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«Mangio io la torta TAV»: e l’imprenditore si prende 7 anni per mafia

«Ce la mangiamo io e te la torta dell’alta velocità», aveva detto in una delle telefonate intercettate dagli investigatori. Alla fine, invece, l’imprenditore Giovanni Toro, 49 anni, di Castelletto Ticino, ha rimediato 7 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo il Tribunale di Torino ha favorito la ‘ndrina di San Mauro Marchesato distaccata in Piemonte, smantellata dai carabinieri del Ros e dalla Dda di Torino con l’operazione «San Michele» nell’estate 2014.

Condannati altri cinque imputati (e altri undici erano stati condannati un anno fa in abbreviato). I pm avevano chiesto pene per un totale di 74 anni. Per l’impresario la richiesta era stata di 11 anni.

In base all’impianto accusatorio Toro si era interessato agli affari dell’Alta Velocità in Val di Susa per conto della cosca crotonese «Greco», interessata a estendere radici criminali in Piemonte. L’uomo, già arrestato nel 2014 assieme a altre 25 persone nell’ambito di un’inchiesta nata come stralcio della più vasta operazione «Minotauro» del 2011, si è sempre detto innocente. Per gli inquirenti era invece uomo chiave. Nelle carte dell’indagine ci sono espliciti riferimenti all’interesse delle cosche per gli appalti Tav, tanto da registrare diversi summit preparatori in casa madre calabrese, per decidere e organizzare la spartizione della torta milionaria. È lo stesso Toro a confermarlo in una intercettazione: «Ricordati queste parole… che ce la mangiamo io e te la torta dell’alta velocità». E al telefono diceva anche: «No Tav? Se arrivano li schiaccio con il rullo».

Secondo i pm, nel 2012 l’imprenditore di Castelletto aveva ottenuto vantaggi e commesse lavorative dai suoi contatti con la ‘ndrangheta («nei cui confronti manteneva relativa autonomia») aveva permesso a ditte indicate dalla ‘ndrina di partecipare ad appalti assegnati alla Toro srl e di scaricare rifiuti residui di lavorazioni edili e stradali aggirando le normative. E aveva esercitato pressioni e minacce contro alcuni concorrenti che volevano pignorare beni a un amico imprenditore.

(fonte, La Stampa)

Gli italiani che derubano sui rom

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Ogni tanto la cronaca regala drammaturgie finissime, inaspettate come saprebbe fare solo la penna di un creativo potente: a Roma, dopo una campagna elettorale (fiacchetta) di salvinate contro i rom succede ancora una volta che un’indagine della magistratura racconti quanta gente continui a lucrare sui campi rom. Illegalmente. Rubano sui campi rom e sono italiani, italianissimi. Romani al midollo.

I problemi in Italia sono problematici solo per quelli che non ci guadagnano: i rom, i rifugiati, gli ammalati, gli anziani, i disabili, i disoccupati, i senza casa e molti altri fragili ancora sono una miniera d’oro per chi ha lo stomaco di non intenerirsi. E oltre a essere un’ottima palude per un funzionale sistema correttivo si può anche fingere di intenerirsi o odiarli secondo le bisogna. Cosa c’è di meglio di un nemico da abbattere disponibile a diventare un’emergenza stabile?

(il mio buongiorno per Left continua qui)

A Roma chiudere l’ufficio rom, intanto.

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A proposito degli arresti di oggi a Roma vale la pena leggere l’intervento di Claudio Stasolla, presidente dell’Associazione 21 luglio:

«La prima volta che ho incontrato Virginia Raggi è stato in una giornata di fine estate del 2013 quando, come consigliera comunale, mi chiese di organizzare una visita presso alcune baraccopoli della Capitale. Da alcuni giorni donne e bambini rom vagavano lungo le strade di Tor Sapienza dopo il primo sgombero organizzato dalla Giunta Marino, che aveva messo per strada 35 famiglie in precedenza scappate da Castel Romano. Andammo da loro e per strada, sotto un telone di nylon, ascoltammo le loro storie di persone alle quali le ruspe comunali, oltre alla abitazioni, avevano abbattuto i diritti fondamentali. Virginia pianse.

Poi, sulla strada del ritorno, passammo a visitare una famiglia nella baraccopoli di Salone. Ad accoglierci fu Maria che ci parlò dei suoi quattro figli, del marito incensurato che non ce la faceva più a raccogliere ferro, della dermatite dovuta all’ansia che le aveva macchiato il volto e le braccia. Fu una visita breve ma intensa. Al ritorno in macchina le solite frasi di rito, dettate dalla rabbia e dalla frustrazione: «Questi campi non devono più esistere. Dobbiamo fare qualcosa!»

Oggi Virginia Raggi – che da quel giorno ho incontrato più volte nel tentativo di trovare insieme risposte al superamento delle baraccopoli – è diventata sindaco e quel «Dobbiamo fare qualcosa!» assume un valore diverso perché entra nella sfera della possibilità concreta. Ma per farlo occorre seguire un ordine di priorità chiaro e definito anche se, dopo gli arresti delle ultime ore, una cosa è urgente realizzare: chiudere l’Ufficio Rom del Comune di Roma, da vent’anni chiamato a gestire la vita all’interno dei cosiddetti “campi nomadi” della Capitale.

Non sarà una cosa facile! Si tratta di rimuovere dirigenti, funzionari delle forze dell’ordine, assistenti sociali, sedicenti “rappresentanti rom” direttamente o indirettamente collusi con un sistema dove scorrono mazzette, dove si parla il linguaggio del sopruso, dove la corruzione è sempre presente dietro l’angolo. Lo denunciamo senza mezzi termini da anni: c’è una massa cancerogena all’interno dell’amministrazione capitolina, che va estirpata alla radice perché con la sua presenza sarebbe garantito il fallimento di ogni intervento di discontinuità. La prima volta che lanciai questa raccomandazione fu nel corso di un convegno in Campidoglio, alla presenza dell’assessore di turno. Seguì un lungo brusio che tagliava un’aria pesante. Due mesi dopo la Guardia di finanza perquisì gli uffici dell’assessorato ed eseguì un arresto.

Quando scrivo di “massa cancerogena” mi riferisco a persone in carne ed ossa che da Veltroni ad oggi, passando per Alemanno, Marino e due commissari straordinari, sono sempre rimasti al loro posto, tra sgomberi, trasferimenti forzati, aperture e chiusure di nuove baraccopoli, incontri istituzionali, convegni,… Le stesse che in questi anni, la mattina operano sgomberi forzati a braccetto con i “capi rom” consenzienti, all’ora di pranzo li ritrovi dietro una scrivania degli uffici comunali, alla sera li incontri in un aperitivo a conversare con rappresentanti istituzionali o di organizzazioni che operano nel sociale. Tutto intorno a loro è cambiato ma loro sono sempre rimasti al loro posto, come pedine di una partita dove chi vince sono i furbi e i perdenti sono i cittadini rimasti indietro. Perché anche a questo servono i “campi rom” della Capitale: ad acquisire potere e ad accumulare fortune. E da questi Virginia Raggi dovrà ripartire da subito per dare un segnale di legalità e di rispetto dei diritti perché è davvero giunto il momento nel quale «Dobbiamo fare qualcosa!».

Bobo Ramazza

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È un capolavoro politico quello di Maroni: è riuscito a scontentare CL, il Nuovo Centrodestra, i leghisti più salviniani (Salvini incluso) e i “formigonini sempre in piedi” senza riuscire a debellarli.

Poi oggi cade sul suo uomo di fiducia che sembra essere subito “entrato” nell’ottica storica della sanità lombarda: il ladrocinio.

Insomma arrestava i mafiosi (diceva lui) e non riesce nemmeno ad accorgersi dei mariuoli. Bravo Maroni: alla fine sei riuscito nel miracolo di riabilitare Umberto Bossi e passare Salvini come uno statista. Ora non ti resta che resistere e gridare al complotto: poi sei il Presidente di Lombardia perfetto.

Chissà come sorriderebbe oggi Libero Grassi, dopo i vespri di Bagheria

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Chissà che sorriso avrebbe Libero Grassi stamattina, sfogliando i giornali che raccontano della rivoluzione dolce avvenuta a Bagheria, dove gli imprenditori (trentasei imprenditori trentasei) hanno capito il trucco per essere forti contro quella mafia che spesse volte è sembrata invincibile, irrefrenabile oppure troppo comoda; hanno capito di dovere essere “insieme”. Chissà cosa direbbe Libero Grassi nell’accorgersi che la sua lezione, quella di un uomo lasciato solo, è stata scritta non solo sui libri di storia o citata nelle manifestazioni per la legalità ma oggi è diventata un uso concreto, un sentiero percorribile e percorso mica dagli esegeti dell’antimafia o i paladini di polistirolo: oggi hanno denunciato imprenditori, gente di giacche, fatture e fornitori, gente straordinariamente quotidiana. Oggi più che un’alba è il suono della sirena di inizio turno ma senza il fischio fastidioso del dovere; la sirena stamattina ha suonato con dentro tutto il clangore dei diritti, del dovere di applicare i propri diritti che è un lusso irrinunciabile appena lo si assaggia.

Se avete mai avuto la fortuna di ascoltare le parole di quella minuta e fortissima donna che è Pina Maisano, la vedova Grassi, vi sarà capitato di cadere nel crepaccio peloso della solitudine in cui è stato bollito Libero Grassi prima di essere ucciso. Qui da noi capita che gli eroi diventino eroi per la vigliaccheria di tutti quelli intorno e nessuno come la Mafia sa bene quanto sia facile disinnescare qualcuno rimasto isolato. E ci si isola mica solo per paura ma spesso anche per la sensazione di non avere nessuno a cui porgere la mano, in uno Stato che troppe volte è stato una melma ghiacciante piuttosto che un buon rifugio. Gli imprenditori siciliani che oggi hanno stanato il “Porco” (Pietro Giuseppe Flamia) signorotto incontrastato (e invece contrastabile) del pizzo là intorno a Bagheria hanno semplicemente deciso di stare “insieme”: di fare “rete”, di diventare associazione di tre o più persone dedite alla denuncia dell’illegalità. Un’associazione a denunciare. Che è una frase bellissima anche da scrivere. Eppure questa profumo siciliano ha nelle gambe anche tutti questi anni di cittadinanza attiva, di ostinata pratica reale sul territorio, di speranza che non si è mai fatta disperata rimanendo sempre in piedi nonostante le mafie e nonostante lo stato dello Stato.

(continua qui)

Il pizzo è in crisi, Cosa Nostra si sposta sulla droga

Mafia: Vincenzo Giudice  © Copyright ANSA
Mafia: Vincenzo Giudice
© Copyright ANSA

I carabinieri del Comando provinciale di Palermo hanno eseguito 39 misure cautelari, disposti dal gip, nei confronti di esponenti del clan mafioso di Pagliarelli, accusati di associazione mafiosa, traffico di droga, estorsione e corruzione. Nel corso dell’indagine sono stati sequestrati centinaia di chili di droga. L’inchiesta, coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia guidata dal procuratore di Palermo Francesco Lo Voi, ha disarticolato i vertici dei clan di Pagliarelli, Corso Calatafimi e Villaggio Santa Rosalia.

La crisi economica che attanaglia i commercianti palermitani spinge i boss a tornare al traffico degli stupefacenti, business attualmente privilegiato rispetto al racket delle estorsioni che, negli ultimi anni, ha rimpinguato le casse dei clan e sostentato le famiglie dei ‘picciotti’ detenuti. Nel corso dell’inchiesta, coordinata dalla Dda, i carabinieri hanno sequestrato oltre 250 chili di droga. Scoperte, comunque, diverse estorsioni: i commercianti continuano a pagare anche se qualcuno trova il coraggio di denunciare. Un imprenditore, che stava effettuando lavori di ristrutturazione al Policlinico, si sarebbe rivolto agli inquirenti raccontando loro di avere ricevuto una richiesta di pizzo di 500 mila euro. Tra gli altri, in cella, sono finiti i tre nuovi capi del mandamento di Pagliarelli, una sorta di triumvirato che, dopo le decine di arresti degli ultimi anni, tentata di riorganizzare il clan.

La cosca sarebbe stata guidata da un triumvirato composto da Alessandro Alessi, Vincenzo Giudice e Massimiliano Perrone. Questi gli arrestati nell’ambito del blitz dei carabinieri che ha disarticolato il clan a Pagliarelli: Alessandro Alessi, Giuseppe Perrone, Vincenzo Giudice, Michele Armanno, Giovan Battista Barone, Salvatore Sansone, Tommaso Nicolicchia, Andrea Calandra, Giosuè Cadtrofilippo, Giovanni Giardina, Alessandro Anello, Carlo Grasso, Antonino Spinelli, Matteo Di Liberto, Rosario Di Stefano, Aleandro Romano, Stefano Giaconia, Giuseppe Giaconia, Concetta Celano, Giuseppe Castronovo. Ai domiciliari sono finiti Vincenzo Bucchieri, Paolo Castrofilippo, Daniele Giaconia, Giovanni Correnti, Antonino Calvaruso, Gaetano Vivirito, Luigi Parolisi, Carmelo Migliaccio, Salvatore Ciancio, Domenico Nicolicchia, Giuseppe Bruno, Pietro Abbate e Antonino Abbate. Per Mauro Zampardi, Angelo Milazzo, Cosimo Di Fazio, Giovanni Catalano, Giuseppe Di Paola e Francesco Ficarotta e’ stato disposto l’obbligo di dimora.

(fonte)

Milanesi, tenete calde le spugne per la Pedemontana

Io non so come trovare le parole per raccontare la devastazione che sta dietro alle lingue di asfalto che sono state progettate per sfamare gli interessi cementizi. Non so se ci si rende conto che con la scusa del “servono per l’Expo” abbiamo perso chilometri di territorio non ripristinabile per decreto. Non so come ripetere ancora che Giuseppe Sala, il dominus di EXPO, ha avuto arrestati per tangenti i suoi due collaboratori più stretti. Non so se vi ricordate che la famiglia mafiosa di Carlo Cosco (colui che uccise la sua ex moglie Lea Garofalo) lavorava sulla linea 5 della metropolitana milanese e viveva tranquillamente in case ‘popolari’ come un bisognoso qualsiasi. Non so se avete avuto modo di verificare quanto poco siano state mantenute le promesse di infrastrutture nei paesi toccati da queste nuove strade, autostrade, tangenziali e autotangenziali che hanno sostituito spesso campi agricoli. Agricoltura: il tema di EXPO che si è fatta il trucco con piastre di cemento su terreni privati e che, nonostante le parole a vuoto, non si sa cosa sarà dopo.

Certo la devastazione in città fatta di fiamme e oscenità spruzzate sui muri è facile, evidente, sotto gli occhi di tutti. E certo è una risposta di dignità scendere con le spugne in mano a pulire. Certo. Ma tenete calde le spugne perché tra poco arriveranno novità dalla Procura anche sugli appalti della Pedemontana. E magari questa volta facciamo che ce ne accorgiamo. Eh?

Sacra Corona Unita (internazionale): 19 arresti tra Lecce, Germania e Svizzera

Blitz all’alba dei carabinieri contro la “sacra corona unita”: arrestate 19 persone appartenenti al clan De Tommasi-Notaro(quest`ultimo arrestato il primo dicembre scorso dopo un periodo di latitanza, perché colpito da altra misura cautelare in carcere per associazione mafiosa), operante nel nord della provincia.
I provvedimenti sono stati disposti dal Giudice per le Indagini preliminari del Tribunale di Lecce su richiesta della locale Direzione Distrettuale Antimafia e gi arresti sono stati eseguiti in provincia di Lecce, in Germania e Svizzera, dove due persone sono ricercate poiché colpite da mandato di arresto internazionale.

Vengono contestati i reati di associazione di tipo mafioso di cui all`art. 416 bis, associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, detenzione e porto abusivo di armi anche clandestine, estorsioni e rapina.
Nel corso dell`intensa ed articolata attività investigativa sono stati accertati una serie di episodi intimidatori, anche a scopo omicidiario, tra membri dello stesso clan. Obiettivo, la conquista della leadership sul territorio, finalizzata al controllo del traffico di stupefacenti e delle altre attività illecite.

Le indagini hanno permesso di ricostruire una serie di eventi, in particolare numerose intimidazioni attuate attraverso l`esplosione di colpi d`arma da fuoco contro persone, auto e abitazioni degli affiliati, prologo di una faida interna per la supremazia del gruppo emergente.  In distinte operazioni, sono stati eseguiti numerosi sequestri di droga e di un arsenale di armi nella disponibilità del clan. Quest`ultimo sequestro, operato dai carabinieri all`insaputa dei detentori, ha accresciuto in questi la preoccupazione di una imminente escalation di violenza da parte della fazione rivale.
Nel corso della pianificazione delle azioni di fuoco in danno degli avversari, gli investigatori sono riusciti a disinnescare ogni minaccia eseguendo numerosi controlli con conseguenti arresti. Nel dettaglio: 9 persone sono state arrestate in flagranza di reato, nel corso delle indagini di cui 7 per stupefacenti e due per detenzione di armi.

(fonte)