggio Calabria: ci si riferisce alle conversazioni fra Giuseppe Pelle e Giovanni Ficara, captate nei primi mesi del 2010 nella c.d. Operazione Reale, nel corso delle quali il secondo dichiarava esplicitamente, fra l’altro, che tutti appartenevano ad un’unica organizzazione, la “‘ndrangheta”, e, ragionando in merito a possibili alleanze, citava esplicitamente i De Stefano, soggetti “vicini” ai Ficara”.

Da qui, dunque, il dato, lapidario, espresso dalla Corte d’Appello presieduta da Rosalia Gaeta: “In conclusione, quindi, nessun dubbio può nutrirsi sulla corretta impostazione accusatoria, relativamente a tale caratteristica della struttura, rispetto alla quale non può neanche dirsi distonico il preteso disinteresse o comunque il mancato intervento dell’organismo unitario nelle fasi di criticità del sodalizio, quali le faide sanguinose o le c.d. guerre di mafia che hanno caratterizzato (e talora ancora caratterizzano) gli ultimi decenni. Invero, ciò è agevolmente spiegabile non solo con l’autonomia dei singoli “locali”, che comunque coesiste con il riconoscimento di una struttura apicale, di coordinamento e direzione, ma con la fisiologica esistenza ed inevitabilità di motivi di forte contrasto che animano qualsiasi consesso umano, maggiormente quelli a connotazione illecita, il cui sorgere non può certo essere impedito dall’esistenza di un’autorità che orienta la vita dell’intero gruppo criminoso. Anche la doglianza difensiva inerente tale aspetto dell’indagine risulta quindi infondata e va pertanto disattesa”.

Enzo Baldoni: a Milano ci sarà una via

Buone notizie:

Il sindaco di Milano ha tempestivamente accolto l’iniziativa: “Nei prossimi giorni – ha scritto Pisapia su Facebook – incontrerò i rappresentanti dell’associazione Articolo 21 che, a dieci anni dalla sua drammatica scomparsa in Iraq, ha promosso una petizione su Change.org affinché venga dedicato ad Enzo Baldoni uno spazio nella città di #Milano. Richiesta a cui verrà dato sicuramente seguito.

L’articolo è qui.

L’uomo ha bisogno di simboli. I tanti perché di una piazza dedicata ad Enzo Baldoni

Da Articolo 21:

“Mi riempe di gioia la petizione lanciata da Articolo21 affinché il Comune di Milano intitoli una piazza a Enzo Baldoni”, dice oggi Giusi Bonsignore, vedova del giornalista ucciso nel 2004 in Iraq. “Ringrazio i promotori dell’iniziativa e quanti parteciperanno apponendovi la loro firma”, continua, sperando di “avere presto un riscontro da parte delle istituzioni”. Una piazza, una via, oppure semplicemente un giardino, che ha iter amministrativi meno complessi, in nome di Enzo. Un modo per riannodare fatti e verità.

Così come è accaduto per il giardino pubblico dedicato a Lea Garofalo dalla città di Milano, in via Montello. Ci costringe a sbattere continuamente contro il ricordo di Lea, uccisa per avere avuto il coraggio di testimoniare – al Nord, per la prima volta – contro la ‘ndrangheta. Assume un enorme significato per la città, quello spicchio di verde intitolato a lei, a pochi metri da dove la testimone di giustizia fu prelevata, torturata e poi strangolata dall’ex compagno, boss del clan Cosco, infine fatta a pezzi per poter bruciare meglio i suoi resti.
Sarebbe doveroso per questa città – che ha ripreso la tradizione civile di dare memoria – ricordare allo stesso modo Enzo Baldoni, a dieci anni dalla sua morte, in un momento geopolitico così complesso, in cui trovare verità, mai come ora, richiede presenza, occhi puliti, scevri da condizionamenti ideologici.Esattamente i motivi per cui Baldoni è stato ammazzato. Enzo ha dato la vita per raccontare, per testimoniare la realtà fuori da ogni ideologia, lontano da estremismi di sorta e contro ogni oscurantismo. Morto dopo aver portato acqua e cibo nella città assediata di Najaf.
Firmare la petizione lanciata da Articolo21 sulla piattaforma di Change.org significa, per tutti, non perdere ciò che ha rappresentato quest’uomo curioso, fuori dalle corporazioni, dalle logiche di parte; un uomo libero che voleva andare oltre l’informazione di regime, credeva che si dovesse prima vedere per poi poter capire e raccontare. Un uomo non amato da chi riteneva che quella guerra fosse necessaria, così come dai Signori del terrore che lo hanno ammazzato.
Evitare il silenzio, cercare i fatti che in questi anni sono stati avvolti dall’ambiguità. In un’intervista a Repubblica la vedova di Baldoni ha raccontato risvolti finora sconosciuti; di come, dopo lo scoppio della mina sotto l’auto di Enzo, nessun convoglio della Croce Rossa si fermò a raccogliere lui e il suo interprete iracheno Ghareeb. “Furono abbandonati”, dice a distanza di un decennio. Per la vedova Baldoni, Maurizio Scelli, allora commissario straordinario per la Croce Rossa, “diffuse notizie false, dicendo che Enzo andava in giro alla ricerca di interviste impossibili. Tacere a noi dell’esplosione della mina fu un’omissione molto grave”. Gianni Barbacetto su Il Fatto Quotidiano in questi giorni ha ricostruito gli eventi, riportando le parole che lo stesso Scelli affidò all’Ansa dal Meeting di Rimini, tre giorni dopo il rapimento, quando già il corpo di Ghareeb era stato ritrovato: “Il fatto che non ci fosse il corpo di Baldoni, induce a pensare che Baldoni sia da un’altra parte. Auguriamoci che sia in giro a fare quegli scoop che tanto ama” (Ansa, 23 agosto, ore 17,37).
Oggi l’ex commissario della Protezione Civile minaccia querela per l’affermazione di Giusi Bonsignore, che, sempre nell’intervista a Repubblica, rimarca come Enzo non ricevette il sostegno che, invece, in Francia, fu dato a Chesnot e Malbrunot, giornalisti sequestrati in contemporanea e poi rilasciati. Afferma che a “contribuire ad armare la mano dei suoi assassini è stata la denigrazione e lo scherno di giornali come Libero. Impossibile dimenticare, durante la prigionia di Enzo – continua – la ferocia di due articoli di Vittorio Feltri e Renato Farina, intitolati ‘Vacanze intelligenti’ e ‘Il pacifista col kalashnikov’”.
“Più che memoria, la piazza dedicata a Enzo mi sembrerebbe un ripristino”, dice Giulio Cavalli, scrittore, attore, ex consigliere comunale in Lombardia, diversi anni passati sotto scorta per il suo impegno contro le mafie, e che da tempo tempo lavora con il figlio di Enzo, Guido Baldoni. “Condivido l’iniziativa – dice – perché non credo che questo paese possa permettersi di svendere una delle menti più raffinate del mondo pubblicitario italiano e del giornalismo del Terzo Settore come un ‘turista per caso’; quindi, una via, oppure una piazza, sarebbe un bel segno col pennarello rosso sulle bugie che mi sembra non si sia ancora smesso di costruire su di lui”.
Oggi è un dovere civile cercare di riempiere i vuoti lasciati. Così come accade nel giardino di Lea: lì, è come se Milano risorgesse, in un luogo che è stato di mafia e di morte e che oggi invece è diventato simbolo di legalità. Quel frammento di verde, strappato alla speculazione e all’ennesimo progetto di parcheggio in città voluto dalla giunta Albertini, anche grazie a Libera di don Ciotti, è diventato bene comune. Qui gli abitanti del quartiere – designer, architetti, insegnanti, cuochi – progettano le semine per l’orto, curano gli alberi, aprono e chiudono il cancello, organizzano eventi. “Lea, qui, vive”, ci raccontano sotto il cartello con la foto di lei e le parole “Vedo, sento, parlo”.
“L’homme y passe à travers des forêts de symboles”, scriveva Baudelaire. E continuiamo ad aver bisogno di simboli, di luoghi della memoria. Abbiamo bisogno di dare un senso ai vuoti. Abbiamo bisogno, ogni giorno, di sbattere contro quel che è stato – e deve continuare a essere – Enzo Baldoni: il coraggio di testimoniare, al di là degli steccati, delle parti politiche, delle lobby di potere, sempre.

31 agosto 2014

Intanto spuntano le candidature multiple

Sono perfettamente d’accordo con Alessandro Gilioli (ma anche Pippo Civati e la “renziana” Cristiana Alicata, per dire) sulla vergogna delle candidature multiple all’interno della nuova legge elettorale. Per questo firmo e vi invito a firmare l’appello qui:

Nella discussione sulla riforma elettorale in corso alla Camera il Nuovo Centro Destra di Angelino Alfano vuole inserire, all’interno dei listini bloccati, la possibilità che una stessa persona si candidi in più circoscrizioni, cioè appunto in più listini bloccati.

Questa ipotesi ha già ottenuto il placet di Forza Italia ed è ora sul tavolo della possibile mediazione con le altre forze politiche.

Aldilà di qualsiasi valutazione sul resto della proposta Italicum, la candidatura plurima è inaccettabile e vergognosa.

Essa ha scopi ed effetti evidenti, per quanto indicibili da chi la propone.

Primo, serve a garantire alla lista l’effetto civetta: si mette il nome noto e popolare in alto per trascinare il simbolo, anche se questo nome noto poi opterà per un altro collegio; si inganna quindi l’elettore, facendogli credere di essere rappresentato da una persona che in realtà rappresenterà altri.

Secondo, serve a conservare la poltrona in Parlamento ai big: con l’attuale sistema di redistribuzione dei seggi, i big dei partiti temono che alla fine l’elezione di un loro parlamentare scatti in collegi in cui loro non si sono presentati; quindi – per non rischiare – preferiscono candidarsi in più posti.

Terzo, serve ad aumentare il potere dei segretari e dei vertici: che con la loro opzione (cioè con la loro scelta sulle circoscrizioni in cui lasciare il posto al candidato successivo) possono cooptare ulteriormente gli ‘yes men’ a loro più vicini.

Quarto, serve a portar dentro gli amici impresentabili: li si mette al quarto o quinto posto nel listino in modo che non risaltino e poi, con il meccanismo delle opzioni, questi amici impresentabili entrano in Parlamento.

I firmatari di questo appello, pur nella loro diversità per visione politica e nel giudizio complessivo sull’Italicum, chiedono con la massima decisione a tutte le forze politiche e a tutti i parlamentari che questa proposta vergognosa venga bloccata sul nascere.

Barbaro, Papalia, Luraghi e tutte quelle altre cose lì di Buccinasco

Le parole sono importanti diceva Nanni Moretti e oggi ci insegnano che le sentenze dovrebbero scrivere la storia: declino triste per una nazione che aveva fatto della propria coscienza storica un esercizio collettivo senza bisogno di un giudice come certificatore. Eppure le parole delle sentenze sono anche le maniglie per noi osservatori e narratori di storie che sono come una arrampicata.

La sentenza di Cassazione del processo Cerberus aveva rispedito al mittente la natura mafiosa della famiglia Barbaro di Buccinasco direttamente da Platì (Salvatore Barbaro, il padre Domenico, il fratello Rosario, il cognato Mario Miceli arrestati nel 2008 insieme all’imprenditore lombardissimo Luraghi) azzerando le condanne, ritenendo che non fosse stata provata la mafiosità del gruppo di Buccinasco. Non erano stati argomentati in modo sufficiente i rapporti tra i Barbaro e i Papalia: non basta, per la suprema corte, il rapporto di parentela tra le due famiglie stretto con il matrimonio tra Salvatore Barbaro e Serafina Papalia, ma è necessario provare che il gruppo di Buccinasco abbia ereditato la “posizione criminale della precedente organizzazione”, la cosca dei Papalia. E non erano stati spiegati in modo certo e lineare i numerosi episodi di intimidazione entrati nel processo (auto bruciate, colpi di pistola d’avvertimento, cantieri danneggiati…).

Pochi giorni fa è arrivata la sentenza del nuovo processo d’appello: il gruppo Barbaro è erede della cosca Papalia e le intimidazioni sono il sistema con cui l’organizzazione ha conquistato un ruolo di preminenza nell’hinterland milanese, nel settore del movimento terra. Quella di Buccinasco, dunque, è ‘ndrangheta. E dunque Maurizio Luraghi (titolare dell’azienda “Lavori stradali”) è il tipo di imprenditore milanese che decide di fare affari con le cosche e ne è sodale prima che vittima. Stringe un rapporto con la cosca Barbaro per ottenere appalti, sicurezza e favori economici e poi ne rimane stritolato. Cose vecchie che qui ripetiamo da un po’ di tempo, per carità, ma che ricominciano ad avere “le carte a posto”.

 

Cultura: per non morire di fame

con la cultura non si mangiaFederculture con altre associazioni nei giorni scorsi ha lanciato un appello che in realtà come ha dichiarato il presidente Roberto Grossi è “una richiesta di precise assunzioni di responsabilità su alcuni punti qualificanti – centralità delle competenze e della formazione, modernizzazione della gestione di beni e attività culturali, valorizzazione del lavoro giovanile, investimenti su creatività e innovazione, riforma della fiscalità per il settore culturale – che rivolgiamo a coloro che si candidano a guidare lo sviluppo del paese. Perché, al di là della retorica, senza cultura non c’è sviluppo e per questo è ora di passare dalle parole ai fatti.”

Ecco l’appello, partito da MAB Musei Archivi Biblioteche, AIB – Associazione Italiana Biblioteche, ANAI – Associazione Nazionale Archivistica Italiana, ICOM Italia- International Council of Museums, Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli, FAI – Fondo Ambientale Italiano, Federculture, Italia Nostra, Legambiente, Comitato per la bellezza e che ha tra i primi firmatari, Tullio De Mauro, Luciano Canfora, Giuliano Montaldo, Tomaso Montanari, Salvatore Settis

I promotori e i firmatari del presente appello chiedono a chi si candida a governare l’Italia impegni programmatici per il rilancio della cultura intesa come promozione della produzione creativa e della fruizione culturale, tutela e valorizzazione del patrimonio, sostegno all’istruzione, all’educazione permanente, alla ricerca scientifica, centralità della conoscenza, valorizzazione delle capacità e delle competenze.
La crisi economica e la conseguente riduzione dei finanziamenti stanno mettendo a dura prova l’esistenza di molte istituzioni culturali, con gravi conseguenze sui servizi resi ai cittadini, sulle condizioni di lavoro e sul futuro di molti giovani specificamente preparati ma senza possibilità di riconoscimento professionale. Questa situazione congiunturale è aggravata dalla crisi di consenso che colpisce la cultura, che una parte notevole della classe dirigente – pur dichiarando il contrario – di fatto considera un orpello inattuale, non elemento essenziale di una coscienza civica fondata sui valori della partecipazione informata, dell’approfondimento, del pensiero critico.
Noi rifiutiamo l’idea che la cultura sia un costo improduttivo da tagliare in nome di un malinteso concetto di risparmio. Al contrario, crediamo fermamente che il futuro dell’Italia dipenda dalla centralità accordata all’investimento culturale, da concretizzare attraverso strategie di ampio respiro accompagnate da interventi di modernizzazione e semplificazione burocratica. La nostra identità nazionale si fonda indissolubilmente su un’eredità culturale unica al mondo, che non appartiene a un passato da celebrare ma è un elemento essenziale per vivere il presente e preparare un futuro di prosperità economica e sociale, fondato sulla capacità di produrre nuova conoscenza e innovazione più che sullo sfruttamento del turismo culturale.
Ripartire dalla cultura significa creare le condizioni per una reale sussidiarietà fra stato e autonomie locali, fra settore pubblico e terzo settore, fra investimento pubblico e intervento privato. Guardare al futuro significa credere nel valore pubblico della cultura, nella sua capacità di produrre senso e comprensione del presente per l’avvio di un radicale disegno di modernizzazione del nostro Paese.
Per queste ragioni chiediamo che l’azione del Governo e del Parlamento nella prossima legislatura, quale che sia la maggioranza decisa dagli elettori, si orienti all’attuazione delle seguenti priorità.

  • Puntare sulla centralità delle competenze
  • Promuovere e riconoscere il lavoro giovanile nella cultura
  • Investire sugli istituti culturali, sulla creatività e sull’innovazione
  • Modernizzare la gestione dei beni culturali
  • Avviare politiche fiscali a sostegno dell’attività culturale

I promotori e i firmatari del presente appello chiedono di accogliere nei programmi elettorali queste priorità e di sottoscrivere i dieci obiettivi seguenti, che dovranno caratterizzare il lavoro del prossimo Parlamento e l’azione del prossimo Governo. Il nostro sostegno, durante e dopo la campagna elettorale, dipenderà dall’adesione ad essi e dalla loro realizzazione.

Riportare i finanziamenti per le attività e per gli istituti culturali, per il sistema dell’educazione e della ricerca ai livelli della media comunitaria in rapporto al PIL.
Dare vita a una strategia nazionale per la lettura che valorizzi il ruolo della produzione editoriale di qualità, della scuola, delle biblioteche, delle librerie indipendenti, sviluppando azioni specifiche per ridurre il divario fra nord e sud d’Italia.
Incrementare i processi di valutazione della qualità della ricerca e della didattica in ogni ordine scolastico, riconoscendo il merito e sanzionando l’incompetenza, l’inefficienza e le pratiche clientelari.
Promuovere sgravi fiscali per le assunzioni di giovani laureati in ambito culturale e creare un sistema di accreditamento e di qualificazione professionale che eviti l’immissione nei ruoli di personale non in possesso di specifici requisiti di competenza. Salvaguardare la competenza scientifica nei diversi ambiti di intervento, garantendo organici adeguati allo svolgimento delle attività delle istituzioni culturali, come nei paesi europei più avanzati.
Promuovere la creazione di istituzioni culturali permanenti anche nelle aree del paese che ne sono prive – in particolare nelle regioni meridionali, dove permane un grave svantaggio di opportunità – attraverso programmi strutturali di finanziamento che mettano pienamente a frutto le risorse comunitarie; incentivare formule innovative per la loro gestione attraverso il sostegno all’imprenditoria giovanile.
Realizzare la cooperazione, favorire il coordinamento funzionale e la progettualità integrata fra livelli istituzionali che hanno giurisdizione sui beni culturali, riportando le attività culturali fra le funzioni fondamentali dei Comuni e inserendo fra le funzioni proprie delle Province la competenza sulle reti culturali di area vasta.
Ripensare le funzioni del MiBAC individuando quelle realmente “nazionali”, cioè indispensabili al funzionamento del complesso sistema della produzione, della tutela e della valorizzazione dei beni culturali, per concentrare su di esse le risorse disponibili. Riorganizzare e snellire la struttura burocratica del ministero, rafforzando le funzioni di indirizzo scientifico-metodologico e gli organi di tutela e conservazione, garantendone l’efficienza, l’efficacia e una più razionale distribuzione territoriale.
Inserire la digitalizzazione del patrimonio culturale fra gli obiettivi dell’agenda digitale italiana e promuovere la diffusione del patrimonio culturale in rete e l’accesso libero dei risultati della ricerca finanziata con risorse pubbliche.
Riconoscere l’insegnamento delle discipline artistiche e musicali tra le materie curriculari dell’insegnamento scolastico nelle primarie e secondarie e sviluppare un sistema nazionale di orchestre e cori giovanili e infantili.
Prevedere una fiscalità di vantaggio, compreso forme di tax credit, per l’investimento privato e per l’attività del volontariato organizzato e del settore non profit a sostegno della cultura, con norme di particolare favore per il sostegno al funzionamento ordinario degli istituti culturali. Sostenere la fruizione culturale attraverso la detraibilità delle spese per alcuni consumi (acquisto di libri, visite a musei e partecipazione a concerti, corsi di avviamento alla pratica artistica); uniformare l’aliquota IVA sui libri elettronici a quella per l’editoria libraria (4%); prevedere forme di tutela e di sostegno per le librerie indipendenti.

 

Un impegno antifascista

La Rete Antifascista Milanese ci invia una Carta di impegno antifascista che è un impegno a vigilare sul rispetto della Costituzione. Il vostro affezionato ha aderito:

Logo_RAMCARTA DI IMPEGNO ANTIFASCISTA

Qualora fossi eletto/a il 24-25 febbraio 2013 al consiglio regionale lombardo, mi impegno:

a tutelare il carattere antifascista della Costituzione italiana;

a difendere i valori e la memoria della Resistenza da ogni attacco denigratorio o revisionista;

a sostenere le associazioni partigiane, antifasciste e dei deportati nei campi di concentramento;

a favorire le iniziative in ricordo della Lotta di Liberazione e dei suoi martiri, a partire dal 25 aprile;

a promuovere tutte le iniziative in favore della diffusione della cultura antifascista e della storia della Resistenza, in particolare nell’ambito scolastico e fra le nuove generazioni;

a battermi contro ogni manifestazione di discriminazione o intolleranza etnica o religiosa;

a rifiutare l’installazione di targhe commemorative o l’intestazione di vie o piazze a personaggi legati al ventennio mussoliniano o a ideologie che ad esso si richiamano;

a oppormi all’autorizzazione di manifestazioni in luogo pubblico a organizzazioni, associazioni o movimenti che si rifanno al fascismo e/o al nazismo, che ne propagandano le idee o ne rivalutano le figure di riferimento;

a negare, nell’ambito delle mie competenze, la concessione di spazi e sedi di proprietà pubblica a dette organizzazioni o movimenti, chiedendo altresì la chiusura di quelle già operanti.

Giulio Cavalli

Ricordati che devi rispondere

In vista delle elezioni politiche 2013, Amnesty International Italia lancia la campagna “Ricordati che devi rispondere. L’Italia e i diritti umani“, attraverso la quale sottoporrà ai leader delle coalizioni e a tutti i candidati delle circoscrizioni elettorali, un’Agenda in 10 punti per i diritti umani in Italia.

Io ho firmato. Domande, risposte e l’appello le trovate qui.

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Consumare le suole piuttosto che il suolo

2012_10_29_17_51_19Eddyburg (che tante volte abbiamo citato e discusso sul nostro piccolo blog) propone un appello ai candidati di Regione Lombardia per assumere un impegno concreto contro il consumo di suolo (lo trovate qui).

Lo sottoscrivo con la convinzione e la fierezza di essere stato membro del comitato ristretto che ha discusso la bella iniziativa di legge di Legambiente (la trovate qui) e le analisi che abbiamo proposto in questi anni.

E consumiamo le suole per scaldare questa campagna elettorale. Con le energie e con le idee. Energia ecologica, insomma. Davvero.