C’è un porcellum più odioso di qualsiasi alchimia elettorale dei partiti o tecnici di governo che arrancano per preservarsi. E’ una dinamica elettorale odiosa perché cresce sulla disattenzione degli onesti e lascia praterie da percorrere da indisturbati a pezzi di criminalità organizzata. L’utilizzo del voto di preferenza è il modo democratico per dichiarare che quella persona, quel nome e cognome, è il portatore dei nostri interessi leciti. E’ passato questo concetto? Tra i siti di informazione, i giornali, i blog ci siamo preso la responsabilità di dichiarare con forza che la lobby degli interessi leciti è obbligatoria per una cittadino utile alla democrazia? Perché negli ultimi anni ci siamo stupiti per i successi elettorali di uomini vicini alla criminalità organizzata e non ne abbiamo studiato le cause? Le mafie negli ultimi anni hanno utilizzato la convergenza sulle preferenze per avere la certezza di un proprio uomo all’interno delle istituzioni. Hanno vinto non solo sul piano dell’illegalità ma anche (e soprattutto) sulla consapevolezza e la conoscenza dei meccanismi politici. Noi non siamo stati abbastanza vivi: non abbiamo raccontato, analizzato, spiegato, alzato la voce. Per questo io e Pippo Civati chiediamo a voi (e a noi) di sfruttare le prossime amministrative per recuperare il tempo perso. La campagna #preferenzepulite è un memorandum per tutti: scegliete il vostro sindaco, la vostra coalizione ma presidiate anche il consiglio comunale scegliendo il vostro consigliere. Più si alza la soglia numerica di preferenze per entrare in Consiglio Comunale e più le mafie saranno disturbate nei loro uomini. E poi, in fondo, ogni volta che si sfrutta una possibilità di esprimere un voto, vince la Costituzione e la Democrazia. Nelle ultime elezioni amministrative la criminalità organizzata ha avuto gioco facile nell’eleggere un consigliere all’interno delle istituzioni a cui fare riferimento e su cui esercitare le proprie pressioni. I dati elettorali degli ultimi anni indicano chiaramente come bastino qualche decina di voti per entrare nei consigli comunali di città importanti per dimensione, posizione e attività sul territorio. Ne parla spesso anche Nando Dalla Chiesanel suo decalogo antimafia e le ultime operazioni contro le mafie (anche in Lombardia) hanno stilato l’elenco dei nomi e dei cognomi. Se ‘ndrangheta, cosa nostra e camorra utilizzano lo strumento del voto di preferenza meglio e più consapevoli della stragrande parte degli elettori il problema non è solo politico: è un problema di cittadinanza praticata troppo poco. Se le mafie dimostrano di conoscere gli strumenti democratici e di utilizzarli a proprio vantaggio significa che anche su questo punto noi dobbiamo provare ad essere più vivi. Il “porcellum mafioso” è garantito dagli argini troppo bassi. Per questo chiediamo in questi ultimi giorni di campagna elettorale che i candidati sindaci, la stampa, i partiti, la rete e la società civile alzino la voce sull’uso responsabile della preferenza da esprimere nel seggio. Indicare un cognome di cui fidarsi e a cui affidarsi non è solo il modo per non delegare solo alla coalizione l’attenzione per i punti di programma e avere una persona di riferimento; dare il voto di preferenza significa alzare l’argine contro le mafie per rendere più difficile la loro gestione del consenso.
La furia e l’ignoranza con cui Bruno Vespa e Maurizio Gasparri hanno parlato ieri sul primo canale del servizio pubblico della norma ammazza-blog mi pare un eccellente spaccato dell’Italia moribonda. A me invece ha fatto impressione vedere e ascoltare questi signori chiusi nel loro tinello di codici culturali e politici del secolo scorso, terrorizzati da ciò che cambia senza che loro riescano a capirlo, ansiosi quindi di sfornare divieti e multe per arginare in qualche modo ciò che gli sfugge. Alessandro Gilioli ha trovato le parole giuste: mummie imbalsamate, con gli occhi e il cervello avvolti da molteplici strati di bende.
Perché siamo tutti d’accordo (vero?) che informarsi prima di indignarsi (giustamente) è un obbligo morale. E perché agli attacchi insulsi della corporazione dei servi ignoranti sarebbe bello rispondendo nel merito.
Oggi – giorno in cui Google compie 13 anni – riprende il suo iter in Italia – alla Camera, dopo un anno di stop a causa delle polemiche – il ddl1415-C, soprannominato, tra le tante, “anti-intercettazioni“, “anti-blog“, “ammazza-internet“, “legge-bavaglio“.
Si tratta di un disegno di legge già approvato dai deputati, poi modificato in Senato, che ora torna in terza lettura all’attenzione dei deputati.
Oggi verranno esaminate e votate le questioni pregiudiziali di costituzionalità di merito presentate.
Il ddl, dal titolo “Norme in materia di intercettazioni telefoniche, telematiche e ambientali. Modifica della disciplina in materia di astensione del giudice e degli atti di indagine. Integrazione della disciplina sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche“, potrebbe formare oggetto di una questione di fiducia posta dal Governo, tesa a scavalcare il dibattito parlamentare ed approvare in tempi rapidissimi le nuove norme.
Il 29 settembre – giorno in cui si prevede da più parti la presentazione della questione di fiducia da parte del Governo – è stata indetta una manifestazione in piazza del Pantheon a Roma, dalle 15 alle 18.
Due opinioni intanto, tra le tantissime che in queste ore vengono espresse sulla Rete:
“Bendare tutti per salvarne uno. Questo sembra essere ormai l’unico criterio che guida la maggioranza nella riproposizione della legge bavaglio, perché di bavaglio si tratta, come confermano le critiche dei magistrati e dei cronisti, i veri destinatari della legge, quelli che dovranno essere ‘ammanettati’ per impedire loro l’accertamento degli illeciti e soprattutto per oscurare il diritto ad essere informata della pubblica opinione” (Giuseppe Giulietti, Articolo 21).
“Sarebbe davvero una sciagura per la libertà di parola sul web se, preoccupato di assecondare l’urgenza della maggioranza nell’approvazione del ddl, il Parlamento licenziasse il testo nella sua attuale formulazione” (Guido Scorza, Istituto per le Politiche dell’Innovazione)
Per il momento ciascuno realizzi il suo servizio pubblico scegliendo solo e soltanto i programmi di suo gradimento, anche e soprattutto se godono dello “sgradimento” dell’amico di Lavitola e Tarantini. Beppe Giulietti sul Fatto Quotidiano.
Il diritto di accendere i riflettori sui Cie (Centri di identificazione) e sui Cara (Centri di accoglienza per richiedenti asilo): è la richiesta proveniente dalla giornata di mobilitazione, intitolata“LaciateCIEntrare”, che vede oggi giornalisti italiani e stranieri, parlamentari di diverse forze politiche, consiglieri regionali, sindacalisti, associazioni e attivisti della società civile manifestare davanti ad alcuni centri in tutta Italia.
Obiettivo dell’iniziativa – promossa da un comitato composto da Fnsi, Ordine dei giornalisti, Articolo 21, Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi), Primo marzo, Open Society Foundation, European Alternatives; tra i parlamentari, da Jean Leonard Touadi, Rosa Villecco Calipari, Savino Pezzotta, FabioGranata, Giuseppe Giulietti, Furio Colombo, Francesco Pardi (Leggi l’elenco completo degli appuntamenti); i consiglieri regionali di Sel Giulio Cavalli e Chiara Cremonesi – dire no al divieto, stabilito nella circolare n. 1305 del ministero dell’Interno emanata il 1° aprile 2011, con cui si nega ai cronisti la possibilità di accedere a questi centri. Tra i promotori persino Livia Turco, che nel 1998 firmò insieme all’attuale presidente della Repubblica Giorgio Napolitano la legge che istituiva i centri di identificazione e espulsione – che allora si chiamavano Cpt, ovvero centri di permanenza temporanea. La manifestazione si è svolta a Roma, Bologna, Modena, Gradisca, Torino, Milano, Bari, Cagliari, Santa Maria Capua Vetere, Trapani, Catania, Lampedusa, Porto Empedocle. I Cie e i Cara “sono da tempo off limits per l’informazione – ha spiegato il comitato promotore -, luoghi interdetti alla società civile e in cui soltanto alcune organizzazioni umanitarie arbitrariamente scelte riescono ad entrare”.
“La circolare voluta da Roberto Maroni – ha denunciato ancora il comitato – ha reso ancora più inaccessibili tali luoghi, fino a data da destinarsi, in nome dell’emergenza nordafricana”. Giornalisti, sindacati, esponenti di associazionismo antirazzista umanitario nazionale e internazionale, presenti nel territorio in cui sono ubicati Cie e Cara, “sono considerati secondo il testo ministeriale “un intralcio” all’operato degli enti gestori e per questo tenuti fuori. Questo si traduce di fatto in una sospensione del diritto-dovere di informazione che si va ad aggiungere alle tante violazioni già riscontrate in questi centri”.
Il primo appello per l’abrogazione della circolare era stato pubblicato il 26 maggio dal sitoFortress Europe. Lo stesso sito che oggi ha diffuso la notizia, corredata da quattro foto di una giovane tunisina percossa – secondo il suo stesso racconto – da due uomini della Guardia di finanza. La donna, reclusa nel centro di identificazione ed espulsione di Roma, a Ponte Galeria, mostra gli evidenti segni di percosse e manganellate sulla schiena e sul braccio. E racconta: “Stavamo giocando a calcio, io ho colpito la palla e ho preso una ragazza nigeriana sul viso, abbiamo iniziato ad insultarci e alla fine ci siamo prese per i capelli. In quel momento a Ponte Galeria c’era una grande ostilità tra ragazze tunisine e nigeriane anche perché sono le nazionalità più numerose. Nessuna mollava la presa e sentendo le grida sono entrati tre uomini, due della Guardia di Finanza e uno in borghese. Hanno iniziato a manganellarmi per separarci, davanti a tutte le ragazze che assistevano alla scena. Sono stata picchiata dietro la schiena, sul braccio e alla spalla. Mi sono lamentata più volte con gli infermieri del Cie per i forti dolori chiedendo di poter essere accompagnata in ospedale. Ma mi hanno dato sempre e solo dei tranquillanti.” I fatti risalgono agli inizi di giugno 2011. Adesso la ragazza è stata rimessa in libertà. Le foto sono state scattate all’interno della biblioteca del Cie e consegnate da una fonte anonima a Fortress Europe, che le diffonde in anteprima attraverso l’agenzia Redattore Sociale.
Sel: la violazione più grave è il mancato diritto di difesa
Cavalli, consigliere regionale di Sel, dopo la visita istituzionale all’interno della struttura di via Corelli a Milano: “Ogni volta che si entra in questi centri si sentono persone denunciare i pestaggi e le violenze subite. Ormai è un fatto accertato”.
“La violazione più grave sta nel mancato diritto di difesa: qua dentro nessuno sa cosa gli stia succedendo”. Giulio Cavalli, consigliere regionale di Sel, è appena uscito dalla visita istituzionale all’interno del Cie di via Corelli, a Milano. “Ogni volta che si entra in questi centri -prosegue l’attore e politico-, si sentono persone denunciare i pestaggi e le violenze subite. Ormai è un fatto accertato”.
Non appena la delegazione di parlamentari e consiglieri regionali (con l’aggiunta dell’assessore comunale al Welfare Pierfrancesco Majorino, in un primo tempo bloccato all’ingresso) ha varcato la soglia del centro, si è formato un assembramento di detenuti attorno al gruppo, ognuno con la sua storia da raccontare. Ciò che stupisce Chiara Cremonesi, consigliere regionale Sel, è che avevano in mano i loro documenti d’identità: “Non c’è una reale volontà di identificazione. Dal Cie si giustificano dicendo che nonostante il documento si tratta di persone che vanno espulse perché prive di permesso di soggiorno, e che i consolati sono lenti nel provvedere”.
Aumentano i casi di autolesionismo e di tentati suicidi, l’ultimo proprio ieri notte. “Un’impennata che si è registrata nel corso delle ultime due settimane -spiega Chiara Cremonesi- legata alla decisione di prolungare la detenzione da 6 a 18 mesi”. Perché lo fanno? “Sono venuti a sapere che qualcuno, dopo essersi ferito, era stato graziato – risponde il consigliere regionale Sel Giulio Cavalli – non si sa in base a quale principio”. “Mi chiedo come abbiamo fatto a lasciare che questo diventasse possibile”, commenta.
La vicenda più incredibile riguarda un uomo rumeno, rinchiuso da mesi nel centro. “Ha tre bambini nati tutti in Sardegna e dice che pagherebbe il viaggio per andarsene coi suoi soldi se solo lo lasciassero uscire”, racconta Giulio Cavalli. Il consigliere regionale Sel assicura che farà le verifiche necessarie per capire come mai questa persona si ritrova detenuto in un centro d’espulsione, nonostante sia comunitario. Uno dei numerosi aspetti su cui è necessario fare luce, rimasto oscuro in virtù della direttiva del ministero dell’Interno 1305, datata primo aprile 2011: un giro di vite che ha limitato l’accesso ai Cie solo a pochissime Ong internazionali, oltre a Croce Rossa, Caritas e gli altri enti che hanno convenzioni aperte con il Viminale.
“Dentro ci sono 94 persone di cui quattro prorogati con la nuova direttiva. Un’area del centro è tutta da risistemare per la rivolta di maggio, mentre la sala benessere sembra piuttosto una fotografia della Diaz” afferma Giulio Cavalli al termine della visita. I “quattro” sono immigrati a cui stava scadendo il termine di permanenza nel Cie, allungato a 18 mesi con il decreto rimpatri. “Ci è capitato di parlare con gente” continua Cavalli “come un cittadino rumeno che ci ha mostrato di avere i documenti dei tre figli nati in Sardegna, che si dice disposto, per uscire di lì e incontrare i suoi figli, anche a pagarsi pure il viaggio”. Ma il vero problema sono i legali “che dovrebbero essere la chiave di volta per uscire da questa situazione, e invece sono messi a disposizione dalla Croce Rossa, che sono i custodi di questa gente”.
Milano. Il Centro di Identificazione ed Espulsione di via Corelli ha altissime mura di cemento, qualche tratto costellato da filo spinato e militari e polizia a presidiare gli ingressi. Qui si sono ritrovati cittadini, giornalisti (il presidio era organizzato dall’Associazione Lombarda Giornalisti) e alcuni esponenti della politica, per ribadire che non consentire l’ingresso alla stampa nei centri è un ‘buco nero nel sistema democratico del paese’, così come lo ha definito Giulio Cavalli (Sel) presente sul posto. Con lui anche il parlamentare del Pd Jean-Lèonard Touadi, Giuseppe Civati consigliere regionale sempre del Pd e l’assessore al welfare Pierfrancesco Majorino. Civati e Touadi sono entrati nel centro perchè “autorizzati”, Majorino ha tentato ma senza successo: al loro ritorno ci siamo fatti raccontare come è andata e Touadi ha lanciato un invito al Ministro dell’Interno Roberto Maroni: ‘Dovrebbe venire a fare un giro qui”. Servizio Federica Giordani
Sottoscrivo completamente l’appello di Pietro Nardiello per ARTICOLO21 a sostegno dell’amico Sergio Nazzaro. Contro questo uso strumentale e intimidatorio dell’arme della querela per zittire l’informazione e l’opinione intellettualmente onesta.
di Pietro Nardiello
In queste ore i giudici sostengono che “le mafie sono entrate a pieno titolo in Parlamento” e, mentre accade tutto questo, un’altra espressione dello Stato pensa a querelare e a cercare di mettere il bavaglio a quei giornalisti che quotidianamente raccontano, onorando il diritto di cronaca e d’informazione, i territori del nostro Paese affamati e resi schiavi proprio dalla criminalità organizzata presente e attiva nelle espressioni più varie.
Il caso specifico riguarda il giornalista e scrittore Sergio Nazzaro querelato (si può leggere il documento allegato) dall’onorevole del PDL Mario Landolfi. Scorrendo le pagine del documento si legge che Sergio Nazzaro avrebbe, con i suoi articoli, “costituito una vera e propria campagna diffamatoria” con cinque articoli pubblicati rispettivamente sul settimanale Left e su siti internet tra il 25 maggio del 2006 e il 27 gennaio del 2009. Tutto in apparenza normale se non fosse per la data, febbraio dell’anno in corso, riportata dalla richiesta di risarcimento di 25.000, 00 notificata a Nazzaro. Dunque, secondo l’onorevole Mario Landolfi un giornalista pone in essere con i suoi articoli una campagna diffamatoria nei suoi confronti in un arco temporale di oltre tre anni e lui ritiene opportuno querelarlo dopo un anno dalla pubblicazione dell’ultimo articolo in questione?
Un’azione del genere mi crea stupore perché a poche settimane dalle elezioni, un appuntamento molto importante anche per la regione Campania e la provincia di Caserta, un’azione del genere non può che essere letta come l’ennesimo atto intimidatorio di una politica incapace di difendersi nei luoghi indicati, il Parlamento, ma dispotica e arrogante che utilizza l’arma della querela per intimorire chi cerca, con difficoltà, di svolgere questa professione mantenendo la schiena dritta.
Non sono più accettabili atteggiamenti del genere. I giornalisti hanno il dovere di raccontare i fatti, di descrivere le vicende di questo Paese dove le mafie sembra siano diventati voce autorevole e in più di un caso addirittura classe dirigente.
Raccontare le storie che avvengono in terra di camorra è diventato molto pericoloso, ed è per questo che dobbiamo far sentire a Sergio Nazzaro la nostra vicinanza.
Io sto con Nazzaro perché voglio un Paese dove si possono, finalmente, raccontare i fatti; io sto con Nazzaro perché voglio un Paese dove i Politici cacciano dal Parlamento gli inquisiti e i condannati senza se e senza ma; io sto con Nazzaro perché sono stanco di vedere la gente del mio Sud emigrare a causa della morsa criminale; io sto con Nazzaro e chiedo alla Direzione di Articolo 21 di aprire sul sito del quotidiano una raccolta di firme dei tanti, che in queste ore, vorrebbero esprimere la propria solidarietà a Sergio.