Caso Manca: un po’ di luce
C’è voluto un pentito del clan dei Casalesi per dire quello che i familiari di Attilio Manca sostengono da dieci anni: che l’urologo di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) in servizio all’ospedale “Belcolle” di Viterbo non si è suicidato con una overdose di eroina, ma è stato “suicidato” dalla mafia. C’è voluto l’ex killer Giuseppe Setola – un pentito “autorevole” e “di spessore”, come viene definito da Antonio Ingroia, legale della famiglia Manca – per “movimentare” il fascicolo dei magistrati di Viterbo e per portare la Direzione distrettuale antimafia di Roma – coordinata dal procuratore Giuseppe Pignatone – ad aprire un fascicolo di indagini preliminari “modello 45”, inserendo il caso “nel registro degli atti non costituenti notizia di reato”, ovvero nel registro “nel quale raccogliere quegli atti che riposano ancora nel ‘limbo’ della non sicura definibilità, ma che postulano una fase di accertamenti preliminari”.
Detenuto nel carcere di Napoli, nei mesi scorsi Giuseppe Setola ha voluto incontrare i Pm palermitani Nino Di Matteo e Roberto Tartaglia – i magistrati che si occupano della Trattativa, particolare, forse, non secondario – per riferire di avere appreso da un compagno di cella che la morte di Attilio Manca – avvenuta a Viterbo l’11 febbraio 2004 – è da collegare all’operazione di cancro alla prostata alla quale, nell’autunno del 2003, fu sottoposto a Marsiglia il boss Bernardo Provenzano.
Le dichiarazioni di Setola sono state secretate e trasmesse alla Direzione distrettuale antimafia di Roma e alla Procura della Repubblica di Viterbo. Pignatone ora si sta muovendo su due fronti: acquisire informazioni sull’attendibilità del pentito presso la Procura di Napoli, e acquisire gli atti dell’indagine dalla Procura di Viterbo, in modo da avere una visione completa del caso. Dall’ipotesi di decesso per overdose – su cui è stato imbastito il processo che inizia domani a Viterbo – si potrebbe passare all’ipotesi di omicidio di mafia. La competenza, a quel punto, spetterebbe alla Dda di Roma. “Ritengo di fondamentale importanza – afferma l’avv. Ingroia – le dichiarazioni di Setola, visto lo spessore criminale dello stesso. Ho anticipato al procuratore di Roma l’intenzione di depositare una richiesta formale di apertura delle indagini per omicidio di mafia in danno di Attilio Manca, a nome e per conto della famiglia”.
A quel punto andrebbero chiarite diverse posizioni: per esempio quella di alcuni “amici” barcellonesi, strenui difensori della memoria di Attilio quando si parlava di “suicidio”, acerrimi accusatori (con ritrattazioni incredibili che gli inquirenti, evidentemente, non hanno notato) quando si è ventilato un coinvolgimento di Cosa nostra; la posizione del cugino della vittima, tale Ugo Manca, organico alla mafia di Barcellona (diversi precedenti penali e una condanna a quasi dieci anni per traffico di droga, con assoluzione in appello), di cui è stata trovata un’impronta palmare nell’appartamento dell’urologo; la posizione dell’ex capo della Squadra mobile Salvatore Gava, secondo il quale Attilio Manca – nei giorni in cui Provenzano era sotto i ferri a Marsiglia – non si sarebbe mosso dall’ospedale “Belcolle”, circostanza smentita clamorosamente alcuni mesi fa dalla trasmissione “Chi l’ha visto”; la posizione di alcuni poliziotti che – al momento del ritrovamento del cadavere – hanno redatto il verbale di sopralluogo, scrivendo che la vittima non presentava segni di violenza in tutto il corpo (versione contrastante con le foto); la posizione della prof.ssa Danila Ranalletta, medico legale che ha effettuato l’autopsia, la quale nel referto ha ignorato lo stato del volto (ridotto a una maschera di sangue), del setto nasale (deviato), delle labbra (tumefatte), dei testicoli (enormi e contrassegnati da un evidente ematoma).
Da chiarire la posizione dei magistrati che hanno portato avanti l’indagine: dovrebbero spiegare, tra l’altro, perché Attilio – mancino puro – è stato trovato morto con due buchi nel braccio sbagliato, quello sinistro; perché per ben otto anni non hanno ordinato il rilievo delle impronte digitali sulle siringhe (siringhe ritrovate con il tappo salva ago ancora inserito); perché senza uno straccio di prova hanno insistito per dieci anni sull’ “inoculazione volontaria” della vittima; perché non hanno ancora spiegato alcuni presunti retroscena relativi all’esame tricologico (l’esame sul capello della vittima per accertare assunzioni pregresse di stupefacenti): i magistrati sostengono che è stato effettuato e che è risultato positivo; i legali dei Manca affermano che agli atti non esiste c’è alcun esame tricologico (accusando quindi gli inquirenti di dire il falso); perché non hanno richiesto alle compagnie telefoniche i tabulati relativi all’autunno del 2003 per stabilire se davvero – come sostiene la famiglia Manca – il medico era in Francia mentre Provenzano veniva operato; perché non hanno richiesto altri tabulati telefonici ritenuti “interessantissimi” e attualmente depositati presso il Tribunale di Messina.
Secondo Antonio Ingroia “si può immaginare che la decisione di uccidere Attilio sarebbe maturata quando questi, accortosi della vera identità del ‘signor Gaspare Troia’, avrebbe espresso il suo dissenso a determinati personaggi che avrebbero fatto da tramite fra lui e Provenzano”. Tutto da verificare ovviamente. Ma è un tassello che potrebbe incardinarsi fra altri due tasselli: il primo riguarda una frase sibillina pronunciata da Provenzano lo scorso anno, quando l’ex parlamentare europeo Sonia Alfano andò a fargli visita in carcere: “Signor Provenzano, ricorda il giovane urologo Attilio Manca?”. E lui: “Hama mettiri mmenzu autri cristiani?”, dobbiamo mettere in mezzo altra gente? Una risposta criptica che l’on. Alfano traduce così: “Dobbiamo coinvolgere altre persone (oltre a quelle già compromesse) che hanno protetto la latitanza del boss?”. Già, perché “Binnu ‘u tratturi” ha trascorso un pezzo della sua quarantennale clandestinità proprio nella città di Attilio Manca, Barcellona Pozzo di Gotto, “zona franca” per boss come lui. Nel libro “Un ‘suicidio’ di mafia” dedicato alla strana morte di Attilio Manca, Sonia Alfano, supportata da un investigatore a quel tempo impegnato nelle indagini su Provenzano, svela che l’urologo avrebbe utilizzato una struttura privata di quella zona per visitare il signor “Gaspare Troia”. “Zona franca” anche per Nitto Santapaola, il cui covo segreto fu scoperto dal giornalista Beppe Alfano, ucciso per questo l’8 gennaio 1993.
Il secondo tassello riguarda Ciccio Pastoia, ex braccio destro di Provenzano, che nel 2005, intercettato dalle “ambientali”, parlò di “un” dottore che ha “curato” il boss corleonese. Si riferiva ad un medico che lo avrebbe visitato in Italia prima dell’intervento – diagnosticandogli il tumore – e che lo avrebbe seguito, sempre nel nostro paese, nelle cure post operatorie? Non lo sapremo mai, almeno non da Pastoia: don Ciccio è morto “impiccato” nel carcere di Modena poco tempo dopo. La sua tomba è stata incendiata nel cimitero di Belmonte Mezzagno dopo il seppellimento. Oggi forse potremmo saperlo da Setola. Intanto la Commissione parlamentare antimafia il 27 e il 28 ottobre sarà a Barcellona. Primo argomento in agenda: il caso Manca.
(fonte)